mercoledì 5 settembre 2012

Glauco Stefanato figlio di Vittorio, storia di un barcaro del Sile


La scuola e le vacanze

Sono nato in riva al Sile a Casier, vicino alle cave di Rizzetto, in quel borgo dove abitavano i Fàscio, i Mòmolo 
e un sacco di altra gente. Sono rimasto là fino a quando ho iniziato le scuole e mio papà si è trasferito in centro 
a Casier, sopra la Cooperativa.
Che io ricordi è stato già alla fine della seconda elementare, durante le vacanze, che ho fatto il primo viaggio 
in barcone. Abbiamo caricato “de pière” il Ticino alla fornace Caberlotto di Lughignano.
La nostra barca era già motorizzata e in viaggio con noi c’era mio zio Nanèi (Giovanni) Parpinel, fratello di 
mia mamma, con un barchetto che invece non aveva ancora il motore. Allora mio papà gli ha passato a síma 
(la cima) e l’ha trainato fino al Lido, dove erano destinate le pietre.
Durante le vacanze era bello andar via con la barca, perché ovunque andassimo mio papà era conosciuto. 
Erano amicizie che risalivano nel tempo, vecchie di generazioni, perché mio papà mi portava in viaggio con 
sé come suo papà aveva fatto con lui e gli altri barcari avevano fatto con i loro figli. D’estate non c’eravamo 
solo noi, c’erano anche gli altri barcari che venivano da tutte le parti, da Padova, da Mantova, da Comacchio, 
e tutti avevano le famiglie con sé.
Quando ci si fermava, magari su un argine o nei pressi delle conche in attesa che le porte si aprissero eravamo come un accampamento di zingari: zingari d’acqua.
Però era bello, perché si conoscevano tanti bambini e bambine e alla sera ci si trovava insieme sull’argine, 
sulla piazza o nelle osterie e si faceva festa. Si parlavano cinquanta dialetti, perché venivano da tutte le parti, 
dal Po, dall’Adige, da Pordenone, da Ciósa (Chioggia), da Sottomarina, da Ferrara o da Comàcio (Comacchio).
E allora tu che eri piccolo ti chiedevi: «Ma che lingua parlano, questi qua?», e dopo, a són de dài e dài (piano, piano) li ho imparati anch’io, li ho imbastarditi col mio, qualche parola dell’uno, qualche parola dell’altro.
Ho finito le elementari a Casier (…). Dopo la quinta ho fatto il primo anno della “scuola di avviamento” che 
c’era qua a Casale, nella Casa del Giovane, dal prete. Si imparava un po’ di tutto, matematica, storia, italiano, ecc., e poi ci davano un “corpo morto” da sistemare con la lima.

In barca, a dodici anni

Ma la scuola non era per me; no, non era per me la scuola. Io vedevo le barche passare, mio papà, mio fratello… non era per me la scuola!
Così all’inizio del secondo anno di avviamento non ho più voluto continuare e ho iniziato a insistere per andare in barca.
Per un po’ mio padre si è rifiutato di tenermi con lui, ma poi, vista la mia insistenza, mi ha ripetuto la stessa frase che a suo tempo gli aveva detto suo padre:
«Vàrda che anca ti, se te vien lavorar qua, dopo, da a barca no te smónti più». (Guarda che anche tu, se vieni a lavorare qua, dopo, dalla barca non scendi più). Stessa frase.
Mi sono imbarcato per la prima volta qua a Casale, nel dicembre del 1959. Eravamo un convoglio di tre barche che, per conto dell’armatore Dante Bernardi di Venezia, doveva andare a caricare “di frumento” a Scardovari, su un ramo del Po di Tolle, per poi portarlo alla Chiari & Forti di Porto Marghera.
C’era mio zio Emilio Parpinel con la Maria Luisa, che qualche anno dopo, quando mio zio si annegò, abbiamo comprato noi chiamandola Roberta. Era una bella barca di 1800 quintali, costruita a Pescantina dai fratelli Cobelli. C’era mio zio Gibin, Ottorino Gibin, con il Santo Stefano comprato dai Piovesan di Fiera, un burcio di 2400 quintali costruito dal “Déto”, maestro d’ascia di San Pietro in Volta. E poi c’eravamo noi (mio papà, mio fratello Renzo ed io) con il Piave, un barcone di Renosto, perché il nostro Ticino l’aveva preso mio fratello Leo, per andare a caricare latte in polvere a Ferrara.
Per arrivare a Scardovari abbiamo fatto questo itinerario: Casale, Portegrandi, Silone; poi siamo passati davanti a Burano, siamo arrivati a Venezia attraverso l’Orfano, cioè il canale di Murano, proseguendo per il Canale delle Navi e passando davanti al Lido, San Pietro in Volta, Pellestrina, Chioggia. A Chioggia siamo entrati nella via d’acqua che si chiama Canale di Valle che porta sulla Brenta. Là, passata una conca di navigazione che si chiama Brondolo, abbiamo continuato per il Canale di Valle fino ad arrivare, dopo un’ora, alla chiusa di Cavanella d’Adige sinistra. Passata anche questa conca, abbiamo attraversato l’Adige e siamo entrati in quella di Cavanella destra per poi prendere un altro ramo morto, il Canal Bianco, che porta all’ingresso del Po: Volta Grimana. Ma nel tratto fra Cavanella destra e Canal Bianco c’è il ponte della ferrovia che è basso, e la Maria Luisa, vuota, non ci passava sotto. Abbiamo aspettato che arrivasse la bassa marea con medio mare, ma ancora non riusciva a passare el brocón, che sarebbe la punta della prua, l’abbellimento del burcio. 
Allora abbiamo dovuto “salpare il battello”. Cioè abbiamo portato a prua il battello che ogni burcio si trascina dietro, l’abbiamo imbragato con quattro cime in barba de gàto e innalzato di circa un metro con àrgana e paranco. Poi l’abbiamo riempito di acqua, usandolo così come zavorra in modo da abbassare la prua e permettere al brocón di passare.

