giovedì 19 settembre 2013

GiraSile, GreenWay Parco del Sile - Riaprire la passerella sul fiume Sile di via Nogarè, fra Quinto di Treviso e Canizzano (mulino Granello "Benetin")


Alla fine degli anni '60 c'era sempre meno lavoro per i mulini a gestione familiare e una dopo l'altra le grandi ruote idrauliche, che per secoli avevano garantito la macina dei cereali nel Sile, iniziarono a girare a vuoto.
Nel 1979 fu la volta dell'ultimo erede dell'antica dinastia dei mugnai Granello “Benetin” a chiudere il suo mulino situato in uno dei punti più suggestivi del fiume.
Assieme ai mulini, anche i ponticelli in legno che da sempre ne permettevano l'accesso furono per anni abbandonati al loro destino.
Per restare al tratto fra Treviso e Quinto, la passerella più vicina alla città, quella di Mure alle spalle dell'aeroporto militare, venne sostituita - dopo lunghe battaglie dei residenti - da un solido (ma orribile) ponte in cemento-asfalto.
La più lontana, cioè quella di via Nogarè, da una parte fu integralmente restaurata (tratto che attraversa il fiume con accesso da Quinto), dall'altra (lato Canizzano, comune di Treviso) fu invece sottoposta a un graduale processo di privatizzazione che, proprio oggi che si parla tanto di percorsi ciclo-pedonali, ne rende impossibile l'utilizzo.
A me pare l'ennesimo e arrogante esempio di appropriazione privata di un bene pubblico.
Che poi il tutto sia avvenuto nel pieno rispetto della legge, non per questo cambio il mio giudizio di valore.

La passerella sul Sile di via Nogarè 
(al confine fra Quinto e Treviso) nel 1984,
prima del Parco, quando era vecchia ma praticabile. 
(Foto di Nino Botter)

La passerella nel 2013. In buono stato, ma non praticabile 
perché il pubblico accesso è proibito in entrambe le sponde del fiume.

NB - Fra l'altro nella realizzazione in via Nogarè del "Borgo ai Mulini" di Canizzano ricavato  dall'ex mulino Granello e adiacenze si è finto che non esistesse un altro problema: l'ingombrante vicinanza con l'aeroporto Canova e il continuo passaggio di aerei a brevissima distanza. 
Così il danno è stato duplice: pubblico perché si è chiuso l'attraversamento del fiume e privato perché il valore degli immobili - pur costruiti con ottime soluzioni architettoniche - non può che risentirne. 
Ritengo che se la passerella di via Nogarè fosse riaperta al pubblico e inserita a tutti gli effetti nei percorsi ciclo-pedonali previsti dal Parco del Sile molte più persone potrebbero rendersi conto di come siano sacrosante le lotte del  Comitato per la riduzione dell'impatto ambientale dell'aeroporto di Treviso.
Video

Il 13 gennaio 2017 è intervenuta sulla questione la tribuna di Treviso, con un articolo di Alessandro Bozzi Valenti che sottolinea l'indignazione di un ottantenne abitante del luogo - Pietro Scattolin - che, malgrado reiterate richieste alle "autorità", finora non è riuscito ad ottenere altro che promesse. La passerella continua infatti a rimanere chiusa.
(Mio commento) - Una soluzione, per sbloccare l'impasse, potrebbe essere la riapertura della passerella solo di giorno e la sua chiusura notturna. Un semplice timer risolverebbe il tutto. Se ci fosse la volontà. 
Soluzione analoga, peraltro, è stata già attuata per il vicoletto nel retro dell'abside del duomo di Treviso, vicolo Duomo, che congiunge il Calmaggiore con via Canoniche.

L'articolo di Alessandro Bozzi Valenti sulla antica e pubblica passerella
dei mulini sul Sile di via Nogarè fra Quinto di Treviso e Canizzano, ora privatizzata.

Nuovo articolo sulla Tribuna di Alessandro Bozzi Valenti, domenica 3 dicembre 2017.
Chissà che a forza di battere e ribattere qualcosa si muova.
I miei complimenti al giovane cronista per la sua appassionata testardaggine.

Alessandro Bozzi Valenti continua su  La Tribuna di Treviso la sua
campagna per la riapertura al pubblico della secolare passerella sul Sile
di via Nogarè, fra Quinto e Canizzano. (Ex mulini Granello "Benetin").

Via Priamo Tron a Sant'Angelo di Treviso-Santa Maria del Sile - (già via Capitello). La forma dei campi 1713-2013

Fossi, strada e campagna fra le attuali via Priamo Tron
e via Torre d'Orlando in comune di Treviso (1713-2013).
In tre secoli attorno a via Capitello - strada campestre in comune di Treviso - sono cambiate tante cose, oltre al nome. Le colture si sono semplificate, riducendosi essenzialmente a seminativo e radicchio rosso. Sono aumentate le nuove costruzioni, e gli "annessi rustici" alle costruzioni rurali esistenti. È stata tracciata, nel 1949, una nuova strada: via Torre d'Orlando. 
Ma una cosa è rimasta incredibilmente uguale, la configurazione della campagna in cui i miei antenati arrivarono nel 1834. 
Con quel fossato dalla forma irregolare che raccoglie le acque di scolo del terreno e - unitamente a quello esistente ai bordi della strada - le convoglia a sud verso il vicino "scolo Dosson", che a sua volta confluisce nel fiume Sile al confine fra Treviso e Casier. Segno tangibile dell'importanza dei fossi come confine (oltre che nella buona pratica agraria) e dimostrazione plastica della legge d'inerzia attribuita da Emilio Sereni al paesaggio agrario, che una volta fissato in determinate forme tende a perpetuarle.

Historia del radicchio rojo de Treviso. Sus orígenes

La edición italiana de Wikipedia, en su última actualización sobre el “RadicchioRosso de Treviso”, ( 31.03.2013) menciona el hallazgo de Tiziano Tempesta que, en el cuadro Bodas de Canaan (1579 -82) de Leandro Dal Ponte llamado Bassano, ve en el 2007 un manojo de radicchio rojo demostrando así “como el radicchio era cultivado ya desde la mitad del siglo XVI”. Continúa afirmando que “el proceso de producción se habría afinado sólo en la segunda mitad del siglo XIX. Habría sido el viverista Francesco Van den Borre llegado de Bélgica en 1870 para realizar un jardín patricio, quien trajera a la zona de Treviso, la técnica del blanqueo ya usada para la achicoria belga.”
Si la cita de Tempesta es correcta, la atribución - si bien condicionada - a Van den Borre del mérito de haber hecho conocer a los campesinos  trevisanos las técnicas de blanqueo de la achicoria,  no es otra cosa que la repropuesta de una leyenda inventada por el gastrónomo escritor Giuseppe Maffioli, hoy valorada por otra autoridad en el campo de la enogastronomía, Giampiero Rorato quien se considera discípulo de Maffioli.
Uso, no por casualidad, el término leyenda (en el sentido de noticia  falsa) porque  hasta la aparición del primer número de la revista Vin Veneto que incluye un artículo de Maffioli  sosteniendo esta tesis,  ninguno había mencionado la hipótesis que Francesco Van den Borre fuera el inventor del radicchio rojo de Treviso. Menos aún su hijo, el viverista literato Aldo Van Den Borre, que en el 1935 se preguntaba «Cuál es el origen de este radicchio único en el mundo? Ningún historiador lo ha mencionado, ningún escritor de temas agrarios (…) ha hablado del tema, pero por cierto se lo cultiva desde hace siglos», y enfatizaba  que «si hubiera (también en Treviso) las instalaciones que se han construído en los alrededores de Bruselas y también en Parìs para la famosa Vitlof, la achicoria de Bruselas blanqueada, el radicchio de Treviso podría ser mucho mas útil a la horticultura trevisana y su exportación sería diez veces mayor… ».
¿Es creíble pensar que si su padre hubiera sido realmente el inventor del Radicchio, Aldo Van Den Borre, no lo habría recordado y no le habría dado una justa importancia? Obviamente no, no es creíble.
Sin embargo Maffioli sostiene que sí y para dar mayor crédito a su tesis modifica agregando un texto apócrifo un escrito de los años 20 del mismo Aldo Van Den Borre, La Coltivazione della Cicoria Rossa di Treviso incluyéndolo sea en el Vin Veneto que en el sucesivo La Cucina Trevigiana (1983).

