venerdì 30 novembre 2012

Il parere di un lettore, Paolo Castellari, sui quattro volumi dedicati da Camillo Pavan alla Grande Guerra


Il giorno 29 novembre 2012 09:03, paolo castellari <paolo.castellari@ [...]> ha scritto:

Gent. mo Sig. Pavan, ho letto con attenzione i suoi 4 libri sulla Grande Guerra, che ho acquistato come ebook. A mio parere, essi costituiscono un prezioso contributo per comprendere a fondo questo terribile evento. Squarciato il velo della retorica nazionalista e bellicista, la Grande Guerra emerge nella sua più profonda, e forse ancora incompresa natura, di immenso crimine che ha inflitto enormi sofferenze a milioni di persone, soprattutto i più poveri, deboli e indifesi. Il verismo con cui vengono descritti i patimenti dei soggetti da ogni parte coinvolti mi fa pensare ad alcuni films di Spielberg (Schindler's List, Salvate il Soldato Ryan o Amistad), mentre l'attenzione alla voce dei testimoni mi ricorda il libro sul Vajont di una grande Veneta, Tina Merlin.
I luoghi della Piave tra Treviso e Belluno (Quero, Vas e Fener) mi sono familiari perché sin da bambino vi transitavo per recarmi sulle Dolomiti. Ricordo ancora il freddo pungente e la Piave spesso ghiacciata e popolata da folaghe ed altri uccelli. Leggendo i suoi testi, sono portato a pensare che  l'Inferno era forse un luogo più accogliente rispetto a quelle località nell'ann d'la fam.
Cercherò, per quanto mi è possibile, di far sì che i suoi libri vengano conosciuti, soprattutto nelle scuole.
Cordiali saluti
Paolo Castellari - Faenza 

lunedì 1 ottobre 2012

Dighe del Piave - Dighe e centrali idroelettriche del Bacino del Piave

PIAVE, dighe del piave - centrali elettriche del piave - dighe sade - le dighe della sade sul piave - società adriatica di elettricità storia elenco dighe del bacino del piave

LE DIGHE E LE CENTRALI IDROELETTRICHE 
DEL BACINO DEL PIAVE
Alto Piave, Ansiei, Boite, Maè, Vajont, Santa Croce, 
Fadalto, Cordevole, Mis, …


Elenco completo degli impianti

con i dati tecnici al 1963.
Ristampa di pubblicazioni ufficiali
della SADE,
Società Adriatica di Elettricità.
Il volume, con le sue numerose foto e i dati tecnici ufficiali, fu pubblicato in occasione della vendita all’ENEL degli impianti SADE, all’epoca della nazionalizzazione dell’energia elettrica.
È un libro indispensabile per chi vuole conoscere gli imponenti lavori che, nei primi sessant’anni del Ventesimo secolo, hanno portato allo sfruttamento intensivo — a fini energetici — di ogni rivolo d’acqua del Piave e dei suoi affluenti.
Il panorama delle vallate bellunesi venne radicalmente cambiato. Fiumi e torrenti furono imbrigliati. Spuntarono nuovi laghi artificiali. La montagna fu traforata da chilometri e chilometri di gallerie per il trasporto dell’acqua in pressione. Migliaia di uomini trovarono nel lavoro per il colosso idroelettrico veneziano una momentanea alternativa all’emigrazione.
Un’opera grandiosa, non c’è dubbio. Tuttora fonte di energia preziosa per il nostro apparato produttivo e per il nostro stile di vita che di energia non sono mai sazi.
Con un piccolo corollario, che nel libro non è nominato: l’apocalisse del Vajont.

domenica 30 settembre 2012

Dighe Tagliamento, centrali idroelettriche di Tagliamento, Cellina, Isonzo - Libro disponibile

Tagliamento Cellina Isonzo: Dighe e centrali elettriche
Lo sfruttamento idroelettrico di Tagliamento, Cellina, Isonzo

Il volume, con le sue numerose foto e i dati tecnici ufficiali, riproduce parti di alcune pubblicazioni uscite in occasione della vendita all’ENEL degli impianti SADE, all’epoca della nazionalizzazione dell’energia elettrica.
È un libro indispensabile per chi vuole conoscere gli imponenti lavori che, nei primi sessant’anni del Ventesimo secolo, hanno portato allo sfruttamento intensivo — a fini energetici — dell’alto corso di Tagliamento, Cellina, Isonzo
Il panorama delle vallate venne radicalmente cambiato. Fiumi e torrenti furono imbrigliati. Spuntarono nuovi laghi artificiali. La montagna fu traforata da chilometri di gallerie per il trasporto dell’acqua in pressione. Migliaia di uomini trovarono nel lavoro per il colosso idroelettrico veneziano una momentanea alternativa all’emigrazione.
Un’opera grandiosa, non c’è dubbio. Tuttora fonte di energia preziosa per il nostro apparato produttivo e per il nostro stile di vita che di energia non sono mai sazi.

Elenco degli impianti

con i dati tecnici al 1963

Ristampa di pubblicazioni ufficiali della SADE Società Adriatica di Elettricità

Gian Antonio Cibotto, Il Gazzettino, 2006 - Giorgio Barbieri, La Provincia di Cremona, 2016