Il Natale del 1959

Superata la conca di Volta Grimana, sei sul Po. Se vuoi andare su, contro corrente, vai fino a Mantova, fino a Cremona. Noi invece siamo andati giù, verso il Delta.
Prima di partire abbiamo imbarcato un “pilota”, un vecchio barcaiolo della zona, mi pare si chiamasse Remo Bussàna, o comunque uno della famiglia Bussàna di Porto Viro. Perché il Po cambia spesso il letto, a causa della sabbia portata giù dall’acqua. Questi piloti, che vivevano sul posto, conoscevano i segreti del fiume e inoltre, prima di arrivare in barca da noi, perlustravano il Po con una barchetta e ne scandagliavano il fondo. Dopo conducevano la barca dove dicevano loro.
Quella volta, Bussàna ci ha portati nella sacca di Scardovari, a caricare frumento nell’azienda Ca’ Corniani.
Arrivati a Scardovari, la nostra barca si è preparata a caricare per prima, ormeggiando sotto il ponte stradale dove arrivavano i carri con i sacchi di frumento.
I sacchi venivano scaricati alla refùsa: cioè dal carro, fermo sul ponte, e svuotati direttamente sulla stiva del barcone sottostante. Normalmente per caricare tre barche ci voleva una settimana, se tutto andava bene. Ma quella volta, mentre noi eravamo sotto carico, ha iniziato a fare cattivo tempo. Piova, vento e neve. Mi ricordo che ha iniziato ad alzarsi l’acqua del Po. Noi abbiamo fatto appena in tempo a finire, a mettere i teli per coprire il carico; e l’acqua si alzava, si alzava.
Abbiamo messo in sicura le barche, buttato le ancore e abbiamo aspettato che passasse il maltempo e che l’acqua si abbassasse. Siamo andati a far provviste in paese e ricordo che mio papà mi ha portato nella pescheria di Scardovari, dove c’era uno storione di 120 chili catturato nel Po. Ritornato il bel tempo abbiamo finito di caricare anche le altre due barche.
Ma il Natale del 1959 era ormai passato, e l’abbiamo passato in barca, sul Po.
Il ritorno l’abbiamo fatto sempre in convoglio. Il primo giorno siamo arrivati a Volta Grimana. Il secondo al porto di Chioggia, che era una tappa d’obbligo: si scendeva per far viveri, per comprare il pan biscotto. Quella volta c’era anche un po’ di maretta e noi avevamo la barca carica al massimo, a manichée, e bisognava star attenti a non bagnare il frumento. Dovevamo aspettare che alla bocca di porto non ci fossero increspature e per questo siamo rimasti a Chioggia anche il terzo giorno. Il quarto giorno siamo arrivati a Marghera e mio papà è andato subito all’ufficio della Chiari & Forti ad avvertirli.
Ci hanno dato disposizione di andare “sotto silos” per lo scarico, e là uno sorba ha iniziato ad aspirare il frumento dal barcone. Ogni tanto prelevavano dei campioni per vedere se c’era umidità, perché i barcari avrebbero potuto anche buttarci acqua sul frumento per aumentarne il peso e tenersi la differenza con il peso dichiarato al momento del carico. Però l’azienda, mentre caricavi, ti dava “il campione” e quel campione doveva poi risultare uguale a quello prelevato durante lo scarico.

