mercoledì 22 ottobre 2014

A Sant'Angelo sul Sile nel Seicento

Vivere e morire in un villaggio sul Sile
(Ricerca sui registri parrocchiali dal 1574 alla metà del sec. XVII)

di Camillo Pavan

Fu solo nel 1503 che S. Angelo venne ufficialmente riconosciuta come parrocchia 1. Prima era una delle cappelle della Pieve di S. Giovanni Battista del Dom di Treviso, con cui comunque continuò anche in seguito, per lo meno formalmente, ad avere rapporti di dipendenza 2.
Anche a S. Angelo, come nella stragrande maggioranza delle parrocchie, i primi registri dei nati, morti e matrimoni, (preziose e insostituibili fonti per la ricostruzione storica di qualsiasi comunità rurale) risalgono agli ultimi decenni del XVI secolo. Fu  che i parroci, anche se non sempre sollecitamente  iniziarono a tenere nel dovuto ordine gli archivi 3.
Per quanto riguarda la nostra parrocchia, il più antico dei registri porta la data del 1574 ed è quello dei battezzati 4. Purtroppo ad esso non si affiancarono subito né quello dei morti (inizierà nel 1601) né quello dei matrimoni (1646) mentre i primi "stati d'anime" risalgono al 1626 e al 1642.
Malgrado ciò, pur col materiale incompleto pervenutoci, sono possibili numerose considerazioni sul movimento naturale della popolazione ed in genere sulle condizioni di vita del nostro villaggio in quella che fu una delle epoche più drammatiche della sua storia, fra avversità impensabili ai nostri giorni, quali i lupi affamati scesi dai monti nel 1591, la tragica carestia del 1629, la peste "manzoniana" del 1630.

La famiglia

Negli anni 1626 e 1642 il parroco Marco Sabbadini compilò lo "stato d'anime" della parrocchia 5, ovvero l'elenco casa per casa di tutte le famiglie con la loro consistenza numerica.
Il primo di questi documenti ci fornisce l'elenco dei proprietari delle case, e dei terreni. Il secondo l'elenco dei capifamiglia che in quelle case vivevano, dei contadini che quei terreni lavoravano.
Entrambi inoltre distinguono le "anime da comunion" da quelle "senza" e danno il numero totale degli abitanti del villaggio 6.


 La nascita

Ogni nascita veniva riportata in un libro che era in realtà il registro dei battezzati (liber baptizatorum), registro che si può comunque considerare dei nati, non esistendo certo in parrocchia — all'epoca — non credenti o appartenenti ad altre religioni.
Il problema, da un punto di vista di indagine statistica, è dato semmai dai nati nel territorio di altre parrocchie che si facevano battezzare nella chiesa di S. Angelo, territorialmente più vicina alla loro abitazione. Il fatto interessa principalmente gli abitanti di Mure (sotto Canizzano). Ma anche molti abitanti di là del Sile, sotto la giurisdizione di Corona (l'attuale San Giuseppe) trovavano più semplice attraversare il fiume e far battezzare i loro piccoli a S. Angelo. In queste occasioni, comunque, il curato specificava quasi sempre di somministrare il battesimo con il permesso del parroco interessato ("de licentia parochi").
Casi inversi di nati a S. Angelo ma registrati nelle parrocchie confinanti ho motivo di supporre che non ce ne siano, proprio per la posizione particolarmente centrale della chiesa rispetto a quasi tutto il territorio della parrocchia. Le uniche persone che avrebbero avuto un reale interesse, per via della distanza, a farsi battezzare a San Trovaso, sarebbero stati gli abitanti delle case dei signori Benzoni, all'estremità sud del paese. Ma nel libro dei battezzati compaiono con regolarità i nati in quella zona.

Le registrazioni

Le registrazioni dei battesimi venivano scritte in successione cronologica, seguendo generalmente lo stesso schema. Innanzi tutto la data, poi i nomi del neonato, dei genitori (all'inizio solo del padre), del compare e, molto raramente, quello della comare.
Ecco il testo della prima registrazione.
«1574. 7. Zener
fu battiza Franceschina fiola del ms. Dona da Va(ra-
go) stanti in s.to Agnolo. Compare ms. Menego Go-
sto di ditta villa 12».