El radicchio rojo de Treviso es presumiblemente una planta endémica cultivada desde hace tiempos inmemoriales con una técnica, fruto de la observación y experimentación de los campesinos locales.
Su presencia en la pintura del cinquecento, que tiene como tema una escena de vida popular, lo confirma.
Otro asunto es su apreciación como especialidad gastronómica y el consiguiente aumento de valor comercial iniciados en la segunda mitad del 800.
Esta valoración fue favorecida (tal como traté de demostrar con Raici hace 20 años) por el desarrollo de la ferrovía y por el impulso dado a los comercios por la abolición de los impuestos aduaneros, no posteriormente a la unificación nacional sino a la unión del Véneto con Italia en 1886.  A este respecto es muy significativa la obra del piamontés Francesco Cirio, el más grande de los exportadores italianos, que comercializó el radicchio en algunas ciudades importantes italianas y europeas. Fue particularmente fructífero el compromiso del agrónomo de origen Lombardo Giuseppe Benzi quien el 20 de diciembre de 1900 dió origen a la muestra histórica del radicchio en la Loggia del Palazzo dei Trecento en Treviso y que por décadas siguió su desarrollo en las columnas periodísticas de la Gazzeta del Contadino.

En este contexto se toma la obra de los Van Den Borre con su histórico “establecimiento hortícola” que se recordará no, por el descubrimiento de una técnica ya sabida, sino por la selección de las semillas, los escritos de divulgación de Aldo, su óptimo catálogo que hizo conocer esta “maravillosa variedad de radicchio (achicoria)… en cada ciudad de Italia y en el extranjero.”

Traducción: Virginia Ros


Achicoria roja - Radicchio rosso Treviso - Historia,
Traducción Virginia Ros




lunedì 15 aprile 2013

Un ricordo di Gino (Luigi) Tarantola, libraio di Treviso

Nei giorni scorsi, sfogliando internet, sono venuto a conoscenza della morte di Gino Tarantola, libraio, come orgogliosamente riportato nella necrologia.
La sua figura ha segnato un momento importante della mia vita. 
Nei primi anni Sessanta, appena uscito dal seminario, finite le medie, solo, sbandato, senza amici e men che meno amiche, la scoperta della Loggia di Tarantola, con il suo muro tappezzato da libri antichi e i suoi banconi ricolmi in parte di vecchie mappe e di libri di un certo valore e in parte di libri semplicemente usati rappresentò per me che venivo dai campi la scoperta della città. Sotto quella Loggia ho trascorso lunghe ore, affascinato da tutto quel ben di Dio. 

Gino Tarantola (con il berretto rosso) e i suoi libri
sotto la Loggia dei Cavalieri a Treviso. (Cartolina ca. 1970, ed. A. Zago)

Appoggiata la bici al muretto esterno, mi avvicinavo ai banchi intimorito, ma anche rassicurato, dalla burbera e paterna figura del sior Gino. Mi aggiravo fra le pile di libri leggendo pagine su pagine prima di decidermi a comprare quello che le mie tasche perennemente vuote mi permettevano. Erano gli anni dei grandi classici della Bur, libriccini 10x15 in brossura e carta da due soldi: volume singolo - nuovo - lire 50, doppio lire 100 (così li ricordo e può darsi che sbagli, perché ora non ne trovo neanche una copia che pure so di aver salvato: sommersi da altri. Forse saranno finiti in soffitta dove non oso avventurarmi).
Ma mi coinvolgevano pure i Gialli Mondadori che per la mia educazione sessuofobica erano avvolti da un'aura di proibito e peccaminoso.
Feci in tempo a comprare, sempre usati s'intende, anche i primi Oscar Mondadori: autori contemporanei, copertina a colori, ben altro aspetto.
Il bello di Tarantola era che, oltre a vendere i libri usati con il 50% di sconto sul prezzo di copertina, li ricomprava al 25%. 
Compravo, leggevo e rivendevo. La spesa era relativamente poca. Le divagazioni concesse al mio animo smarrito e sognante erano immense, come e meglio del cinema, altro luogo in cui rifugiavo spesso la mia solitudine, ma che aveva il difetto di essere molto più costoso e di consumarsi molto più in fretta. (Dimenticavo: in casa non c'era la televisione; per fortuna, posso ben dirlo).
Per aumentare il potere d'acquisto avevo escogitato un metodo ad hoc. Durante alcune escursioni in bici m'ero accorto che in un prato verso la fine della strada Ovest venivano scaricati con una certa frequenza rottami di vetro dai quali emergevano bottiglie di spumante vuote, ma ancora intatte. 
Con il carrettino da bicicletta di famiglia - usato per andare in piassa a vendere la verdura - mi recavo di tanto in tanto a raccogliere le bottiglie migliori e le portavo da Mario Rossi, quello dei vini, che le comprava per una cifra discreta.
Soldi che investivo da Tarantola.
Fu una stagione breve e intensa. Peccato che, malgrado (o forse a causa di) tante letture, l'esito scolastico fosse pessimo. Gli annali dell'istituto magistrale Duca degli Abruzzi mi annoverano senz'altro fra gli allievi peggiori.
Ma fu un approccio alla "cultura del libro" che segnò indelebilmente la mia attività da adulto, e di cui sono grato al vecchio Tarantola, con la sua capacità di resistere ai venti che soffiavano da ogni lato sotto l'aristocratica Loggia, con il suo berretto di feltro, con i suoi baffi da cospiratore. 

Luigino Scroccaro e Marina Rossi, 2002 - Presentazione "I prigionieri italiani dopo Caporetto", di C. Pavan


Centro di Documentazione storica sulla Grande Guerra, San Polo di Piave (Treviso) - 
Sabato 11 maggio 2002

Presentazione ''I prigionieri italiani dopo Caporetto'' - San Polo di Piave, 2002
da sx - Pavan, Marina Rossi, Luigino Scroccaro 


(Trascrizione integrale)




Luigino Scroccaro, Presidente del Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra

Credo che possiamo iniziare. Un saluto e un grazie a tutti voi che siete qui presenti a questa iniziativa che testimonia ancora una volta l’interesse per il nostro Centro che sia pure con le sue risorse limitate è comunque presente nel dibattito, nelle iniziative che numerose ci sono in giro, riguardanti la diffusione della conoscenza degli avvenimenti della Prima guerra mondiale. Il tema  che verrà affrontato questa sera è abbastanza inesplorato, nel senso che non esiste una grande bibliografia al riguardo dei prigionieri e della prigionia. È una proposta che si inserisce nello spirito del nostro Centro, cioè quello di indagare, di offrire occasioni di conoscere argomenti poco trattati di quel grande evento che è stata la Prima guerra mondiale.
L’occasione di parlare di questo ci viene offerta dalla pubblicazione di Camillo Pavan, I prigionieri italiani dopo Caporetto e dall’autorevole presenza della dottoressa Marina Rossi, studiosa dell’argomento. Ringrazio per la loro disponibilità. Però, prima di passare… così, a dire alcune cose su queste due persone che sono con noi — del resto avete già il pieghevole-invito per cui molte notizie le trovate e sicuramente le avrete già lette — vorrei, così, dire alcune cose su – appunto - questi due nostri ospiti graditissimi e partirei da Camillo Pavan, anche se dovrei parlare prima della dottoressa, da cavaliere… ma preferisco parlare di Camillo perché è un po’ quello che ci dà l’occasione di parlare di questo argomento.
Credo, almeno penso, che alcuni di noi conoscano già Camillo, sia perché è un trevigiano Doc — non è “razza Piave” ma è “razza Sile” perché è nato in riva al Sile, o quasi — sia perché vi sarà capitato di incontrarlo a qualche festa o in Calmaggiore a Treviso con la sua produzione. Perché Camillo è uno storico un po’ particolare rispetto a quelli che siamo abituati a conoscere. Cioè Camillo pensa, ricerca, costruisce la sua opera, poi … ancora non la stampa, però la commercializza… quindi è un po’ una catena quasi completa. E questo non vuol dire assolutamente che i suoi prodotti non siano di qualità, anzi, sono stimatissimi e piacevolissimi.
Io ho conosciuto Camillo parecchi anni fa, nel 1985 in occasione non so se del primo tuo libro, ma deve essere stato il primo… Drio el Sil, un libro che ha avuto un ottimo, anzi direi un grande successo, che non si trova più in commercio, ma che vi consiglio di leggere e che tra l’altro ha vinto il premio Costantino Pavan di San Donà di Piave, un premio che — purtroppo — dall’anno scorso credo che non ci sia più, sulle culture locali, e un premio a livello nazionale, quindi era molto quotato, molto importante.
Da lì poi sono seguiti altri sul Sile, però noi siamo qui per parlare del suo interesse per la Grande Guerra, un interesse che accomuna probabilmente molti di noi a Camillo e [nel]la premessa che lui fa al suo libro Caporetto, stampato nel 1997, probabilmente ci riconosciamo in tanti. Soprattutto per le generazioni che hanno vissuto l’infanzia intorno agli anni Cinquanta dove i ricordi della Prima guerra mondiale o raccontati dalle testimonianze dirette di chi li aveva vissuti, o da chi li aveva sentiti o chi era presente comunque anche se bambino… cioè tutti abbiamo avuto questi ricordi trasmessi. Perché poi sapete che oggi raccontare non si usa più, neanche la scuola racconta più… c’è tutto il mezzo televisivo, e basta. Quindi non c’è più un rapporto tra il bambino e l’adulto, tra il figlio e il genitore e certe cose non si trasmettono più, certe conoscenze, se non sono i libri, se non sono altri mezzi di comunicazione… Quindi Camillo, questo sistema di farsi raccontare l’ha utilizzato anche nel libro che verrà presentato questa sera I prigionieri italiani dopo Caporetto. E non è che ha utilizzato solo le fonti orali, perché se si utilizzano solo le fonti orali è un po’ pericoloso, perché sappiamo che molto spesso sono esperienze soggettive per cui non colpiscono e non raccontano in maniera completa; però ha aggiunto a queste molte altre fonti per cui noi che le leggiamo possiamo metterle a confronto e trarre le conclusioni.
[Per] questo libro, vorrei anche ricordare che Camillo ha avuto anche un aiuto da Alberto Burato che ha curato un elenco, credo, interessante e originale sui campi di prigionia e sui prigionieri. Per cui ringrazio anche Alberto Burato.
Abbiamo chiesto alla dottoressa Marina Rossi di presentarci questo lavoro inquadrandolo in un contesto probabilmente più ampio, per aiutarci a capire, perché poi spero che tutti avremo occasione di leggere questo libro.
Marina Rossi è docente universitario presso l’Università di Trieste, e vorrei sottolineare che è un’amica del nostro Centro, grazie anche ai rapporti di collaborazione e di stima che la lega al dottor Bucciol (che è un po’ il nostro… la nostra anima nonostante non sia più presidente e che ringrazio anche in questo momento).
Ha sempre seguito le nostre attività. Vorrei ricordare qui il prezioso aiuto che ha dato alla collaborazione per la mostra e per il catalogo che è stato presentato a Oderzo l’autunno scorso sull’Albania, Fronte dimenticato della Grande Guerra. Una mostra e un catalogo estremamente interessanti. Vedete, anche qui, un tema che non è molto conosciuto e che grazie appunto al dottor Bucciol noi siamo riusciti a portare a chi naturalmente desidera conoscere queste cose. Perché molto spesso la risposta non è adeguata all’impegno e alla passione che uno ci mette. Comunque io ho avuto, così, la comunicazione proprio dal dottor Bucciol che questa mostra quasi sicuramente l’anno prossimo andrà a Vienna, e speriamo che giri anche in altri comuni. Perché tante iniziative del Centro sono più conosciute fuori i confini non solo di San Polo, ma fuori i confini addirittura della provincia, della regione, più che nel nostro territorio.
Comunque Marina Rossi è stata invitata stasera proprio per affrontare questo tema della prigionia, perché lo conosce molto bene, non solo per la Prima guerra ma anche per altri aspetti e altri periodi storici.
Scorrendo il suo curriculum scientifico, le cose più interessanti che ho notato io sono innanzitutto le collaborazioni, sia a livello nazionale che internazionale che lei intrattiene in particolare con i paesi slavi, con la Russia. Ricordo che lei è stata la — penso — la prima che abbia consultato gli archivi dell’ex Unione Sovietica. Quindi, di prima mano, è venuta a contatto con un fondo di straordinaria importanza e su questo ci ha lavorato.
Comunque io ringrazio di nuovo questi due nostri ospiti. Ringrazio voi e per non dilungarmi… passo subito la parola alla dottoressa Marina Rossi. Buon ascolto.