Gian Antonio Cibotto,
Il Gazzettino, edizione di Rovigo 
Domenica, 12 Marzo 2006


SALOTTO POLESANO
SUL BURCIO DEI BARCARI DEL PO
di G. ANTONIO CIBOTTO

Un amico che ha la passione del nostro Delta, dove si affaccia ogni tanto catturato dal vezzo della pesca (l'illusione dello storione l'ha tuttavia abbandonato), mi ha inviato in dono dalla provincia di Treviso un nobile libercolo intitolato "Navigare sul Po", illuminato da una stupenda foto accompagnata dalla spiegazione: "Storia di una famiglia di barcari". Vale a dire i Gnan, dei quali vengono riportate le auree (non è una esagerazione) testimonianze, raccolte da Camillo Pavan, del padre Attilio e della madre Maria Toffolo, compreso il periodo in terra belga con lui minatore nel pozzo di Goutroux. Un'esperienza negativa dalla quale è fuggito ritornando in terra polesana dove ha ripreso a navigare con un bel burcio motorizzato di nome Maria Giuliana, al quale per ricordo dei suoi anni di miniera ha dato poi il nome di Charleroi. Il felice ritorno è durato fino al 1. marzo del '70, quando una domenica di fine marzo nel calare l'antenna della radio un colpo di vento gli ha fatto sfuggire la presa e un'asta di cinque metri l'ha colpito alla testa. Dopo la sua morte è iniziata la stagione del figlio Adriano, che è stato assunto nel '71 e rimasto sul Po fino al marzo 2004. Per capire la felicità che provava lungo il fiume, dove è stato l'ultimo erede di una famiglia di barcari polesani (Gnan Trivèa) che da almeno duecento anni navigava sulle acque del Po, basta riportare una sua frase: «Il Po, per me, è stato un banco di prova, il fiume che mi ha impegnato su tutti e quello che ho amato più di tutti». Alla quale, per dare un'idea della singolare qualità del libro, non sarà male forse aggiungere la chiusura di "Navigare sul Po": «Dai burci di legno alle moderne chiatte, dall'emigrazione del dopoguerra all'alluvione del cinquantuno: sessant'anni di storia, vita e lavoro nel racconto in presa diretta degli ultimi eredi di un'antica famiglia di barcaioli di Donada».


Giorgio Barbieri, La Provincia di Cremona, 1 luglio 2016

Giorgio Barbieri, La Provincia di Cremona, recensione di Navigare sul Po

Pagina iniziale di NAVIGARE SUL PO                   -                   PER ORDINARE


Pagina iniziale - Navigare sul Po, C. Pavan 2006 - Fiume Po, navigazione fluviale (interna) - Testimonianza storica

(Storia della navigazione fluviale - interna in Italia)


Camillo Pavan, Navigare sul PoStoria di una famiglia di barcari - Pagine 32, formato 17 x 24, punto metallico.




Dai burci di legno alle moderne chiatte,
dall'emigrazione del dopoguerra all'alluvione del Cinquantuno:
sessant'anni di storia, vita e lavoro nel racconto in presa diretta
degli ultimi eredi di un'antica famiglia di barcaioli di Donada






Indici  

Per ordinare         libro  € 9,00   ebook  € 2,49




Da questo libro è tratto lo spettacolo teatrale di Beatrice Zuin Celestina e il fiume - Prima rappresentazione: Teatro Camploy di Verona, 10 marzo 2022 



Pagina iniziale - I paesi e la città in riva al Sile, C. Pavan 1991 - Libri sul fiume Sile




Camillo Pavan, I paesi e la città in riva al SileUn secolo di storia del fiume in 142 cartoline - (1991) - Hanno collaborato: Anselmo Lemesin e Francesco Turchetto - Pagine 128, formato 18x30, cartonato.

Come le foto della nostra infanzia, le vecchie immagini dei nostri paesi,
della nostra città, del nostro fiume, sanno suscitare ricordi ed emozioni



Indice  


Per ordinare      libro   € 18,08   ebook  € 7,07




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venerdì 28 settembre 2012

Enrico Guerrazzi (sito grandeguerra.com : 1998-2008) - Giudizio su "In fuga dai tedeschi", di C. Pavan


Il giorno 14-01-2005 15:34, Enrico Guerrazzi, enrico@grandeguerra.org ha scritto:

> Caro Camillo,
>
> oggi ho ricevuto il pacco con le copie dei libri, frutto delle tue ricerche
> sul tema della Grande Guerra.
> Ti ringrazio innanzitutto per il gentile pensiero e ti faccio le mie
> congratulazioni per aver portato a termine, nonostante le difficoltà, il
> progetto che ha consentito, tra l'altro, di raccogliere preziose
> testimonianze sul Conflitto, ormai, per legge della natura, non più udibili
> dai diretti interessati. Non è adulazione la mia, ma penso che il tuo lavoro
> costituisca un addendum importante e originale nella copiosa letteratura
> sulla G. G. fiorita negli ultimi venti anni (…)


Enrico Guerrazzi ( † 2008, S. Maria Hoè LC) è stato ideatore e editore del primo importante sito italiano sulla Grande Guerra: grandeguerra.com, in rete dal 1998 al 2008.
Particolarmente frequentato era il suo "Libro degli ospiti", che per molti anni – prima dell'avvento dei "social" – fu il principale punto d'incontro degli appassionati di storia della Prima guerra mondiale.
Sono fra l'altro grato ad Enrico (persona di grande spessore umano e culturale) perché volle inserirmi, gratuitamente, nel ristretto gruppo degli "Amici" in una posizione del sito strategica, grazie alla quale il mio lavoro ebbe una notevole visibilità in rete.


Il logo del sito web di Enrico Guerrazzi
"www.grandeguerra.com"
rimasto in rete fra il 1998 e il 2008


Paolo Deotto, 2005 - Recensione "In fuga dai tedeschi", di C. Pavan



Recensione su Storia in Network
Numero 104 - Giugno 2005


IL LIBRO IN PRIMO PIANO - "In fuga dai tedeschi" racconta la tragedia
vissuta da veneti e friulani dopo lo sfondamento delle linee italiane a Caporetto
IL MARTIRIO DEI CIVILI TRAVOLTI
DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE
di PAOLO DEOTTO
"Era una catastrofe.un mondo che si rovescia, una cosa che non si riesce a spiegare. Ho visto un finimondo, tutto fuoco, un mondo di fuoco in lontananza, molto largo, incredibile. Tutta l'Italia scappava, scappavano i feriti, gli ammalati, con carreggi e senza carreggi. Non c'era ordine, era un disordine enorme, come delle mosche che si gettano fuori, così. Era un finimondo, non si può parlare di ordine, di carabinieri, di polizia."
(testimonianza di Luigi Disastri, operaio militarizzato)
". nella ritirata, quando gli italiani sono scappati, quando li hanno mandati, sì, quando hanno dovuto andare sul Piave, quella sera lì. avevano grandi magazzini di munizioni e hanno fatto scoppiare tutte le munizioni. Il cielo era tutto una fiamma, tutto una fiamma, pareva che scoppiasse il mondo; tutto il cielo era un grande fuoco."
(testimonianza di Maria Cantarut, di Brazzano di Cormons)
Il cielo stesso era di fuoco: era il finimondo . Era la rotta di Caporetto, un nome che riassume in sé stesso il concetto di catastrofe, di evento terribile. E torna a parlarcene Camillo Pavan, lo storico, già noto ai nostri lettori (sui numeri 51 e 61 di Storia in Network presentavamo le sue precedenti opere), che ha dato al nostro disattento Paese un'opera importantissima sulla Grande Guerra, un'opera che trova il suo coronamento in questi due libri di cui vogliamo parlarvi, "In fuga dai Tedeschi - l'invasione del 1917 nel racconto dei testimoni" e "L'ultimo anno della prima guerra - il 1918 nel racconto dei testimoni friulani e veneti".