Lavorare da barcaro

Le operazioni di scarico sono durate quattro-cinque giorni, poi è arrivato l’ordine di andar a caricare zucchero a Cavarzere, sempre per conto di Bernardi.
Abbiamo ripreso la navigazione e siamo ritornati alla conca di Brondolo, abbiamo risalito un po’ il Brenta e siamo entrati in un suo affluente, il Gorzone, risalendolo fino a Cavarzere, dove c’era lo zuccherificio. 
Anche qua la stessa trafila. Scendere, prendere contatti con la direzione dello zuccherificio e aspettare il turno per il carico. Siamo andati sotto carico il giorno dopo. Arrivavano i sacchi da cento chili e i facchini li mettevano nella stiva. A caricare tutte e tre le nostre barche abbiamo impiegato ancora una volta una settimana. E oltre a noi di Bernardi, c’erano i barcari di Renosto, della cooperativa San Vito, della Mantovana, c’erano privati che lavoravano in proprio; c’erano tante barche perché era una partita di zucchero di 40.000 quintali.
Prima di lasciare lo zuccherificio ci hanno dato la “polizza di carico” con su scritto il tipo di merce, il tonnellaggio, il numero di sacchi. Siamo ripartiti per Venezia, questa volta per la Marittima, dove abbiamo aspettato che arrivasse la nave e a turno siamo andati sóto bórdo. La nave prelevava la merce dal burcio con “la giapponese”, una specie di rete da pesca che gli addetti abbassavano per mezzo del mànte (braccio) di una gru. Questa rete veniva caricata di venti e più sacchi alla volta e poi lentamente veniva issata e calata dentro alla nave. Ce n’erano due di queste “giapponesi”, che si alternavano una piena e una vuota.
Se tutto andava bene ci voleva una giornata a scaricare i 1800 quintali del burcio; due giornate se c’erano scioperi; tre giornate se c’era piova e sospensione del lavoro.
Però, dopo tre-quattro giorni, se la barca non era ancora scaricata, andava in staía, cioè ti veniva pagata una determinata cifra a compenso del fermo barca. Se passavano ancora più giorni senza che le operazioni fossero completate si andava in controstaía, cioè aumentava la spesa del nolo che ci dovevano corrispondere. Il pagamento era sempre a carico dell’armatore, che a sua volta si faceva pagare dallo spedizioniere o da chi riceveva la merce.
Dopo quei primi due viaggi a casa tornavo pochissimo, la mia casa era la barca. Se c’erano dei giorni da star fermi perché era festa o perché c’era da attendere il nostro turno di carico, tornava a casa mio papà e noi restavamo in barca. Prima di partire, mio padre mi dava un po’ di soldi e mi diceva: «Questi soldi devono bastarti da adesso che vado a casa fino a quando ritorno». Allora noi dovevamo arrangiarci, non c’era il telefonino, eravamo autosufficienti. Si imparava la vita, quella che non imparano i miei figli adesso. Si andava a far la spesa, ci si faceva da mangiare. Si viveva anche con la pesca, perché se prendevi il pesce i soldi non li spendevi e li mettevi nel salvadanaio. Si andava al cinema, si andavano a scoprire i paesi e le città.
Ferrara? Mi pareva di andare a vedere Nuova York a me. Ferrara? Tredici anni li ho compiuti proprio là. Mi ricordo che Berto Giacobbe, insieme con Tina Tòta e suo marito Aldo, che non avevano figli ed erano su una barca grande da tremila quintali che si chiamava Rosina, quando ho compiuto tredici anni, come regalo, mi hanno portato a Ferrara a vedere la Standa, per la prima volta.
Negli anni in cui ancora andavo via con mio papà, lavoro ce n'era sempre, e si caricava di tutto.
A volte si stava nel porto con i barconi a far la funzione dei container. Ci chiamavano sóto bórdo quando nei magazzini a terra non c’era più posto. Le navi scaricavano la merce nei nostri barconi e, quando avevano finito e si allontanavano, i barconi a turno accostavano alla banchina dove i camion venivano a caricare. Ricordo che arrivavano partite di carne Simmenthal dall’Argentina, carne River, carne di bufalo. Riempivamo i barconi e andavamo a caricare i camion.  
Glauco Stefanato nel 1962 (15 anni) al molo B di Porto Marghera 