Marina Rossi, Università di Trieste


Io ringrazio il signor Scroccàro… «Scròccaro… »    [precisa l’interessato, e M. R. si scusa] e il signor Beltrame per avermi proposto questa iniziativa. Da tempo desideravo conoscere il Centro per la Documentazione sulla Grande Guerra di San Polo, è vero che grazie ai rapporti di collaborazione con Eugenio Bucciol è anche la terza volta per me, la terza occasione  di confronto con l’interesse della gente di questi luoghi sul tema della Grande Guerra. Una sensibilità che mi ha molto colpita. Ringrazio quindi anche il pubblico che pur così impegnato su tanti versanti dà prova di questa attenzione. È anche un’occasione felice per conoscere personalmente Camillo Pavan. Sapevo del suo grande lavoro; non ho avuto l’occasione quando è uscito il grosso volume su Caporetto di recarmi alla presentazione, però so che da anni svolge una ricerca preziosa, importante, che lo onora, che spazia dall'etnografia alla cultura di questi territori ad un amore per il tema, ma in quale senso? Credo nello stesso senso in cui lo intendo io e gli studiosi che lui ha citato nella bibliografia aggiunta a quest’opera I prigionieri italiani dopo Caporetto, cioè l’interesse d’indagare i lati oscuri della guerra, quelli rimossi, quelli più scomodi, quelli dimenticati però in nome di valori umani che la guerra, purtroppo, ha negato e continua a negare.
Io mi sono occupata per anni di prigionìe, certo non quelle dei prigionieri italiani, come ha fatto in questo caso Camillo Pavan e come ha fatto la Giovanna Procacci nel testo di riferimento fondamentale uscito con Editori Riuniti per la prima volta e poi edito ancora una volta, I prigionieri italiani nella Grande Guerra; uscito all'inizio degli anni ’90, nel ’93, e poi più recentemente ristampato. Mi sono occupata degli italiani sì, ma di italiani ignorati per decenni, gli italiani dell’esercito austro-ungarico, cioè degli ultimi sudditi — se così li vogliamo chiamare — del Regno d’Italia. Un argomento scomodo a sua volta che gli amici, gli studiosi di Rovereto, gli studiosi trentini, per primi avevano in qualche modo valorizzato aprendo nell’85 quel convegno e poi incoraggiando altri ricercatori italiani e sloveni del nordest d’Italia ad affrontare. Io ho voluto trasferire poi la mia ricerca all’incrocio di fonti soggettive, diari e lettere, con fonti archivistiche degli archivi russi e quindi mi sono trovata immersa in uno scenario bellico enorme, diverso dal fronte italiano. Ma è anche vero che Caporetto segna una svolta che si può paragonare o porre a confronto, in altri momenti in altri settori del fronte occidentale, ed anche di quello orientale.
Franco Cecotti, è un altro studioso di frontiera, triestino — un mio caro amico con cui ho lavorato sui diari della Seconda guerra mondiale, i prigionieri russi, uno era suo padre — ecco, ha pubblicato un testo che Camillo Pavan cita e che ha il merito (un testo uscito con la Editrice Goriziana di recente, che si occupa di profughi, di sfollati, delle vittime civili della guerra) ha il merito di aprirsi con un saggio che osserva alcune cose, che secondo me è bene tenere presente nella lettura del volume di Pavan. Ossia la voluta dimenticanza, l’oblio voluto per tutta una serie di ragioni, che sono politiche e storiografiche, dei destini, della storia delle popolazioni di frontiera. Lo sbando di queste masse di uomini che noi vediamo così bene evidenziato nel volume di Pavan — è veramente un percorso originale — che nessuno ha toccato, riguarda territori sensibili del Friuli orientale, dell’Isontino, della Carnia con popolazione slovena, si parla della val di Resia. Riguarda territori che poi sono divenuti fascia confinaria difficile tra il nuovo regno d’Italia, integrato di queste province acquisite con la vittoria del ’18 e lo stato jugoslavo nato a sua volta dalle ceneri dell’impero asburgico, il regno dei serbi, dei croati e degli sloveni. 
Il libro di Pavan è un’analisi che conferma certi dati essenziali e importanti non ancora, temo, di vasto dominio. Quanto la Procacci osservava a proposito di prigionieri italiani, beh non va — dal mio punto di vista — ad onore dei vertici dell’esercito italiano. È pur certo, studiando la guerra in vari settori, in vari scacchieri del mondo, che nessuna potenza in guerra ha trattato bene i prigionieri, che nessun esercito ami i propri prigionieri. Si è tanto parlato di guerra ideologica in Urss, delle sevizie vere  o presunte ai prigionieri italiani caduti i mano all’Armata Rossa, ma quale esercito ama i propri prigionieri? Si è parlato tanto [ … ] della disposizione di Stalin che obbligava il soldato sovietico a combattere, nella seconda guerra mondiale, altrimenti la famiglia avrebbe pagato con delle sanzioni, altrimenti sarebbe stato internato, eccetera, eccetera. L’Italia, il regno d’Italia non ha fatto questo, però si è comportato, il comando supremo dell’esercito italiano — il volume della Procacci lo conferma e ne dà ampia conferma per i territori esaminati dal Pavan — ha trattato duramente e severamente i prigionieri italiani. Pavan lo sottolinea, in questo anno difficile, arriveremo poi a discuterne, il fatale 1917, conferma la programmata volontà di non inviare pacchi della Croce Rossa ai prigionieri italiani rinchiusi nei campi di prigionia del’Austria, della Germania, ridotti a scheletri. Le foto impressionanti che ci sono nel volume lo confermano — avevo visto sequenze simili solo nei documentari originali provenienti dagli archivi di guerra della Germania e dell’Austria, che una volta in una rassegna a Trento dove io ho proposto le mie ricerche sugli archivi russi, sono venute fuori. Quindi una meditata volontà punitiva nei confronti del militare italiano, punito a sua volta dopo il ritorno in patria.
Nell'esaminare i punti così avvincenti, tragici ma avvincenti per il modo in cui Pavan tratta la materia, e per la bellezza e l’estrema varietà delle fonti che usa Pavan… Pavan ha svolto un lavoro enorme, che rivela una fatica di ricerca pluriennale. Ha trovato diari, ha trovato lettere, ha una bibliografia, ha trovato illustrazioni, si è avvalso dell’aiuto di Burato per una preziosissima cartina, quindi c’è anche un’appendice statistica, con numeri, cifre, scansioni, il lavoro più difficile e più ingrato, tremendo quello della ricerca dei nomi dell’identità di questi infelici avventurandosi appunto su aspetti veramente tragici della guerra di cui credo nessuno abbia avuto il coraggio di parlare con tanta chiarezza, così come lo fa lui.
Il “fuoco amico”. Noi ne sentiamo parlare, ahimè purtroppo, da undici anni con le nostre guerre in corso nel pianeta. Vi ricordato, il “fuoco amico” durante la guerra in Iraq nel gennaio del ’91. Il diario del marine americano, poi reso di pubblico dominio credo da Panorama, che quella volta avevo comprato e letto. Il “fuoco amico” di questi ultimi tempi in Afghanistan e in altri settori del nostro pianeta in fiamme. Ebbene, Camillo Pavan — a maggior ragione potevo esserne sensibile io — ce lo mostra così vicino a noi mentre questi poveri prigionieri italiani costretti ad avviarsi tristemente verso i campi di prigionia dell’Austria sono bombardati, così,  non si sa se volutamente — ma alcune fonti indicherebbero proprio questa intenzione — o per sbaglio dall'aviazione italiana. Siamo in Friuli. Perché, comunque, se sono prigionieri non sono stati dei bravi soldati. Quindi ci sono questi tristi episodi, quindi altri elementi che indicano l’irrigidimento del comando supremo dell’esercito italiano, di un insieme di … proprio una linea generale di comportamento dei comandi rispetto a questi uomini infelici. Che devono fare i conti con la popolazione civile man mano che attraversano il cividalese, soprattutto le aree miste a popolazione slovena, e non possono trovare durante queste lunghe marce sempre amore, comprensione, pietà, aiuto.
Eh no, il caro Pavan, sottende altri problemi importanti, assai poco conosciuti dall'opinione pubblica italiana, che ignora quasi, anzi ignora direi quasi del tutto, che gli sloveni del nordest esistono dal sesto secolo dopo Cristo. Quindi sono venuti prima di altri. La Serenissima, la repubblica di Venezia, quando nel XV secolo non riuscì ad annettersi la cosiddetta Slavia Veneta, il Cividalese, spiace a dirlo, ma si comportò più democraticamente rispetto a quanto ebbe a fare il regno d’Italia, dopo la guerra d’indipendenza del 1866. L’intento continuo, quasi ossessivo, purtroppo lo devo dire con obiettività di riscontri, attraverso vari studi e pubblicazioni, l’ossessività dell’Italia è stata sempre quella della snazionalizzazione rispetto agli sloveni. Dal 1866 ha ridotto le possibilità di istruzione. In questi ultimi anni — qui sarebbe bello però poter mantenere contatti più costanti, scambi su quanto esce anche in Slovenia — nella stessa Slovenia, all’università di Lubiana, si producono studi nuovi in questa direzione. Segnalerei, se interesserà anche al Centro sarà mia cura farglielo avere — è uscito ad esempio, credo tre anni fa lo presentai e anche lo recensii, un grosso volume doppio della rivista Qualestoria, La guerra sul Carso e sull’Isontino. In questo grosso fascicolo c’è un saggio di una giovane studiosa slovena, Petra Svoljšak, che indica come la preoccupazione del comando supremo del regio esercito, a partire dall'estate del ’15, nelle aree slovene, fosse quella appunto di snazionalizzarli subito, cambiando il nome dei toponimi, licenziando i maestri e imponendo l’insegnamento di cappellani militari. Poi nella linea del fuoco la popolazione civile viene trasferita in altre località del regno, in Emilia, quindi già si propongono delle linee, così, di negazione dell’identità culturale e politica di questa gente che non possono rendere ahimè simpatici i poveri militari italiani che sfilano nei dintorni di Gorizia o in altre parti.
L’ignaro fante italiano che arriva da chissà dove, contadino da luoghi lontani, rimane colpito o dallo sgarbo o dall'indifferenza  o quanto meno dalla scarsa comprensione per il suo dolore, così come in altra parte di questo lavoro si vede come l’occupazione degli austro-ungarici del Friuli orientale è intesa in buona parte della gente come una sorta di rivincita. Ah, son tornati i nostri! Chiaro. Secoli di presenza asburgica non si cancellano… Quindi l’interpretazione della guerra  così… nel segno del patriottismo italiano — lo dice bene anche Cecotti — la si legge nei monumenti, e non è casuale che il maggior numero di monumenti in pietra a ricordo della prima guerra mondiale esista proprio nelle aree di frontiera, Redipuglia, verso il Monte Santo, in territori che invece hanno sofferto di questo difficile rapporto, di cui hanno pagato le conseguenze anche i prigionieri che — beh, la fame c’era per tutti — ma si rendevano… erano consapevoli della ostilità o quanto meno della estraneità. Che poi Gorizia, anche questo è un argomento molto interessante, abbia avuto anche un fiorire dell’irredentismo, che ci siano stati casi di irredentisti che hanno disertato, che hanno attraversato segretamente la linea del fuoco per arruolarsi nelle file dell’esercito italiano, questo è anche un dato indubitabile. Io stessa ho esaminato diari di militari austro-ungarici che hanno accolto poi la proposta della missione militare italiana in Russia che mirava ad allontanarli dall'esercito austro-ungarico (come tutte le missioni alleate dell’Intesa, per — insomma — portarli dalla propria parte) e se li è portati nella guerra contro i bolsevichi. C’è anche questo. Però sono state minoranze. Il Goriziano, particolarmente la campagna del Goriziano ha espresso in ambito sloveno, anche tra i militari sloveni dell’esercito austro-ungarico, una fedeltà… un lealismo. Beh, Pavan conosce Panzera, che conosco anch'io  insomma abbiamo molti amici in comune, molti studiosi che conosciamo reciprocamente… allora tutte queste costanti questioni traspaiono. Meritorio, ripeto, questo desiderio di approfondimento che nasce, credo, da un bisogno di capire, perché altrimenti non andrebbe a toccare tasti così scomodi, così dolorosi.