Come si vede, una registrazione "essenziale". Anche perché il parroco dell'epoca non riteneva opportuno indicare il nome della madre.
Più tardi invece, durante il lungo rettorato di "pre" Sabbadini  (1599 - 1643) la registrazione avveniva con una formula più completa:

«A di 17 di agosto 1603
Margarita figlia di Mattio Pastrello et di donna Vicen-
za sua moglie nata di legitimo matrimonio fu batezata
da me pre Marco Sabbadini compare fu Domenico
Mazarolo della Girada »



La morte

Il primo registro dei morti risale al 1601 e, a differenza di quello dei nati, a partire dal 1603, non presenta lacune temporali 29.
Tuttavia, ed è una cosa strana per un prete di solito assai preciso quale Sabbadini, durante il suo rettorato non sono segnati i decessi fino all'anno di età. È così impossibile avere il numero totale dei morti (o meglio dei sepolti), ed è altresì impossibile ricostruire il movimento naturale complessivo dei primi quattro decenni del secolo XVII.
Malgrado ciò questo modesto e all'apparenza insignificante quaderno, dalla copertina grigio sporco slabbrata ai bordi, con le pagine in più punti impregnate dall'umidità e compilate fitte fitte con l'orribile calligrafia del curato, permette ancora una volta di raccogliere preziosi elementi per comprendere come si viveva a Sant'Angelo sul Sile, trecentocinquanta anni fa.


 
L'eloquente copertina del secondo  
Libro dei morti(1646-1668)
della parrocchia di Sant'Angelo sul Sile.



Le registrazioni

Iniziamo anche in questo caso con la prima in ordine di tempo.

«A di P.o di zugno 1601
abiit petrus de Barolis in villa de Mure et seppelitus
fuit in hoc cemeteriu»

Registrazione ancora una volta essenziale, senza fronzoli — a parte lo sfoggio del latino — e senza purtroppo alcuna indicazione sulle cause del decesso.
Una cosa non manca mai in questa come nelle successive registrazioni: l'indicazione distinta del luogo di morte e di quello di sepoltura.
Abituati a muoversi in vita, alla ricerca di un padrone e di un pezzo di terra da lavorare, per i contadini la peregrinazione continuava anche dopo morti.

«Adi 20 di Marzo 1601
Mori Santo filio di Mattio cornaini et fu seppellitto a
Zero dove è la sua sepoltura»

E lo stesso succedeva a chi si considerava originario di S. Angelo e, sorpreso dalla morte fuori del paese, veniva dai parenti ricondotto al luogo di provenienza.

«Adi 29 di agosto 1610
Madalena moglie di Santo Brugnaro abita a S. Anto-
nino morse, e fu seppelita qui a S.to Agnolo dove è le
sue sepolture»

La percentuale delle sepolture a S. Angelo dei morti fuori parrocchia era alquanto elevata: il 19,15% (95 morti sui 496 segnati).

Le cause di morte

Abbiamo visto che rare sono le volte in cui è segnata la causa del decesso.
Si tratta per lo più di incidenti sul lavoro:

«A di 11 zugno 1628
Mattio Jopato di Anni 63 in circha cascò giù da un
Moraro e quasi subito passò di questa vita presente. Il
Suo chadauero fu sepolto in questo sacrato di S.to
Agnolo nella sua sepultura»

Oppure di episodi singolari:

«Adi 28 di agosto 1611
fu seppelito Marco figlio del q.am Gasparo Mellon-
cello di anni vinti duo di circha Morto nel campanil di
Canizano per mezo della saetta et seppillito qui a S.to
Angelo »


Da Drio el Sil: storia vita e lavoro in riva al Sile a S. Angelo e Canizzano, Camillo Pavan, 1986 

martedì 21 ottobre 2014

Livio Vanzetto, 1986 - Recensione e analisi critica di "Drio el Sil" di Camillo Pavan

Note a margine
Intellettuali di paese Drio el Sil e nei dintorni
di Livio Vanzetto

Quando, qualche mese fa, ci incontrammo per la prima volta, compresi subito che, da un punto di vista culturale, Camillo Pavan apparteneva, come me, ad un gruppo sociale e generazionale i cui membri, pur dispersi nel territorio e poco numerosi, presentano alcune caratteristiche assai ben delineate: 35-40 anni, origini rurali, (...)

Ivo Prandin, Il Gazzettino - Terza pagina, 14 aprile 1986 - Considerazioni sul Premio Nazionale dei Giovani "Costantino Pavan", prima edizione


Ivo Prandin, considerazioni sul premio Costantino Pavan, prima edizione 1986
Il profondo significato del premio “Costantino Pavan” sulle culture locali
Nel nome di un ragazzo
Il Gazzettino, Terza pagina, Lunedì 14 aprile 1986