Si andava a portare sabbia del deserto nello stabilimento di perfosfati che c’era a Portogruaro. La sabbia arrivava con le navi a Porto Marghera e veniva caricata con una gru grande, grandissima, sulle stive delle barche. Era una sabbia talmente fine che passava per i paiòli, il pavimento di tavole che copre il fondo della stiva. Ed era pericoloso perché se la sabbia andava giù, l’acqua che entrava in sentina la bagnava e la sabbia assorbiva, assorbiva, assorbiva… finché la barca andava a fondo. Allora, prima di caricarla, bisognava bagnare i paiòli, in modo che aumentassero di volume e le fessure si restringessero; oppure si andava a prendere fango sulle rive per “stuccarli” in modo che la sabbia non passasse. Perché è successo che delle barche cariche di sabbia si sono imbevute e i barcari non se ne sono accorti. Ad esempio a Caorle, sul canale del Canalónè andata a fondo la Luce, una barca di 2000 quintali di un armatore di Corbola; poi non l’hanno più tirata su, perché la spesa non valeva il guadagno.
In quella zona a volte ci si fermava, alla conca del canale Orologio, perché sul Livenza c’era troppa acqua. Nell’attesa che il livello si abbassasse, alla sera si faceva festa e i barcari si chiedevano: «Dov’è che andiamo a mangiare? Da Stefanato, da Vittorio!». Mio papà era il simbolo dei barcari, era il più conosciuto; preparava una grande frittata con uova, piselli e mortadella tagliata a pezzetti; e poi polenta per tutti. C’erano i Picenèi e i Cappellozza da Battaglia Terme, c’erano i Tiozzo da Sottomarina. C’era Beppe Quota da Porto Tolle, un omenón grande e grosso con la voce rauca e un chioggiotto, El Chìcari, che amava un po’ troppo il vino. Beppe Quota una notte si divertì a spaventarlo mentre tornava in barca dopo uno dei suoi giri per le osterie di Caorle, aspettandolo sull’argine vestito da fantasma con un lenzuolo bianco in spalla e un toscano acceso in bocca.
Si andava a Portogruaro con un convoglio di sette otto barche. Il primo giorno partenza all’alba e arrivo alle porte del Cavallino; se si riusciva a passare la conca si arrivava fino a Jesolo, ma di solito si aspettava il mattino successivo. Il secondo giorno si entrava nel canale Cavetta, dove c’erano tre ponti. Il primo — ponte Spano — si alzava “a pistoni” (ma ora si è incrinato, ha i pistoni che non funzionano e sono trent’anni che non si alza più); gli altri due si aprivano per lasciarci passare, ruotando a 90 gradi. A Cortellazzo c’era una conca da superare che richiedeva molta attenzione; poi si entrava nella Piave, altro passaggio difficile perché l’acqua andava forte. Poi conca e canale di Revedoli fino a Torre di Fine dove ci si innestava nella vecchia Livenza, canale dell’Orologio con relativa conca presso Caorle, dove finiva il secondo giorno di navigazione. Il terzo giorno non si incontravano più conche, ma solo ponti. Si risaliva il “Canalone grande” di Caorle (dove Hemingway andava a caccia col barone Franchetti) e si entrava nel Lemene; si superavano i due ponti della Saetta e si arrivava a quello di Concordia Sagittaria. Se si era in orario, lo si passava e in un’altra oretta e mezzo si arrivava a Portogruaro, proprio in centro dove c’è l’ospedale e dove c’era la vecchia filanda.
Là arrivavano i camion dello stabilimento di perfosfati e una gru iniziava il trasbordo. Ci volevano due giorni a scaricare un burcio carico di 1800 quintali di sabbia. Finito un viaggio se ne iniziava un altro, con la barca non si stava mai fermi.
Portavamo la sabbia del deserto a Mantova. Caricavamo la trachite a Battaglia Terme. Caricavamo carbon còco alla Vetrocoke. Rifornivamo di carbone — un tipo di carbone proveniente dalla Russia che chiamavamo per la sua forma vòvi de Pasqua — gli zuccherifici di Cavanella d’Adige, Pontelongo e Ceggia.
Portavamo zucchero grezzo proveniente da Cuba allo zuccherificio di Pontelongo dove lo raffinavano per poi riportarlo a Venezia e reimbarcarlo nelle navi. Sempre alla Marittima o a Porto Marghera caricavamo cotone, juta, lana che portavamo ai magazzini generali di Mestre.
Caricavamo pelli secche e pelli fresche, e quando c’erano pelli fresche ci mandavano “al confino” in Tronchetto, perché puzzavano. Abbiamo caricato pirite; abbiamo caricato sale minerale da portare a Mantova.
Nei pressi di Ferrara, sul canale Boicelli, c’era lo stabilimento Interlamide dove portavamo il granoturco Plata e Dentone, un grano bianco speciale proveniente dall’Argentina.
Nel porto fluviale di Ferrara si portava cemento dal cementificio che c’è a Chioggia in canale Lombardo.