Quando si parla di guerra, la storiografia può offrirci analisi politiche e militari, più o meno orientate. Le grandi guerre e le grandi battaglie sono da sempre oggetto degli studi più approfonditi, soprattutto quando si tratti di conflitti che, come la Prima Guerra, hanno
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La copertina del libro
di Camillo Pavan
sconvolto equilibri, cambiato la mappa politica del mondo e sono stati il prodromo a successivi, tremendi, sconvolgimenti. E soprattutto in questi casi diviene quasi inevitabile che lo storico fornisca (più o meno coscientemente) una sua lettura di parte, perché ci sono fatti, ormai consegnati alla Storia, che hanno però determinato profondamente anche il nostro vivere quotidiano, la nostra realtà politica attuale.
Quando si parla di guerra, diviene quasi inevitabile condannarla, perché la guerra è sofferenza, morte, distruzione; ma purtroppo questa indiscutibile condanna è quasi sempre espressa da quanti, dichiarandosi "pacifisti" o "antimilitaristi", hanno però un'insopprimibile tendenza a dimenticare l'una o l'altra parte, a seconda della convenienza politica, sicché il pacifista o l'antimilitarista sono, più realisticamente, i partigiani dell'una o dell'altra parte, pronti a descrivere tutto il male fatto dalla parte avversa.
Assolutamente diverso è il metodo di Camillo Pavan: chi ha già letto le precedenti opere dello scrittore veneto sa come, assieme alle accurate ricerche negli archivi storici, Pavan ci fornisce le testimonianze più dirette, più umane, sulle quali ricostruire gli eventi in quella particolare dimensione, in genere negletta, che ci consente di capire cosa fu realmente la guerra per le popolazioni, nello sconvolgimento della vita quotidiana, delle certezze di ogni giorno. ".un mondo che si rovescia, una cosa che non si riesce a spiegare."

Lasciamo che sia lo stesso Autore a spiegarci come nasce e come è impostato il libro "In fuga dai Tedeschi". ". I protagonisti di questo libro erano allora bambini, al massimo adolescenti; nessuno arrivava ai vent'anni. Sono donne e uomini qualsiasi, ma sono gli ultimi ad avere vissuto in prima persona quell'evento lontano, straordinario e terribile, che fu la Grande Guerra. Nei loro racconti non mancano ingenuità, imprecisioni, esagerazioni e rielaborazioni a posteriori di episodi da loro stessi mille volte ascoltati. Leggendo con attenzione si riuscirà a distinguere il vero, il vissuto come vero e il fantastico..."
I protagonisti: oltre ottanta persone, intervistate dall'autore nell'arco di un quindicennio, dal 1984 al 1999. E' quindi dalla loro voce che noi possiamo rivivere la tragedia di Caporetto, la fuga, l'odissea dei profughi e i drammi di quanti invece restarono.
Dopo un paziente lavoro di traduzione dai dialetti e di trascrizione di decine di audio cassette, Pavan ha suddiviso cronologicamente i ricordi degli intervistati e ogni capitolo rappresenta una tappa del penoso cammino iniziato il 24 ottobre 1917, quando scattò l'offensiva austro tedesca che travolse le linee del nostro esercito e fece risorgere un'atavica paura: la paura dei "tedeschi". Virgolettiamo la parola non a caso perché, come ci spiega lo stesso Pavan, l'offensiva di Caporetto e la successiva occupazione furono opera della XIV Armata austro tedesca, che comprendeva combattenti della Germania unitamente a ciascuna delle molteplici nazionalità dell'impero austro ungarico. In tutto, gli invasori appartenevano a venti nazionalità e gruppi etnici.

Ma comandi e truppe italiane usavano genericamente il termine "tedeschi", così come i testimoni, pur intervistati a settanta-ottanta anni dai fatti. Solo quando si scendeva nei
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Caporetto: soldati italiani
in rotta dopo l'attacco tedesco
dettagli, soprattutto per distinguere il comportamento di tedeschi, ungheresi e bosniaci da quello degli austriaci, le differenze venivano sottolineate, in genere a favore degli austriaci.
Dall'Isonzo al Piave: le truppe austro - germaniche travolgono le nostre resistenze e inizia l'incredibile. Il mondo che si sconvolge per una popolazione perlopiù rurale, le cui certezze erano la famiglia, la terra da lavorare, gli animali da governare. La visione dei soldati in rotta disordinata è già di per sé stessa sconvolgente, l'atavica paura ritorna: arrivano i tedeschi, in una parola arrivano dei soldati che l'immaginario popolare vede come spietati e feroci, "che tagliano le mani ai bambini", "stuprano e saccheggiano". E intanto i nostri soldati fanno saltare i depositi di munizioni, per non farli cadere in mano al nemico. Il mondo si sconvolge "è tutto un fuoco".
Partire o non partire: il titolo del secondo capitolo enuncia il dramma delle popolazioni. Perché la scelta non è così semplice. Per molti partire vuol dire abbandonare "la roba", né questo è bruto materialismo, ma è la possibilità stessa di vivere. Perché per una popolazione prevalentemente agricola "la roba" è anche la fatica di ogni giorno, quella che permette di vivere. Il maiale, la vacca, le coltivazioni, il vino: partire e lasciare tutto alla mercé degli invasori o restare per difendere le proprie cose?