Per parlare di Caporetto, io non sono una studiosa di Caporetto ma certamente ho dovuto occuparmene. Il Diciassette, anno fatale. All'inizio del volume c’è anche un’ampia nota, così, di discussione tra l’autore e Antonio Sema, che pure conosco da anni, Isnenghi, che conosco benissimo, un grande studioso della Grande Guerra, inevitabilmente lo si conosce per quello che ha scritto e anche per i rapporti diretti. Beh, in Russia c’è stata la rivoluzione, d’accordo e anche i deputati liberal nazionali del cosiddetto Partito dei Cadetti, già nell’estate del Quindici avevano paura di un incendio rivoluzionario; sapevano però, ohibò…  in tutta l’Europa in guerra, la stanchezza della guerra si avverte nel ‘17 e quindi non sono completamente d’accordo sulla necessità di negare la stanchezza della guerra.  Pavan comincia bene con quelle pagine in cui si parla della progressione del numero dei prigionieri da Caporetto al Piave, e mette la battuta “W l’Austria, W la Germania. La resa senza combattere” come espressione generale di una stanchezza nei confronti di una guerra che non vuol dire necessariamente essere espressione di una ideologia socialista. Non vuol dire un porsi contro in termini politicamente consapevoli. È sicuramente logoramento. Il logoramento, la sfiducia rispetto alle ragioni della guerra, la crisi morale — se così vogliamo chiamarla — ci fu. Che poi il generale Cadorna non fosse tanto gradito… non credo che revisionismo e antirevisionismi si permettano di negare gli atti dei tribunali, dei processi militari contro i disertori, le fucilazioni dolorosissime imposte da Cadorna.
La scorsa settimana a Trieste si è celebrata la Festa dell’Esercito, forse qualcuno c’è andato o avrà visto in televisione. Io ho partecipato a una tavola rotonda in cui c’era l’ufficio storico che ha promosso il tutto e ho sentito un anziano generale — anziano, insomma, non certamente di quest’epoca, ma anziano protagonista della Seconda guerra mondiale — così, esaltare il patriottismo evocando le canzoni di guerra in onore di Cadorna. Ma dalle nostre parti, dove sul Carso morivano i pastori e i contadini sardi si cantava la strofa: «Il general Cadorna ha detto alla regina / se vuoi veder Trieste / guardala in cartolina…» … «Bim, bum, bom, al rombo del cannon… »  fa il ritornello. C’erano anche strofette più irriverenti che per motivi di eleganza non citerò pubblicamente!
Quindi c’è l’esasperazione nei confronti della guerra. Né è possibile paragonare la realtà interna dei singoli paesi a quella della Russia. Mi compiaccio con Pavan, che nel libro ha compiuto anche uno sforzo  di raccordo, di collegamento tra quella che è la stanchezza, l’imponente numero di prigionieri citati dalla Procacci — 300.000 prigionieri dopo Caporetto — alla crisi che si avverte all'interno dell’impero asburgico. Un impero in cui la gente soffre la fame e che sarà scosso subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre da grandi scioperi politici, gli scioperi del gennaio del Diciotto, da ammutinamenti — ricordo quello della baia di Cattaro — rivolte militari, su cui io stessa ho pubblicato articoli in questi anni. Quindi c’è questo scenario enorme di crisi. C’è il problema delle diserzioni che si verificò anche in Francia, si verificò anche in Inghilterra. Negli anni Sessanta, fine anni ’60- ’70, quando gli umori politici nel nostro paese erano diversi apparivano nei cineclub filmati inglesi su processi militari Per il Re e per la Patria, non so chi di voi l’abbia visto, credo sia stato Losey… Per non parlare dei classici Niente di nuovo sul Fronte Occidentale (All'ovest niente di nuovo), Orizzonti di gloria, ecc, ecc. Si discuteva molto. Oggi si parla meno, perché gli umori sono diversi, di fatto c’è un ritorno, direi, alla esaltazione della guerra e quindi una difficoltà di discutere in altri termini su quelli che sono invece i fattori umani.
Io, nelle mie ricerche, mi sono messa dalla parte delle vittime della guerra; non i profughi di cui oggi si discute tanto, ma il militare semplice. Lo dice bene, … nella prefazione del mio volume lo stesso Isnenghi, dicendo di me dice: «Cosa importa essere italiano, ceco, austriaco o croato… ». Cioè, il mio sforzo non è quello… non è una connotazione necessaria dal punto di vista nazionale. Cioè la mia identità nazionale è intesa come identità culturale, lingua, cultura, stato d’animo, radice… ma non come scontro nazionalistico o presunta superiorità o inferiorità dell’uno verso l’altro. Quindi la guerra produce scardinamento, distrugge… , un meccanismo che stritola le vite individuali e l’essere umano si trova… — beh, Mosse lo cita anche lui, ci sono grandi studi a livello europeo — è una rotellina di un ingranaggio impazzito che non può controllare. Quindi io mi pongo dalla parte delle vittime, di chi la guerra l’ha subita e non l’ha voluta, anche come soldato. Credo che Pavan indicando questa ricerca dopo la tragedia, le varie forme di difficoltà  e sofferenza di questo torrente composto da centinaia di migliaia di prigionieri che Caporetto viaggiano attraverso queste zone particolari, verso l’Austria, li vede in marcia colpiti dal “fuoco amico”, li vede in difficoltà nei rapporti con il nemico  — in quel caso l’Austria — in difficoltà con le popolazioni… Parla dei campi di prigionia, della vita all'interno dei campi distinguendo…  — anche questo è un dato nuovo rispetto alla ricerca di Giovanna Procacci, che conosco bene e con cui anche intrattengo rapporti da anni — per la prima volta pone al confronto anche il prigioniero italiano rispetto agli altri alleati nei campi di prigionia. C’è differenza? Sì, stando a Pavan, c’è anche questa differenza. Ogni esercito ha le proprie difficoltà e variamente considerato a seconda degli effettivi rapporti delle potenze. Sono i rapporti di potere, dei vertici, che influiscono. Poi anche tra prigionieri influisce il fattore umano. Ci potrà essere il prigioniero generoso e quello che ruba tutto. Il prigioniero che sogna che gli regalino un pezzo di pane e quello che ruba tutto a lui se vede la casa abbandonata o ràzzia, fa di tutto… 
Non voglio ricordare… anzi, mi viene… proprio la provocazione, dato che anch'io lavoro molto anche sulle fonti soggettive… in mente la disillusione di Emilio Stanca. Nel mio secondo volume — che è dedicato proprio all'identità nazionale, culturale, politica di italiani, sloveni e croati al fronte orientale, e al problema del rimpatrio — c’è tra i vari personaggi che spesso ricompaiono un triestino, Emilio Stanca, il quale è innamorato dell’Italia, pur essendo prigioniero, pur essendo soldato austro-ungarico prigioniero dei russi, ha questa idea molto bella dell’Italia. Al suo rimpatrio dalla Russia si ritrova a Vienna in treno con i prigionieri italiani che a loro volta, nel corso del 18, dopo, nell'autunno del ’18, a torrenti rientrano in patria. La prima delusione è quella. Proprio un italiano gli ruba lo zaino e tutte le fotografie dal fronte che lui era riuscito a conservare, dal ’15, nonostante gli attacchi, le peripezie e le sofferenze, i vari campi di prigionia, il lavoro coatto in maniera nelle zone occupate dagli austro-germanici, in Ucraina nell'estate del ’18. Ahimè, proprio un italiano… ecco, è già un disincanto. E dalle fonti che io cito in quel volume si nota che il maggiore disincanto rispetto all'Italia è avvertito proprio dagli irredentisti dell’esercito austro-ungarico: dalmati, triestini che hanno scritto autobiografie e che sognavano l’Italia, poi ce l’hanno… E dicono … c’è Arrigo Arneri, un marittimo, che dice: «Eh, la nostra Italia era un’Italia sognata, ma in realtà che cosa aveva di diverso rispetto all'Austria ». Monarchica, come l’Austria. Cattolica, come l’Austria. Con minori libertà però rispetto all'Austria, perché almeno l’Austria era il paese del , del ja e del da e quindi le scuole e l’istruzione, tante piccole cose ci potevano essere. Quindi c’è questa difficoltà, nei territori di frontiera, che porteranno a gestioni non meno critiche nell'immediato dopoguerra. Poi c’è il precoce avvio del fascismo che, in qualche modo, inevitabilmente devono essere collegate a questa inedita ricerca sui luoghi di guerra compiuta da Pavan e che riguarda proprio territori a me così vicini. Si parla dell’ultimo lembo del Friuli occidentale, Udine dove c’erano i comandi, i luoghi di transito, un orribile campo di concentramento di prigionieri a Cividale, poi via via le lunghe marce nelle aree mistilingue, poi Laibach (Lubiana) fino alla vita interna ai campi che conferma uno stato di disagio generale ed una disumanità, particolarmente quella germanica, che sembra far preludere quasi ai campi di concentramento futuri. A vedere le fotografie impressionanti di quei corpi scheletriti di questi prigionieri noi pensiamo alla Seconda guerra mondiale. In effetti la Grande Guerra, prima guerra di massa nella storia del’umanità prepara il sistema concentrazionario nei campi di prigionia. E qui è importante collegare quanto scrive Camillo Pavan, e paragonare questo ad altri campi.
Io ho cercato proprio con la Procacci, discutendo del suo libro, si paragonava la prigionia dell’Austria e della Germania a quella della Russia. Nessuno ha  nulla da invidiare all’altro. Certo la crudeltà germanica sembra studiata. Mentre in Russia, per dire, la povertà era comune a tutti, il prigioniero soldato semplice godeva dello stesso rancio del soldato semplice russo. A volte stava meglio lui del soldato russo. L’ufficiale, in base alla convenzione dell’Aja che era stata sottoscritta anche dallo zar Nicola nel 1907, invece, godeva di un trattamento di favore, superiore a quello di un ufficiale dell’esercito zarista. Nel mio libro I prigionieri dello zar parlo di un diario di un fiumano, un austro-ungarico di fiume il quale si cucina una bella gallina, perché aveva il soldo e per capodanno se la mangia con i soldati; i suoi guardiani prendono una bella pantegana, arrostiscono quella e buonanotte al secchio! Sempre carne è, a la guerre comme a la guerre!
Mentre nel volume di Pavan si vede come da parte austriaca, o anche austro-germanica, ci siano frequenti violazioni di quelle che sono le norme di diritto. Lo stato di diritto del prigioniero, come sancito dagli accordi internazionali, non è osservato per quanto riguarda l’alimentazione. Si capisce che c’è la fame  — la fame in Austria è stata tremenda, nella Prima guerra mondiale e subito dopo — ma ci sono condizioni di disagio, di rigidità, cui peraltro non viene minimamente incontro il comando supremo dell’esercito italiano, che rimane fino all'ultimo convinto di dover punire questi prigionieri.
Io parlo dei ritorni e di altri periodi di internamento coatto. Per i reduci dell’esercito austro-ungarico, dalla Russia e dal fronte balcanico la Procacci parla anche lei di campi di rieducazione per prigionieri italiani in altre località insulari e peninsulari. Si parlò in un primo momento addirittura di un internamento in Libia, nelle colonie. Quindi, in questo sfascio, in questo scardinamento generale della guerra va valorizzata la estrema originalità di questo volume, il coraggio ripeto di toccare piaghe dolorose, di entrare nei cosiddetti buchi neri della storia — come li definivo l’altro giorno parlando per telefono con l’autore — tasti difficili… Tanto più coraggioso, credo questo volume in un momento politico come questo. Purtroppo la politica incide nell'interpretazione storica. Se noi scegliamo di essere studiosi, coraggiosi, liberi, dobbiamo anche tener conto che, insomma, sarà anche più difficile la discussione, l’accettazione di quanto si fa. Però, per me, il lavoro di Pavan è un lavoro di grande valore, tenendo conto delle motivazioni — anzitutto — perché lui lo fa per un bisogno interiore. Quindi una ricerca doppiamente meritevole, per la fatica che gli costa, ma molto meritevole per il coraggio di toccare punti effettivamente poco indagati. Se per la prigionia russa sono usciti diversi saggi, io stessa sono immersa come pioniera in questo ambito, pubblicando varie cose, per quanto riguarda l’Italia sono d’accordo che — al di là del lavoro della Procacci e questo volume di Pavan ci sia……