Gli anni Sessanta.

Ma verso la metà degli anni ’60 il lavoro iniziò a mancare, scarseggiava; sempre meno, sempre meno e tutti i barcari della mia età cambiavano mestiere. A me seccava cambiare mestiere, perché la barca era di mio papà, io ero a bordo con mio papà. Però mio papà mi ha detto: «Ciò, è inutile che tu ti sacrifichi qua, che il lavoro sta sempre più diminuendo, va a trovarti un lavoro in fabbrica, come gli altri». Allora ha parlato con mio sàntolo(padrino) Bison da Casale, che mi ha trovato un posto nella vetreria Perziano e, [sfugge al narratore]… sono andato a caricare…, sono andato a lavorare in vetreria. Bello, tutto bello, all’inizio.
In fabbrica conoscevi ragazzi, ragazze. Ho conosciuto diverse ragazze. Ma dopo i primi due-tre mesi andavi drio a riva del Sil (lungo la riva del Sile) e vedevi le barche che passavano. Le barche… e ti veniva nostalgia, ti veniva nostalgia!
In fabbrica mi son trovato la morosa, Luisa Nordio; era figlia di barcari anche lei e aveva 15 anni.


Glauco Stefanato e Luisa Nordio

Luisa. Io ero già in fabbrica dal settembre 1965, e tu sei arrivato nel gennaio del 1966.
Glauco. Lei era una sgheréta, una ragazzina. Là dentro c’erano ragazze più grandi di lei, e io buttavo l’occhio su quelle più grandi.
Luisa. Quindici anni, avevo, e lui diciotto e mezzo.
Glauco. Mi ha detto: “Sono figlia di barcari anch’io”, e allora mi sono informato, suo papà era amico di mio papà.
Luisa. La roba che più mi faceva male era quando guardava le altre. Diventavo gelosa, gelosa dentro, da morire. Dicevo: “Con loro sì che parla, e da me non viene”. Sentivo questa attrazione, avevo il cuore che mi saltava fuori ogni volta che lo vedevo e mi dicevo: “Ma impossibile che non diventi mio moroso!”.
Ho fatto i salti mortali, ma alla fine è venuto con me, e siamo ancora assieme.
Glauco. In vetreria il mio lavoro non era di fatica. Pulivo la macchina del padrone, lavoravo col tornietto…
LuisaE sei rimasto fino all’agosto del 1966, quando hai avuto l’operazione di appendicite…
Io invece lavoravo in “molería”, sulle macchine, sulle mole. Eravamo in mezzo all’acqua, noi, eh! Era un lavoro faticoso e arrivavo a casa bónba (inzuppata) fino qua. C’era la pialla, c’era la macchina del bianchetto, quella che tirava su la mola, le macchine dove lucidavi sti “mandolotti”. E dopo andavamo in una stanza più grande dove ci saranno stati venti fuochi. Un caldo! Là veniva colata la cera che andava su questi piatti, c’era della catramina che teneva fissata questa roba. Poi si andava fuori all’aria aperta, sotto una tettoietta, dove c’erano della vasche con dell’acido. Noi dovevamo tirar via la colla a queste “mandole” di vetro immergendole dentro l’acido con dei cestini. Se non ci siamo ammalati i polmoni noialtri, chi vuoi che si ammali più! 
Glauco. Il mio invece non era un lavoro faticoso...
Ma io ero abituato a vedere il sole, vedere la luna, sentire il profumo della nebbia al mattino presto, farmi da mangiare.
Io sono nato libero. Così mi sono licenziato e sono tornato in barca. (…)

Una pagina del diario di Glauco Stefanato (gennaio 1974)

Lunedì 28 -1 -74
Alzato alle 4 e andato
a bordo Roberta partito
e arrivato a Malcontenta
ore 8 caricato venuto
via e restato fermo a
i pali di Venezia per
nebbia 
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Il resto del racconto continua nel libro Sile. La piarda di Casier, © Camillo Pavan, 2005
La “storia di vita” di Glauco Stefanato è stata raccolta e registrata da Camillo Pavan nei giorni 25, 26.VII e 5.VIII.2005 -

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