E restando, sarà possibile difenderle? Poi l'invasore dilaga e con l'invasore bisogna anche trovare un modus vivendi, laddove sia possibile, oppure cercare di opporsi agli abusi; e questo è spesso più difficile, se non impossibile. Né le pretese dell'invasore si limitano alla "roba". Il ricordo di stupri sfuma per naturale difesa, per senso del pudore, tuttavia, avvisa Pavan, i risultati della Commissione di inchiesta che indagò sulla violazione dei diritti umani nelle zone invase non consentono di liquidare questo fenomeno come "mera propaganda". ". è pure inevitabile che tutti gli eserciti, compreso quello italiano nelle 'Terre Redente', siano protagonisti di stupri. Ma c'è un livello di violenza diciamo fisiologico (tuttavia non accettabile) e un livello patologico: non tutti gli eserciti impegnati nella Grande Guerra si comportarono come l'armata austro-tedesca vincitrice a Caporetto. Liquidare la scia di violenza ed efferatezze che accompagnò l'invasione del Friuli e del Veneto nel 1917-18 come mera propaganda è senz'altro riduttivo."Abbiamo fin qui letto, dalla voce dei testimoni, il dramma dello sconvolgimento e dell'invasione. La guerra non è più il lontano brontolio del cannone, ma diviene un fiume in piena che travolge la vita, la famiglia, la tranquillità di tutti i giorni. È la guerra "totale", un fatto che non riguarda più solo gli eserciti, ma coinvolge tutti, donne, bambini, vecchi, travolti da avvenimenti che li sovrastano. Le testimonianze scorrono tra due estremi, tra la realtà e la favola. Due frasi significative aprono il prologo del libro: "Mi ricordo come fosse adesso" (Isolina Polito, di Romanziol) e "Adesso sembra una favola" (Lido Fattori, di Udine). Ma tra realtà e favola c'è comunque una ricorrente che accomuna spesso l'esercito italiano in rotta e l'esercito austro ungarico in ritirata: la fame.

Molto prosaicamente, aldilà delle parole altisonanti di politici e Stati Maggiori, i soldati che fuggono, ma anche quelli che dilagano, hanno fame. I due Imperi sono stremati dopo quattro anni di guerra e inoltre la velocità dell'avanzata ha colto di sorpresa gli stessi vincitori, che ora si trovano senza rifornimenti. Una vacca, un maiale, i polli, e il vino sono 
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Addio alla casa, al villaggio, ai
ricordi. Con lo strazio nel cuore
meraviglie per impadronirsi delle quali non si esita a mettere mano alle armi. Né si esita a cercare di difendere, a rischio della vita, questi beni preziosi. Perché, lo notavamo prima, per una famiglia contadina una vacca, una scrofa, le botti piene di vino buono, vogliono dire la stessa sopravvivenza. Poi, gli austro ungarici saranno ricacciati dalle nostre truppe, riorganizzate dopo il pauroso sbandamento. La linea del Piave sarà il simbolo della riscossa. Ma non solo di quella.
Riportiamo, così lapidaria come la leggiamo, una testimonianza che da sola ci dà un quadro molto significativo: "All'altezza del Ponte di Tre Bocche, sull'argine grande da San Bortolo a Fagarè, i tedeschi erano venuti di qua del Piave e si sono mangiati mezzo maiale a casa dei Biasini, fittavoli di Marinello. Poi è arrivato il 18° bersaglieri italiano, ha mandato via i tedeschi e si è mangiato il resto del maiale".
Due capitoli, "Profughi, la partenza" e "Profughi, il viaggio" raccolgono le testimonianze di quanti fuggirono. Secondo i dati del Ministero delle Terre Redente, furono oltre seicentomila le persone che lasciarono le terre invase. Fu un esodo biblico, che mise le autorità di fronte a problemi del tutto nuovi. La gente in fuga intralciava le strade già intasate dai militari in rotta e dai pochi reparti ancora inquadrati.

Per alcuni giorni fu il caos totale, poi la fuga iniziò ad avere un andamento più ordinato, consentendo alle autorità di organizzare, dove possibile, l'accoglienza dei profughi. Oggi, abituati come siamo a viaggiare, forse fatichiamo a capire appieno il dramma che vissero quei profughi. Per un veneto o per un friulano, per una popolazione attaccatissima alla propria terra, trovarsi a dover migrare forzatamente fino, in alcuni casi, in Sicilia, fu un vero dramma nel dramma. Il popolo italiano era lungi dall'essere "uno" e le testimonianze raccolte da Pavan ci riportano tanti casi di solidarietà e carità, ma anche ricordi di discriminazioni, di fame, di emarginazione, rese ancora più tragiche dal fatto che molti nuclei familiari si erano frantumati nella fuga. I bollettini di ricerca di familiari dispersi, diffusi dalle Prefetture e dalle Istituzioni di assistenza, restano come documenti di un ulteriore dolore portato dalla guerra.
Molto interessante è l'appendice "Preti e Vescovi dopo Caporetto". La direttiva del Vaticano era molto semplice: rimanere al proprio posto: "E' volere dell'Augusto Pontefice che, anche in caso di invasione, tutti gli ecclesiastici, vescovi e sacerdoti, rimangano al loro posto, per compiere con la dovuta abnegazione il proprio dovere ed infondere agli altri la calma tanto necessaria in sì dolorose circostanze". Il clero seguì nella quasi totalità le direttive papali. Tra i pochi vescovi fuggiaschi, quello di Udine e tuttavia nella sua diocesi, 600 preti su 678 restarono al proprio posto. Ci furono anche casi di parroci, come l'abate di Moggio Udinese, Pacifico Belfio, che, trovandosi fuori sede al momento dell'invasione, sentirono il dovere di tornare alla propria parrocchia per stare vicini ai fedeli.

Nel complesso insomma la Chiesa "tenne" e i suoi preti affrontarono l'incognita del comportamento dell'esercito invasore. Anche qui non mancano le testimonianze dei diversi modi di agire degli austriaci rispetto ai germanici e tanto più rispetto a bosniaci e ungheresi. E sovente i preti dovettero adattarsi alla situazione, per lenire le sofferenze della popolazione, salvo poi trovarsi, a guerra finita, accusati di "collaborazionismo". Né questa accusa venne dalle popolazioni, ma da quella classe politica che faceva del laicismo mal inteso una bandiera che fu, in questo caso, quanto mai inopportuna, perché nei momenti di maggior caos e sbandamento la Chiesa rappresentò, come già altre volte nella storia, il solo punto di riferimento stabile.
Il Vescovo di Vicenza, Ferdinando Ridolfi, scriveva il 25 giugno 1918 al Primo Ministro, Orlando, e al ministro guardasigilli Sacchi: "Eccellenze, ho 700 preti, 200 sotto le armi e 500 in cura d'anime. sono tutti al loro posto, dall'inizio della guerra, non uno l'ha lasciato. Si trovano scaglionati, tra i bagliori delle vampate e tra lo scoppio delle bombarde, davanti al Pasubio, al Cimone, al Cengio, al Paù, Al Grappa. non uno è fuggito. Non uno m'ha chiesto un trasloco, non uno. Eccellenze, può il governo dir lo stesso dei suoi funzionari?.". C'è infine, e i lettori ci perdoneranno se non procediamo in ordine perfetto, un capitolo a nostro avviso molto importante, inserito prima dell'appendice: "Gli intervistati, profili biografici".