«Barba, barba seveo storie?». Questa semplice domanda che affiora dalla narrativa orale della nostra tradizione, può diventare il punto di partenza — simbolico, magari — di ogni ricerca delle cosiddette “radici” che poi sono il legame, il collegamento fra noi e i nostri avi, fra il presente instabile e il grande serbatoio del passato.
La domanda è stata tenuta presente dal Premio nazionale dei giovani Costantino Pavan, assegnato sabato a San Donà di Piave, una manifestazione nuova e di singolare natura: è un modo di interrogare il passato, di intervistare la storia “piccola”, perché scruta nelle culture locali che sono l’humus dove quelle famose “radici” bene o male sono immerse.
I giovani, in questo premio, sono coinvolti doppiamente: come possibili autori e come giudici: trenta studenti di San Donà di Piave hanno già cominciato a fare le proprie scelte. Su tre opere selezionate (ne erano pervenute settantadue da tutt’Italia, dalla Calabria alla Slavia veneta, dal Piemonte all’Emilia Romagna) hanno preferitoDio el Sil, un libro inedito che racconta i giorni e le stagioni lontane e vicini a Sant’Angelo e Canizzano (Treviso) incluso il lavoro nei vecchi mulini di Mure.
L’autore, Camillo Pavan, un ex insegnante ora tutto impegnato nella vita a contatto di terra e di acqua, è legatissimo all’ambiente dov’è nato e dove sembra ora inseguire le tracce di umanità dei suoi genitori e della loro generazione, fantasmi culturali viene da dire (e vale per tanti di noi, forse per tutti). 
Gli studenti di San Donà, che vivono il fiume, e ne erediteranno il valore, — che per loro sarà impegno anche civile — hanno probabilmente sentito nelle storie di vita dell’ex insegnante fattosi cronista di sentimenti e di speranze una affinità, un collegamento; il fiume lega e scioglie, nutre e rallegra, è una realtà con cui devi misurarti… In ogni caso, hanno premiato — cioè scelto anzitutto per sé — un modo di vivere, di resistere, di essere uomini.
Anzi, per dirla con Ulderico Bernardi, che ha presieduto la commissione “tecnica” del premio, hanno scoperto nelle pagine di Drio el Sil quella perenne «straordinaria capacità di resistere e di inventare ogni giorno la vita» sulle rive del fiume.
Gli altri finalisti erano Piercarlo Jorio con il libro Il magico, il divino, il favoloso nella religiosità alpina (edito da Priuli & Verluca), che può considerarsi come un viaggio verso i confini della realtà quotidiana verso la “sfera metafisica” ed è punteggiato di notizie e situazioni curiose; e poi l’opera collettiva Bolzano Vicentinoa cura di Claudio Povolo: notevole il fatto che sia stato il Comune vicentino a farsene editore facendone pervenire sessanta copie ai concittadini emigrati.
C’era anche una studentessa fra i partecipanti, Morena Pegorer che ha intitolato il suo lavoro La parola e l’animo (inedito): è stata segnalata insieme al libro Sloveni ed emigrazione di Ferruccio Clavora e Riccardo Ruttar, un documento sulle valli del Natisone.
Questo premio, a cui c’è da augurare lunga vita, è un caso a sé stante nell’affollato panorama culturale italiano: esso è nato in una famiglia da cui un figlio, quel Costantino a cui è intitolato, è stato rubato da un morbo invincibile.
Lo hanno voluto, questo premio, Gianni e Mariarosa Pavan, lo hanno impastato del loro dolore ma anche della loro speranza. Ed è un dono a tutti i giovani e a tutti noi.

Ivo Prandin

Antonia Enzo - la Nuova Venezia - Cronaca prima edizione del premio "Costantino Pavan" sulle culture locali - San Donà di Piave, 1986

“Drio el Sil” vince il premio Pavan 
riservato a opere sulle culture locali
la Nuova Venezia, Domenica 13 aprile 1986

San Donà di Piave — Alla presenza di numerose autorità, uomini di cultura e di un folto gruppo di giovani, una giuria formata da 30 studenti delle scuole medie superiori di San Donà ha assegnato ieri al teatro Astra il primo premio nazionale dei giovani “Costantino Pavan”, riservato a opere e iniziative sulle culture locali. Tra le opere finaliste votate, selezionate dal comitato promotore fra le 72 arrivate alla segreteria del premio, è risultato vincitore “Drio el Sil”, storia, vita e lavoro in riva al fiume a Sant’Angelo di Canizzano, con 21 voti, cui è andato in premio 5 milioni di lire. «Esemplare ricerca sull’ambiente … al centro sta il fiume Sile con le sue anse tranquille e sinuose, con il suo mondo di personaggi legati alla stagione dell’acqua, delle canne palustri e delle erbe sommerse». Al secondo e terzo posto ex-equo “Bolzano Vicentino. Dimensione sociale e vita economica in un villaggio della pianura vicentina (secolo XIV-XIX” di Claudio Povolo e “Il magico, il divino, il favoloso nella religiosità alpina” di Piercarlo Jorio, cui sono andati due dipinti degli artisti sandonatesi Roberto joos e Adriano Pavan. Le due segnalazioni speciali del comitato promotore sono state assegnate a Morena Pegorer per “La parola e l’animo. Analisi della tradizione orale nella civiltà contadina del Basso Piave” e Ferruccio Clavora per “Sloveni ed emigrazione. Il caso delle valli del Natisone».