(Lato B dell'audiocassetta)


… lo provocherei però su un punto, e cioè chiedo più che altro una spiegazione… mi piacerebbe anche in sede di dibattito, ma spiegherà meglio lui, ora, quello che è stato il suo progetto. Che cosa ha voluto dimostrare? Come vede lui l’identità di questi prigionieri? Io vedo un’insistenza molto forte, sul tema nazionale. C’è questa identità italiana di questi militari che periodicamente viene ad urtarsi o con il nemico austriaco — i rapporti tra i nemici difficilmente possono essere buoni — ma io aggiungerei un’altra cosa: i rapporti tra italiani e austriaci non erano buoni neanche nell'esercito austro-ungarico, indipendentemente dalla scelta politica del singolo ufficiale italiano che andava alla scuola di addestramento nelle retrovie a Rakensburg o in altre scuole, perché c’era una particolare durezza almeno nella ‘ufficialità’, un’estraneità  anche di cultura, di psicologia, e quindi son d’accordo. Assai più facile il confronto, i rapporti tra italiani, tedeschi, austriaci e serbi, croati, sloveni, cechi, ruteni con i russi. Effettivamente posso capire che questa difficoltà, questo disagio possa corrispondere.
Poi sulle ragioni di quest’opera, i bisogni di ricerca che hanno spinto Camillo Pavan a compiere quest’ulteriore fatica, dopo un tomo cospicuo — ho visto l’altro suo su Caporetto — sarebbe giusto che adesso cedessi la parola a Camillo e poi proseguiremo anche con le vostre domande.
Vi ringrazio per l’attenzione.