Non è un mero elenco di nomi e date di nascita, luoghi di residenza. È il modo di toccare con mano un pezzetto di vita di ciascuno di questi testimoni, perché una persona esiste con un nome, un cognome, esiste in un paese dove è nata e in paese dove è
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Maniago (Friuli): profughi
in attesa di partire
vissuta. Questo elenco rende il libro più vivo, ci fa entrare in un contatto più profondo con quelle voci sparse, con quei ricordi così profondi e così vivi nella loro semplicità.
"L'ultimo anno della prima guerra" è un volumetto di sole 64 pagine. L'Autore ci spiega, nella postfazione del libro, che quest'opera è nata dall'esigenza di non lasciare inutilizzate tante interviste che non avevano trovato spazio nell'altro libro. Purtroppo una proposta fatta da Pavan alla Provincia di Treviso, affinché acquistasse il materiale per metterlo a disposizione degli studiosi, è rimasta senza esito. Così è nata la decisione di pubblicare anche questo volumetto, in sole 370 copie, di cui 340 numerate e firmate.
Due capitoli in particolare ci hanno colpito: "La fame" e "I frutti della guerra - recuperanti di mestiere - il Carso". La fame, Cavaliere dell'Apocalisse, che stermina gli uomini dopo la follia del conflitto, fu la vera protagonista dell'ultimo anno di guerra. Testimonianze che ripetono, ossessivamente, lo stesso dramma: trovar da mangiare. Il registro dei morti della Parrocchia di Miane, nella sua crudità, dice molto di più di qualsiasi discorso: morti per anno: nel 1916, 66, nel 1917, 73, nel 1918, 521.

L'anno successivo, 1919, si ritorna a cifre "fisiologiche": 58.
Poi ci sono le conseguenze della guerra: chi scopre che per riuscire a campare può essere una soluzione mettersi a fare il "recuperante": le zone di battaglia sono piene di metalli che si possono commerciare, rame, ferro, piombo. Ma spesso questo vuol dire incappare in una mina e saltare in aria, cercare di svuotare un proiettile per recuperare il rame del bossolo vuol dire restare mutilati. La guerra vuole ancora, dopo anni, il suo tributo di sangue. E infine "Il Carso", la testimonianza di Enzo Giusmano di Sagrado, che quasi per caso prese ad esplorare la zona, scoprendo le salme di tanti caduti abbandonati e dimenticati e si diede da fare perché fosse data una sepoltura cristiana a quei poveri resti, lasciati in un "paesaggio lunare", che trovarono poi riposo, almeno in parte, nel sacrario di Redipuglia. E un amaro accenno finale al museo di San Michele, ormai aperto solo al sabato e alla domenica, grazie alla buona volontà di un pensionato di Gradisca. La Patria non si è curata molto dei suoi figli morti: sul San Michele "adesso ci sono anche molti ripetitori televisivi".
Accennavamo all'inizio del nostro articolo ai "pacifisti" e agli "antimilitaristi", con tutta la nostra cordiale disistima per gli uni e per gli altri. Leggiamo invece, e facciamo leggere, le opere sulla Grande Guerra di Camillo Pavan. La certosina pazienza dell'Autore ci consente di capire cos'è la guerra. La raccolta puntuale e fortemente determinata delle testimonianze dirette di chi si trovò nel mezzo del turbine, il racconto privo di enfasi e retorica, ci portano ai fatti, alla tragedia vissuta, ci portano a capire come siano vuote tante analisi politiche, sociali, militari, tante posizioni partigiane.

Morte, fame, dolore, vite sconvolte. Questa è la guerra. E ci consenta l'amico Pavan un confronto: Erich Maria Remarque ("Niente di nuovo sul fronte occidentale") e Sven Hassel ("Maledetti da Dio") vanno con lui a braccetto, nel denunciare, con una prosa asciutta e semplice, ma con l'enorme forza dei fatti, l'atrocità della Guerra in sé stessa e soprattutto la sua inutilità. Con una differenza: Pavan ha la fortuna (o la sfortuna, scegliete voi), di essere italiano, vivere e lavorare in Italia, in un Paese sonnolento e disattento, che non conosce e non vuole conoscere la sua storia, che preferisce un po' di retorica sbrigativa, per avere il tempo di tuffarsi poi nell'ultimo programma televisivo e intontirsi a dovere. E così Camillo Pavan è edito da Camillo Pavan. Una scelta che gli fa onore, ma che è anche faticosa. Per questo invitiamo tutti i nostro lettori a conoscere meglio l'Autore visitando il suo sito, www.camillopavan.it , sul quale potranno anche trovare le modalità per acquistare i suoi libri.
All'amico Camillo Pavan porgiamo un saluto e un ringraziamento: ancora una volta ci ha dato l'occasione di imparare, di restare stupiti e quindi, speriamo, anche di migliorare un poco.
BIBLIOGRAFIA
  • In fuga dai Tedeschi, pagg. 160, con molte illustrazioni b/n nel testo, euro 18,50
  • L'ultimo anno della prima guerrapagg. 64, con illustrazioni b/n nel testo, tiratura limitata a 370 copie, euro 20,00

Davide Bedin, Valmarana di Altavilla Vicentina, 2005 - Giudizio su libri Grande Guerra di C. Pavan


Valmarana di Altavilla Vicentina
Il giorno 17-02-2005 17:36, davide_bedin@ (…) ha scritto:
> Carissimo sig. Pavan,
(…)
> Come appassionato della storia della prima guerra mondiale, in questi annni
> mi sono dedicato intensamente alla conoscenza di quello che era il fronte
> italiano e ho attinto abbondantemente alla sterminata bibliografia esistente.
>
> Ripercorrendo, spesso in solitudine, gli itinerari dimenticati di quel fronte
> (soprattutto sul Carso di Comeno, sulla Bainsizza o nelle recondite e
> spopolate vallate delle Prealpi vicentine), mi sorge un desiderio vivissimo di ridar
> voce e dignità a posti e persone. D'altra parte, è una lotta contro il tempo:
> se i luoghi stanno sempre lì a far riflettere e ad ammonire, le persone
> non tornano più.
>
> E' per questo che apprezzo infinitamente le Sue ricerche. Sembra incredibile
> che da eventi già così tanto studiati sia stato possibile recuperare tante
> preziose testimonianze, ormai destinate all'oblio. Mi congratulo con Lei
> per essere riuscito a portare avanti il Suo progetto, nonostante le difficoltà
> di cui mi aveva parlato (…)

Maria Vittoria Adami, 2005 - Recensione "In fuga dai tedeschi" e "L'ultimo anno della prima guerra" di C. Pavan


Maria Vittoria Adami
Gennaio 2005


Camillo Pavan, In fuga dai tedeschi. L’invasione del 1917 nel racconto dei testimoni, Treviso, Pavan, 2004;L’ultimo anno della prima guerra. Il 1918 nel racconto dei testimoni friulani e veneti, Treviso, Pavan, 2004.
[…] c’erano chiacchiere in giro per la città: «I tedeschi hanno rotto la linea». Le autorità, forse per calmare, avevano mosso fuori dei manifesti, dicendo di non star sentire le chiacchiere, che non è vero niente, e intanto se la filavano come ha fatto il re tanti anni dopo, ci han piantati lì ( p.74).
La sconfitta di Caporetto, culminata il 24 ottobre 1917, ebbe gravissime ripercussioni sia sul piano militare che sulle condizioni della popolazione civile. Gli abitanti di una vasta zona al confine, dalle valli del Natisone alla Carnia, dal Canal del Ferro al Friuli orientale, furono letteralmente travolti dagli avvenimenti. Il Comando Supremo Italiano, colto di sorpresa, non emanò alcuna direttiva per quanto riguardava il destino dei civili; le autorità militari non organizzarono l’evacuazione, non diedero istruzioni precise, i provvedimenti furono improvvisati. Talora, per facilitare il deflusso delle truppe, la popolazione civile fu addirittura ingannata. Donne, vecchi e bambini che vivevano nelle retrovie improvvisamente si ritrovarono in prima linea. I soldati italiani fuggivano, le truppe nemiche avanzavano e i civili si trovarono di fronte ad un primo lacerante dilemma: affrontare l’occupazione o il destino di «profughi»? Partire o restare? Mentre migliaia di profughi si riversarono nelle città della penisola, non sempre accolti benevolmente, chi rimase subì i saccheggi, le requisizioni, la fame, la prigionia, le violenze. Infatti, dopo che le retroguardie dell’esercito italiano ebbero fatto saltare i ponti sul Piave, il territorio veneto-friulano si trovò in balia dei soldati austriaci e tedeschi che vi entrarono da saccheggiatori, uomini affamati, logorati e induriti da un due anni e mezzo di vita di trincea. Né si deve dimenticare che anche la popolazione austriaca attraversò un momento estremamente difficile; molti infatti furono costretti ad allontanarsi dalle zone da cui era stata sferrata l’offensiva e a spostarsi in zone più sicure (Cernilogar 1998, pp.211-220).
La narrazione storica ha a lungo ignorato il vissuto di donne, vecchi e bambini travolti dall’occupazione, da una guerra totale che sconvolse la loro vita.
Solo negli ultimi anni l’attenzione della storiografia si è rivolta alle ripercussioni della disfatta sulla vita della popolazione civile. Agli studi di Corni (1988; 1998), se ne sono aggiunti numerosi altri, tra i quali ricordo quello di Lucio Fabi e Giacomo Viola (1993), quello a cura di Franco Cecotti (2001), di Enrico Folisi (2003) e Daniele Ceschin (2004). I lavori di Camillo Pavan arricchiscono il panorama degli studi e offrono al lettore e allo studioso un’amplissima raccolta di testimonianze della gente comune, i bambini di allora; si tratta di 150 testimonianze raccolte tra il 1984 ed il 1999 e trascritte per la maggior parte in dialetto veneto, mentre per il dialetto friulano e lo sloveno l’autore spiega di aver ritenuto necessario tradurre in italiano. Sono fonti indispensabili per comprendere l’ultimo anno di guerra così come è stato vissuto dalle popolazioni al confine, quell’anno di vita «randagia» per quasi un milione di persone.
La ricerca di Camillo Pavan ha preso l’avvio dal racconto di Francesco Daniel, incontrato sull’argine del Piave a Negrisia, durante una passeggiata. Dalla viva voce di Daniel ascoltò il racconto dell’avanzata dei «tedeschi» e della fuga della popolazione, un racconto che fece sorgere il desiderio di raccogliere quante più testimonianze possibile, iniziando lungo la linea del Piave e risalendo le valli fino oltre il confine. Da questa ricerca è nato un primo volume: Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari (1997) cui ha fatto seguito nel 2001I prigionieri italiani dopo Caporetto e nel 2004 In fuga dai tedeschi. L’invasione del 1917 nel racconto dei testimoni. Altri numerosi stralci di interviste sono state infine raccolte nel volume: L’ultimo anno della prima guerra. Il 1918 nel racconto dei testimoni friulani e veneti.
Gli intervistati erano allora bambini o ragazzi sotto i 20 anni, e naturalmente non mancano ingenuità, imprecisioni o esagerazioni, talvolta i racconti non rispecchiano la «realtà dei fatti», la loro verità è la verità esistenziale, che nessuna narrazione storica può ignorare. I sentimenti, le impressioni, il modo di pensare della popolazione rurale, attaccata alla terra, alla casa, alla vita religiosa che scandiva i giorni ed i mesi, sono sempre in primo piano
L’autore riporta con minuzia di particolari brani di interviste seguendo una linea tematica. Il volume In fuga dai tedeschi ripercorre le fasi del dopo Caporetto, prendendo le mosse dalla ritirata dall’Isonzo al Piave, momento cruciale durante il quale la guerra entrò in casa.
Il cielo era tutto una fiamma, tutto una fiamma, pareva che scoppiasse il mondo; tutto il cielo era un grande fuoco. Per fortuna quella sera c’era tanta pioggia, un diluvio di pioggia era. Per fortuna, perché…aspetti che le dico una parola ancora su quella sera del cielo di fuoco. L’indomani le strade erano gialle di gas, tutte gialle. Se non ci fosse stata la pioggia si sarebbe morti, con tutti quei gas ( p.11).
Ed il cielo di fuoco sotto una pioggia scrosciante è un ricordo comune a tutti coloro che furono spettatori della caotica ritirata di soldati ed alleati. Il caporalmaggiore Antonio Faccin ricorda:
La ritirata è iniziata così…sa com’è l’italiano: che quando hanno detto: «Ritirati!», tutti a correre, uno sopra l’altro ( p.13).
Accanto allo sguardo dei soldati Camillo Pavan ci restituisce quello dei bambini che vissero la ritirata sotto la pioggia, le granate, il rumore delle mitragliatrici, ma che ebbero anche il tempo di stupirsi e ricordare episodi particolari.
Io avevo cinque anni, quando è successo, e poi mi è rimasto impresso…tutta la strada piena di militari, durante la ritirata, con le donne che facevano una polenta e la mettevano sulla finestra e questi disgraziati, poveretti, venivano a prendersi la polenta bollente, con le mani ( p. .22).
Io ero bambina ed ero là con il mio amico Berto e…non abbiamo visto i bersaglieri con due ruote in bicicletta? E io: «Berto, Berto…i càsca!» (cadono), perché era la prima volta che vedevo una bicicletta aspettiamo e… non vediamo gli Alpini! Uno, che deve essere stato il capo, una bella piuma bianca ( p. .23).
Il volume focalizza poi l’attenzione sul dilemma che assalì la popolazione in quel momento: partire o restare? La paura dei «tedeschi» e dell’invasione spingevano alla fuga, mentre il timore di perdere ogni cosa induceva a rimanere. Si partì mossi da un impulso a seguire la folla, per paura della guerra e dei tedeschi, perché secondo le voci che si erano diffuse fin dal 1914, dal tempo dell’invasione del Belgio e della Francia, si pensava che «avrebbero tagliato loro mani e piedi». Talvolta si partì perché allontanati dai militari in ritirata. Ma l’attaccamento alla casa ed al paese indusse molti a restare per difendere le proprie cose; non uno dei testimoni dimentica di raccontare degli animali lasciati o portati via attaccati al carro.
Noi siamo partiti, noi, ma…dopo mia madre aveva la vacca, aveva più passione della vacca che di noialtri! Aveva la capra, aveva il maialino (…) intanto che era lì e dava da mangiare al maiale, scoppia la polveriera e vien giù un pezzo di soffitto…questo maiale che scappa, la capra che gli corre dietro( p.40).
Tra chi decise di partire e chi non poté farlo o scelse di restare si scatenarono i conflitti; i primi accusarono i rimasti di collaborazionismo, di furto o di viltà. Ma chi rimase conobbe l’occupazione, la morte per fame, crepacuore, avvilimento.