Camillo Pavan


Qui viene sempre il momento critico… perché io non sono assolutamente abituato a parlare, lo dico subito, mi dispiace, non voglio deludere. Quello che devo dire lo scrivo e ce la metto tutta per scrivere e spero di aver fatto un bel lavoro. D'altronde  a quanto dice la professoressa Rossi sembra che sia proprio un bel lavoro, e io sono orgoglioso che lo dica lei che è una studiosa vera e propria della guerra e di questi problemi delle aree di confine così tragici che sono stati.
Io non mi considero un vero e proprio studioso. Non so neanch'io cosa considerarmi. Forse un cronista più che uno studioso. Perché mi sono trovato a occuparmi della Prima guerra mondiale in maniera puramente casuale, all'età di quarantasei anni. Quindi non ho un retroterra di laurea in storia, o di studi particolari. Mi son trovato sull'argine del Piave un bel giorno, alla sagra di San Romano, il 22 agosto a Negrisia, ho trovato questo vecchio … Francesco Daniel, del 1908 (ed era nel 1993) e mi diceva: «Ciò, no te ricordi, varda che qua noantri scampaìmo co le pallottole de i tedeschi che me sparava… ». Io rimanevo lì a bocca aperta e mi dicevo: «Ma senti cosa mi racconta questo signore». Mi sembrava proprio di toccare con mano la storia. Perché erano cose che sì, avevo sentito raccontare da mio padre, della Seconda guerra mondiale. Ma della Prima guerra mondiale erano cose che si sono studiate a scuola, e che si sentiva raccontare dai nonni. Ma non credevo che ci fossero ancora delle persone vive che le sapessero. E da lì è partito questo mio assolutamente estemporaneo – se vogliamo – interesse per la guerra mondiale. Prima mi ero occupato del fiume Sile, dove abito, del radicchio rosso di Treviso; mai e poi mai avrei pensato di interessarmi della Prima guerra mondiale.
Quindi anche tutte queste domande che lei mi fa, cosa voglio dimostrare, cosa … io — sinceramente — non so cosa voglia dimostrare. Io voglio studiare, capire come è funzionata, come è stata questa tragedia che ha coinvolto le nostre popolazioni. Questa guerra che c’è stata nel cortile di casa, come suol dirsi. Questa guerra che per un periodo sembrava lontana, nel fronte dell’Isonzo, tanto è vero che la vita continuava tranquillamente, per chi almeno non aveva parenti diretti in guerra. Se si leggono i giornali fino al 1917, fino all’ottobre ’17, i teatri funzionano tranquilli, le scuole idem, tutto procede normalmente, come se la guerra non ci fosse.
Poi venne questo patatràc, questo dramma, questo improvviso crollo di Caporetto e allora ci si accorse anche qui nel Veneto, nel Friuli prima e nel Veneto poi, e in particolare qui nel Piave, che la guerra toccava tutti, tutti. E si dovette scappare. Come raccontava quel signore, chi poté riuscì a scappare, chi non poté come nel suo caso, rimase sotto il dominio dell’occupazione austro-ungarica. Fu un anno terribile, l’anno della fame. E da qui è partita l’esigenza di questa ricerca. Una ricerca che inizialmente fu basata su testimonianze orali. Con questo registratore intervistai una quarantina di persone ... del’99, del ‘900… e avevo raccolto un bel malloppo di interviste, ed ero pronto a uscire nel 1995 con un libro che più o meno s’intitolava “In fuga dal Piave”.
Però, mal me n’incolse, volli andare a Caporetto perché dicevo: «Sì, il Piave…, è successo sul Piave, ma non si può capire il Piave, se non si capisce Caporetto, perché prima c’è stata Caporetto». Andai a Caporetto, trovai questo bellissimo museo — non so se siete stati anche voi — e lì trovai i dirigenti del museo… In particolare trovai che il proprietario della casa in cui sorge il museo, un certo Slavko Mašera, era vivo e vegeto e ricordava quando, bambino, vide arrivare i soldati italiani, cioè i nemici. Quindi vidi la storia da un altro punto di vista, dal loro punto di vista. E questa fu la prima delle contraddizioni. Vidi che poi anche le pubblicazioni da parte austriaca, parlando di Caporetto parlavano del “miracolo” di Caporetto (il generale Krauss); per noi è la disfatta. Sinonimo della più tremenda disfatta è Caporetto, tuttora. "La Caporetto della nazionale", "la Caporetto di D’Alema", "la Caporetto dell’economia"… Per loro invece è il “miracolo” di Caporetto.
E allora qui mi son messo proprio a vedere da due punti di vista. Infatti nel primo volume ho soprattutto trattato questi problemi delle identità nazionali — sempre nei limiti in cui sono capace di farlo — e in particolare ho fatto tradurre da una professoressa che abita a Caporetto e contemporaneamente anche a Venezia, la professoressa Ferianis Vadnjal (che era originaria della zona, slovena)… mi son fatto tradurre un giornale che era il più letto all’epoca, lo Slovenec, e ho messo in confronto il Corriere della Sera e lo Slovenec. Seguendo questi due giornali ho analizzato lo svolgersi della battaglia  di Caporetto, i primi quattro giorni della battaglia di Caporetto, 24, 25, 26, 27 ottobre 1917, lo sfondamento vero e proprio del fronte. Questo è il primo volume.
Il secondo volume … che pensavo di fare subito dopo, ho dovuto rimandarlo per motivi che potrete leggere eventualmente nella postfazione: motivi prettamente economici. Perché io pensavo, come già con il Sile, di poter vendere tranquillamente questo libro in giro per le fiere, per le sagre, e invece non fu così. Il libro non ha… gli appassionati della Prima guerra mondiale ci sono, e sono anche molto appassionati, di solito, però non sono tantisimi, e quindi il libro non ebbe questo successo editoriale ed economico che io mi aspettavo. Non ebbe neppure un successo da un punto di vista istituzionale. Tanto è vero che avevo preparato un cinque-seimila volantini depliants — con un costo di svariati milioni di lire — che ho spedito alle varie biblioteche d’Italia e a un certo punto dopo tremila e settecento volantini spediti e trentasette copie ordinate ho dovuto fermarmi altrimenti mi mangiavo anche la camicia, come suol dirsi.
In poche parole tutto questo mi ha bloccato un po’ nel lavoro. Io dovevo uscire con tre volumi … come si dice, sì … belli grossi come il primo che ho fatto, ma ho dovuto fermarmi e pubblicare questa parte del secondo volume, che [...] in origine questo doveva essere un capitolo del secondo volume. Dedicato fra l’altro a un argomento che non conoscevo. Perché, come diceva giustamente la dottoressa Rossi, dei prigionieri italiani si sa molto poco, della Prima guerra mondiale. C’è stata questa grande opera della Procacci, e poi … sinceramente non conoscevo neanche il suo volume [ … di Marina Rossi: I prigionieri dello Zar, Mursia, Milano] che è uscito proprio nel 1997, in concomitanza con il mio. 
Comunque per me è stata un’assoluta sorpresa … e ho scoperto questo dramma dei prigionieri quando nel 1998 sono andato — sempre proseguendo nelle mie ricerche — a Pieve Santo Stefano, dove esiste l’Archivio Diaristico Nazionale.  E lì sono conservati tremila e passa diari, all'epoca,  adesso saranno molti di più, fra cui un centoventi circa parlavano della Prima guerra mondiale. Diari di soldati, diari normali, di gente comune… tutti possono mandare, se hanno un diario a casa, possono mandarlo lì: verrà schedato, poi messo da parte, pubblicato anche l’indice in internet, quindi messo a disposizione di un vasto pubblico… In poche parole leggendo questi diari mi sono accorto del dramma dei prigionieri [...] E lì ho pensato: «Ma come, … vàrda che roba!». Io proprio non pensavo neppure, perché nel piano originario del lavoro, pubblicato all'inizio del primo libro, il secondo volume era dedicato alla ritirata vera e propria militare dei soldati italiani, alla resistenza che c’è stata al Tagliamento, ai vari episodi di resistenza… ai profughi, ma dei prigionieri non pensavo di parlare. Invece questa massa di prigionieri, enorme, in fuga verso il cuore dell’Europa centrale, attraverso queste aree mistilingue, erano una cosa che meritava… ed è emersa proprio dalla lettura di questi diari, come si dice, inediti, conservati lì. Ecco quindi, ho preparato un capitolo e nel frattempo speravo sempre di trovare finanziamenti, di trovare la possibilità… ho scritto a vari enti Provincia, Regioni, Comuni… chi ha voglia di guardare il sito internet può vedere tutta la corrispondenza che ho tenuto in questo periodo, nessuno mi ha mai risposto, e a un certo punto l’anno scorso, nel 2001, ho detto: «O chiudo completamente questa ricerca, iniziata con tanto entusiasmo a suo tempo, o mi rassegno a pubblicarla così, in tono ridotto, sui prigionieri». E così ho fatto.
Ho fatto questo libro sui prigionieri, e ho avuto la fortuna di trovare il signor Alberto Burato, che mi ha scritto un capitolo molto interessante dedicato proprio all'elenco dei campi di prigionia (di quelli che si conoscono). Lui ha studiato in particolare questo argomento e aveva anche delle fotografie in seguito alla ricerca che aveva fatto sui caduti del suo paese, Guarda Veneta; si era messo in contatto con le varie ambasciate, con i vari organi ministeriali, il ministero della difesa, OnorCaduti, e così è venuto fuori questo libro che tutto sommato è accettabile. Però non è il libro che io volevo fare, sinceramente, e quindi… mi trovo un po’ in imbarazzo anche a rispondere alle domande. Tutto qui.
Se voi avete altre domande da dirmi, da farmi, io rispondo. Spero comunque di poter continuare nella ricerca, perché soddisfazioni dal punto di vista così… critico, ne ho avute; la dottoressa Rossi è l’ultima persona che me le ha fatte, prima c’era stato il suo collega Salimbeni di Trieste, nella presentazione precedente. Anche il professor Lanaro di Padova aveva parlato bene di me. Però, c'è questo problema …
Ed è per questo che, prima di chiudere, volevo ringraziare gli organizzatori del Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra che mi hanno dato l’opportunità di far conoscere anche a questo pubblico il mio lavoro.
Voglio ringraziare in particolare il presidente attuale Luigino Scroccaro, cui — come ricordava lui stesso — mi accomuna anche il percorso di ricerca, della storia dei paesi. Mi ricordo ancora quel convegno nell'85 o nell'86 ... “Storia di Paesi e Paesi nella Storia”. Ci siamo trovati tante volte in archivio di stato a Treviso, entrambi abbiamo scritto sul nostro paese di origine, lui su Marcon, io su Sant'Angelo e Canizzano, poi sul Sile e poi entrambi — inevitabilmente — siamo venuti a confrontarci con questo drammatico evento che è stato al Grande Guerra, che ha sconvolto le nostre zone. Lui, come ben sapete, ha studiato gli alpini di Treviso, ha studiato poi anche un cappellano militare, adesso ha in corso una ricerca — e non voglio anticipare niente — su un diario inedito … e quindi ecco che inevitabilmente dovevamo anche incontrarci. E lo ringrazio proprio per avermi chiamato, perché è la prima presentazione, diciamo, di una istituzione, che viene fatta del mio lavoro. Finora ci sono state queste due presentazioni in una libreria, alla libreria Borsatti di Trieste e alla libreria Feltrinelli di Padova, e questa è la prima presentazione di un ente, non so come si possa chiamare, questo istituto che si occupa della Prima guerra mondiale.
Volevo ringraziare anche — l’ho visto prima — il signor Bucciol, che mi aveva tradotto per il primo volume un pezzo importante di un giornale austriaco (io purtroppo le lingue non le conosco, conosco bene il veneto, poi traduco in italiano simultaneamente, ma più in là non vado). E, ovviamente, ringrazio l’anima di questo Centro, che è Antonio Beltrame di questo. Conosco anche lui dal 1989, era già in attività quando nell’89 ho avuto un premio per una sezione del premio Gambrinus dedicata alla storia locale, qui, sempre per i miei libri sul Sile. 
Ringrazio voi tutti, se avete qualcosa da dirmi, da chiedermi, più in particolare, me lo chiedete. Tutto qui.

Luigino Scroccaro


Non so se qualcuno desidera  porre delle domande, comunque Camillo è venuto spesso agli incontri, quindi è di casa al nostro Centro, spesse volte l’ho visto ai vari incontri che sono stati organizzati.
Ecco, volevo ringraziare anche la presenza dell’assessore, che mi sono dimenticato. Assessore, lei è il padrone di casa, quindi… che ci ospita, che ci dà il sostentamento.

(Intervento non comprensibile, per mancanza di microfono per il pubblico)
Altro intervento di uno spettatore: pressoché incomprensibile, per lo stesso motivo.
Idem per l’intervento del sindaco di Ponte di Piave… cui risponde Marina Rossi.