Al momento dell’arrivo dei «germanici» i testimoni ricordano lo sgomento dei genitori, mentre loro erano affascinati da quei soldati «bianchi e rosa», «bei tosati», a cavallo e con l’elmo. Dopodiché furono solo bandiere bianche e atteggiamenti remissivi a scandire la vita quotidiana.
Ci avevano detto di mettere fuori le lenzuola per fare un evviva e invece quando sono arrivati, sono entrati dentro la cantina, hanno aperto le botti e si sono messi a bere il vino con i cappelli di ferro. Era stato il prete in chiesa a dirci di mettere fuori le lenzuola, per fare un evviva, perché non ci facessero niente, ma quando sono venuti dentro i a fàt (hanno fatto) un demonio (p..53).
I ricordi del passaggio di questi soldati non sono dunque sempre positivi; «erano pieni di fame» ricordano molti, mangiavano i maiali, la carne cruda, entravano nelle case e mandavano la gente a dormire nelle stalle e nei fienili, bevevano vino, si ubriacavano, uccidevano chi tentava di difendere quel poco che restava.
Una parte consistente del volume è poi dedicata ai profughi, alla partenza, al viaggio, ai loro disagi, alle loro vicissitudini. Camillo Pavan segue il percorso dei profughi passo per passo.
Siamo andati via con le mani in mano, con quel poco che eravamo vestiti. Perso tutto! ( p..42).
Molti ricordano la partenza sotto un «diluvio universale», una fiumana di persone, con gli animali attaccati ai carri, mucche, muli, tacchini, oche, tutti in colonna sotto la pioggia, e sopra al carro qualche materasso, i bambini, le provviste, il vino. Chi, dopo qualche giorno tornò a casa non trovò più nulla; gli animali furono i primi a sparire.
L’esodo fu affrontato senza un piano preciso e i disagi furono enormi: i treni sovraccarichi e sporchi, i viaggi interminabili. La popolazione che li accolse talvolta fu benevola, talvolta curiosa, talvolta insofferente.
Completa il volume una parte dedicata ai sacerdoti che, in assenza della classe dirigente, divennero il punto di riferimento essenziale, benché in seguito tacciati di collaborazionismo (Corni, 1998).
L’ultimo anno della prima guerra ripercorre in parte gli stessi temi, ma si sofferma anche su altri aspetti. L’autore parla dell’incontro tra la popolazione al fronte e quanto restava dell’esercito italiano, manipoli di sbandati, disertori, e prigionieri. La gente li nascondeva nelle stalle, in anfratti nelle vicinanze delle case, davano loro da mangiare, li difendevano dalle truppe di occupazione.
Mio padre aveva nella stalla un posto in cui teneva le foglie e gli stocchi del granoturco e nascondeva là i disertori, quando venivano i tedeschi a cercarli con la baionetta in canna perché qualcuno aveva fatto la spia ( p.1)
E mi raccontava mia mamma che in quella caverna c’erano molti disertori italiani e le donne del posto a mezzanotte gli portavano da mangiare. I tedeschi venivano a cercare nelle nostre stanze, ma non li hanno mai trovati (p.1)
Si crea così tra i soldati italiani e la popolazione un legame solidale di solidarietà e di aiuto, di condivisione dello stesso destino, dello stesso senso di incertezza. I soldati mettevano a disposizione le loro abilità di mestiere, la gente dava loro quel che poteva, e se non cibo, per lo meno rifugio e protezione dai «tedeschi».
Gli si dava da mangiare, anche se ce n’era poco anche per noi. Ma loro non stavano senza far niente, facevano un gerlo, dei rastrelli per tirare il foraggio, quello che sapevano fare ( p.1)
Avevo anche un paio di scarpe di quelle di una volta con il tacco basso e lui ha voluto farmi i tacchi all’americana, che non sembravano più le scarpe di prima. Si chiamava Vincenzo Parisi e faceva il calzolaio ( p.2)
Colpisce come in momenti di difficoltà ci si stringa tutti assieme, ci si protegga a vicenda, si mantengano rapporti di lealtà, di bontà. Colpisce la giustificazione che davano i civili dei soldati disertori.
Non erano armati, stavano solo nascosti. Non li si chiamava proprio disertori, perché erano rimasti indietro quando ci fu la ritirata, e hanno dovuto nascondersi qua… Erano «rimasti indietro». Non l’hanno fatto apposta: non hanno fatto in tempo…e per non farsi prendere dai tedeschi hanno buttato via tutte le divise italiane e si sono vestiti da borghesi (p.1)
«Erano poveretti come noi» spiega un testimone, che racconta come di notte dovessero fare la guardia perché i disertori che si nascondevano nelle grotte, scendevano a rubare patate dagli orti.
Non avevamo paura, perché erano soldati di niente, erano con le scarpe rotte anche loro, dormivano come le galline ( p.2).
Anche questo volumetto si sofferma sulle vicende dei profughi giunti un po’ ovunque. Nelle retrovie erano i profughi ad essere curati dai soldati, dormivano nelle stalle e nel paièr (pagliaio), mangiavano cibo donato dalle truppe. Abitavano in case di contadini, dormivano sulla paglia in cambio del sussidio; comune è il ricordo di quando ci si doveva svegliare all’alba per «governare le bestie».
Molti profughi rimasero nell’Italia settentrionale, o comunque nelle retrovie, dove intrecciarono rapporti di collaborazione con le truppe, altri, trovando rifugio di volta in volta in chiese, teatri o ville padronali, si spinsero nell’Italia centrale, dove trovarono lavoro con più facilità. Nonostante moltissimi ammettano di essere stati trattati bene non mancano i ricordi dell’ostilità dettata dal pregiudizio:
A Montecatini ai bambini quando non ubbidivano o facevano i capricci gli dicevano «Stai zitto sennò ti faccio mangiare da un profugo!»…non erano tanto per la quale, perché non sapevano neanche dov’era il Friuli e ci trattavano come i selvatici. Io parlo della popolazione: ci consideravano là come i servi, anche se eravamo in albergo. Non sapevano neanche dov’era il Friuli (p.6)
Non sono pochi a ricordare questo particolare; una donna rammenta:
Ad Arienzo (provincia di Caserta), ci dicevano: «Maledetti austriaci, siete venuti a mangiare il nostro pane!», ci dicevano. Eravamo bambini noi, e me lo ricordo lo stesso. Credevano che fossimo austriaci ( p.9).
In Italia centrale i bambini passavano le giornate chiedendo l’elemosina nelle campagne, altri più fortunati avevano genitori o fratelli che avevano trovato lavoro nelle fabbriche o come aiutanti nei negozi, nelle tenute in campagna. Del periodo trascorso al Sud, dove le ragazze del posto restavano stupite dell’emancipazione delle ragazze del nord che andavano «per strada da sole», i testimoni ricordano la diversità di abitudini e di modi di pensare.
E poi ancora la fame, le malattie, la fine della guerra e la partenza degli austriaci, il ritorno ad un’Italia martoriata. I ricordi non sono univoci, si intrecciano in un racconto collettivo in cui spicca, accanto alle sofferenze la consapevolezza che invasi e invasori erano ugualmente vittime della guerra, ugualmente degne di pietà.
Emblematica a questo proposito la storia del papa Cappellari: i tedeschi avevano demolito una chiesetta ed utilizzarono la statua di Papa Cappellari per le esercitazioni: la statua era il bersaglio da colpire dai mitraglieri. La popolazione era indignata e ammoniva i soldati. Questi, di contro, li deridevano. Durante una manovra uno dei soldati che si era esercitato con Papa Cappellari morì.
E cosa è successo? Che dopo la morte del mitragliere, il suo spirito continuava a farsi vedere. Alla sera, quando era una certa ora, i cani abbaiavano e qualcuno della nostra famiglia diceva: «Ah, vàrda lavìa: è el tedesco» (p.17).
Per alcuni anni lo spirito di questo soldato fu visto girare per la zona, tutti cercavano di andargli incontro per chiedere cosa volesse, incuriositi, impietositi o preoccupati dal suo continuo vagare nei boschi. Una donna pensò che volesse farsi dire una messa, così fecero e non lo videro più.

Riferimenti bibliografici

Cecotti Franco (a cura di), «Un esilio che non ha pari». 1914-1918. profughi, internati ed emigrati di Trieste, dell’isontino, dell’Istria, Gorizia, Goriziana, 2001.
Ceschin Daniele, Post res perditas. I profughi italiani nella grande guerra, tesi di dottorato in Storia della società europea dal medioevo all’età contemporanea, I ciclo, Università di Venezia, 2004.
Corni Gustavo, La popolazione e l’invasione austro-germanica del veneto 1917-1918, in «Protagonisti», IX, 1988, n. 33.
Corni Gustavo, La società Veneto-friulana durante l’occupazione militare austro-germanica 1917/1918, in Kobarid/Caporetto, 1917-1997, a cura di Z. Cimprič, atti di convegno, Ljubliana 1998, pp.221-251).
Fabi Lucio-Viola Giacomo, «Una vera Babilonia…». 1914-1918. Grande guerra ed invasione austro-tedesca nei diari dei parroci friulani, marano del Friuli, Edizioni della laguna, Gorizia, 1993.
Folisi Enrico (a cura di), Carnia invasa 1917-1918. Storia, documenti e fotografie dell’occupazione austro-tedesca della Carnia e del Friuli, Udine, Arti Grafiche Friulane, 2003.
Fortunat Cernilogar Damjana, Lo sfondamento di Caporetto e gli effetti della guerra sulla popolazione civile e sull’ambiente culturale, in, Kobarid/Caporetto, 1917-1997, a cura di Z. Cimprič, Ljubliana 1998.

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ISSN 1824 - 4483. Dep n. 2. Gennaio 2005. Ricerche. Bruna Bianchi, Il rapporto di Emily Hobhouse sui campi di concentramento in Sud.
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