Se mi permette, lo studio approfondito della Procacci, che si fonda su documenti riservati del Comando supremo, indicherebbero comunque un particolare rigidità, un accanimento del generale Cadorna, e una particolare , proprio, ossessione rispetto alla paura così della non accettazione della guerra, contro i disertori, al punto che purtroppo è un dato unico, solo l’Italia ha rifiutato, non ha permesso che fossero inviati i pacchi della Croce Rossa ai prigionieri, c’è stato un sabotaggio dei treni con i viveri… Negli altri… perfino nella lontanissima Russia, magari a cavallo, il prigioniero si vedeva recapitare i soldi di casa. Magari non so dopo quanti mesi, però arrivava. Qui proprio c’è stata la volontà. La Procacci denuncia questo stato di cose, che non ha fatto piacere, per quanto sia una studiosa stimatissima, al momento neppure lo storico Rochat era molto felice, perché appariva nuovo, ecco, questo rigore. Poi, sono d’accordo, che nel quadro comparativo, insomma, tra l’uno esercito e l’altro c’è stata poca differenza, così come le diserzioni, l’insofferenza rispetto alla guerra sia stata generalizzata. Ma Caporetto cade in un momento difficile per l’Italia. Non dimentichiamo che in Italia esisteva comunque un partito socialista molto forte prima della guerra. Una componente era interventista, favorevole. Pensiamo a Emilio Lussu, che poi per primo nel suo diario, nella sua autobiografia Un anno sull'altipiano ha denunciato varie cose. Però, insomma, un’opinione pubblica, uno spirito pubblico contro la guerra  in Italia era molto forte. In agosto sono scoppiati scioperi politici contro la guerra. Una studiosa purtroppo prematuramente scomparsa, Simonetta Ortaggi, che si è occupata ripetutamente di queste cose, già al convegno di Rovereto ne discusse, fra l’altro aveva uno scambio molto proficuo con la stessa Procacci. Quindi c’è sicuramente anche una parte dei militari italiani che, insomma, ha disaffezione, non condivide più la causa della guerra. Poi errori de comandi, non ne parliamo, sicuramente ci potranno essere stati. Ma, per dire, l’effetto di… l’onda di Caporetto, l’onta di Caporetto viene sfruttata addirittura in Russia, dopo lo scoppio della rivoluzione d’Ottobre, nel novembre del ’17 presso i militari dell’esercito austro-ungarico di lingua e idealità italiana per convincerli ad entrare nel Corpo di spedizione italiano. Io, nel mio secondo volume Irredenti giuliani cito proprio l’appello di un ufficiale fiumano, Baccich. Poi ci sono state storie strane, Baccich, Zanella, gente che doveva in realtà entrare nell'esercito austro-ungarico ma è entrato nell’intelligence dell’esercito italiano per vie avventurose, e quindi su questa “vergogna di Caporetto” cerca di stimolare l’arruolamento tra prigionieri e, secondo le testimonianze di un altro soldato istriano di Capodistria, seicento prigionieri, allora, a Volgograd, proprio quando si discuteva a Caporetto il famoso convegno. Lei cita Isnenghi e alcune frasi che ha pronunciato come di revisione rispetto alle sue interpretazioni su Caporetto, io invece mi trovavo proprio a Volgograd a un altro convegno sulle prigionie perciò non son venuta a Kobarid, ma quella disgraziata città, perché ha segnato tante sventure e speranze negate di rimpatrio per gli austro-ungarici di lingua italiana, … e, insomma, è famosa in questo diario per questo appello che sfrutta Caporetto per incentivare lo spirito, così, di lotta al fianco dell’Italia.
Poi il Diciassette non ne parliamo, quest’area qui è interessantissima. Io mi compiaccio per la passione che c’è nella gente, in voi, negli altri dibattiti cui ho partecipato, e anche l’amore stesso di Pavan, Bucciol e altri amici che conosco… sento anche Luigino Scroccaro che ha questa passione di ricerca, ma … sono posti in un’area densissima di reazioni e di avvenimenti. È una guerra infinita che presenta sempre aspetti inediti. Se pensiamo che il Piave, quanto c’è ancora da dire sul Piave. Chi ha studiato la tragica sorte dei legionari céchi, chi ha studiato le rivolte militari all’interno dell’esercito austro-ungarico, degli sloveni, per ragioni nazionali ma anche per ragioni sociali. C’è un universo estremamente articolato e complesso però proprio per questo prezioso, per le sorprese che continuamente ci riserva.

Pavan

Volevo cogliere al volo la parola del signor sindaco di Ponte di Piave, visto che il prossimo anno mi occuperò, se Dio vuole, in un terzo volume dei profughi — proprio — … eh mi farò vivo, così chissà che mi dia una collaborazione, magari un acquisto di copie, non so, per le scuole, per le biblioteche… qualcosa si può fare, insomma…

Sindaco di Ponte di Piave

Questo è certo, ma io pensavo a un interesse più vasto, siccome ci troveremo lunedì con gli altri sindaci perché abbiamo altri problemi, ma questo è uno dei punti cardine del nostro interesse per il Piave. Quindi più volte abbiamo ripetuto sull’opportunità, anzi sulla necessità direi di far [ … ] perché questi impegni non vadano disseminati, trovino un punto di riferimento. Adesso non per campanilismo. Anzi, si tratta di collaborare, di trovare un’opportunità per un’informazione, per una documentazione che sia fruibile da tutti ma che abbia un punto di riferimento , per questioni logistiche, per questioni anche proprio di economia. E questo mi entusiasma, credo che… io mi auguro che ne possiamo [ … ]

Marina Rossi


Vorrei aggiungere ancora una breve cosa e così per il nostro autore. Oltre alle ragioni scientifiche e di ricerca, questo volume mi ha appassionata sia per la vicinanza geografica dei luoghi ma anche perché mio nonno è stato giovanetto del Piave, anche decorato, e quindi quando ero piccola — purtroppo allora nessuno si immaginava che sarebbe stato meglio prendere un’intervista col registratore, allora non si usava — mi ha raccontato quante volte, delle battaglie, della costruzione di ponti, di genieri…  e poi essendo romagnolo si è trasferito a Trieste con un amico che costruiva proprio ponti di barche sul Piave. Quindi lui, mia nonna, insomma… la Grande Guerra, ecco per me è nata sul Piave, si può dire, proprio per questa prima memoria che ne ho ricevuto e sono doppiamente felice  e riconoscente per voi che mi date questa occasione di alimentare questa storia…

Pavan


Per rispondere un attimo solo [ … al precedente intervento di una persona del pubblico]. Io non sono molto preparato oltre i quattro giorni della battaglia di Caporetto. Però non è del tutto vero che si sono arresi senza combattere così… C’è stata anche una… cioè, bisogna anzitutto ricordare che c’è stata una preparazione austro-tedesca della battaglia che ha colto assolutamente alla sprovvista i nostri comandi militari [ … ] Che altro potevano fare [i soldati italiani]?. Io ho riportato un diario di un combattente che proprio lo vedevi convinto di resistere col fucile in pugno a Codroipo. Si trovò circondato da una marea, ormai… e cosa poteva fare, se non arrendersi? [ … ]
Comunque io ho notato anche una certa somiglianza su questa tesi, a proposito di tradimento … di Lichem, il barone Lichem che ha scritto sulla guerra, quando si chiede perché gli austro-ungarici arrivati qui sul Piave si siano fermati, dice che è stato un tradimento. «Io lo so perché ho parlato con il generale tal dei tali, dice, un testimone — Siamo stati traditi! … ». In realtà quando c’è una sconfitta si tende sempre a dar la causa a qualcos’altro… Io non credo assolutamente a questa ipotesi…     [ … ]

Seguono tre altri interventi dal pubblico, poco comprensibili in audio, per mancanza di microfono.

Scroccaro


Se non ci sono altri interventi… Io ringrazio prima di tutto i nostri ospiti, ringrazio chi è intervenuto, chi ha partecipato e credo che la proposta del sindaco di Ponte di Piave… — io sono di un’altra provincia e quindi non conosco i sindaci trevigiani — credo che sia interessante che le forze vadano unite, che non ci sia una fabbrica ad ogni campanile, che non ci sia un museo ad ogni campanile, perché s disperdono le forze e i risultati dopo sono più o meno simili ma non sono come quando si fa la forza…
Assessore [del comune di San Polo di Piave] a lei la parola.
«Sì, intervengo per fare il saluto finale … quanto lanciato dal sindaco di Ponte di Piave, diciamo ci permetterà di mettere un po’ di carne al fuoco su quello che è l’intervento del nostro comune e della biblioteca su questa attività. Abbiamo cercato, abbiamo mandato messaggi … per non aver questa dispersione, anche con collegamenti con la Provincia. Ci sono state delle risposte positive e stiamo cercando di dare, di far emergere dei lavori, delle situazioni… e quanto da lei esposto speriamo possa servire anche per collegare qualche paese qua attorno… ».