A.E. [Antonia Enzo]

Gianfranco Bedin, Il Gazzettino - Cronaca della prima edizione del premio "Costantino Pavan" sulle culture locali, San Donà di Piave, 1986

Trionfa un trevigiano autore
di una storia di vita e lavoro
“Drio el Sil” è primo al Costantino Pavan
Il Gazzettino, Ediz. di Venezia, Domenica 13 aprile 1986

“Drio el Sil, storia, vita e lavoro in riva al fiume a Sant’Angelo e Canizzano”, opera inedita del trevigiano Camillo Pavan ha vinto la prima edizione del premio nazionale dei giovani “Costantino Pavan”, istituito da Gianni e Maria Rosa Pavan, nel ricordo della repentina scomparsa del figlio diciassettenne, il cui epilogo ha avuto luogo ieri mattina al teatro Astra di San Donà.
Dopo la scelta delle tre opere di saggistica, sulle 72 pervenute da tutta Italia, da parte del comitato promotore presieduto dal prof. Ulderico Bernardi, il verdetto è stato emesso dalla giuria, composta da trenta studenti delle scuole medie superiori di San Donà.
Per l’opera di Camillo Pavan si è trattato di un autentico plebiscito: 21 voti. Seconde, ex-aequo, sono state classificate le opere di Claudio Povolo, “Bolzano Vicentino, dimensioni del sociale e vita economica in un villaggio della pianura vicentina” (5 voti) e di Piercarlo Jorio “Il magico, il divino, il favoloso nella religiosità alpina” (4 voti). 
Al vincitore è stato consegnato un premio in denaro di cinque milioni, alle altre due classificate opere dei pittori Roberto Joos e Adriano Pavan. Alla manifestazione conclusiva del premio, che vuole incentivare in campo nazionale le opere e le iniziative sulle culture locali, erano presenti, tra gli altri, il sindaco Cei, il presidente della Provincia, Minchio, con l’assessore alla cultura, Gressani-Sanna, gli onorevoli Falcier e Strumendo, il sen. Giugni, il presidente della Biblioteca civica ing. Portale, numerose personalità del mondo politico, economico, culturale regionale, autorità civili e militari, studenti e i genitori di Costantino Pavan, che hanno istituito questa originale iniziativa dedicata ai giovani, affinché scoprano le loro radici.  
«Questa vena di memorie — ha detto il prof. Bernardi — è ancora viva tra anziani e giovani per la continuità della vita». Emozionatissimo, Camillo Pavan ha detto che «se ci si guarda intorno, c’è una ricchezza che è stata dimenticata e non è giusto che vada dispersa».
Per il particolare valore delle opere, il comitato promotore ha segnalato i lavori di Morena Pegorer, del liceo classico di San Donà, di Ferruccio Clavora e di Riccardo Ruttar.
Nella sua opera, Camillo Pavan racconta come si viveva realmente “Drio el Sil”, chi erano e cosa facevano le famiglie, le persone, quali erano i mestieri, dal 1600 fino a trent’anni fa, quando l’economia della zona era ancora agricola e la vita patriarcale: un’indagine scrupolosa nei due borghi trevigiani. Un piccolo mondo antico, dove l’autore ha cercato di trovare le sue radici.

Gianfranco Bedin

Giuseppe Toffolo - rilettura di Drio el Sil, opera vincitrice del 1° Premio sulle culture locali - San Donà di Piave, 1986

Leggiamo oggi i libri che ieri hanno vinto
1986 - Premio Nazionale
dei Giovani
"Costantino Pavan" 
Drio el Silstoria, vita e lavoro in riva al fiume a S, Angelo e Canizzano,di Camillo Pavan
Esemplare ricerca sull’ambiente, tutta condotta in funzione del vivere umano, dell’esistenza, senza intenzione accademica.
Al centro di essa sta il fiume Sile, con le sue anse tranquille e sinuose, con il suo mondo di personaggi legati alle stagioni dell’acqua, delle canne palustri e delle erbe sommerse.
 Le vicende e i sentimenti degli umili abitanti di S.Angelo e Canizzano diventano emblematici e assurgono al valore dei temi universali della vita e della morte, del tempo che scorre inesorabile come le ruote dei vecchi mulini di Mure.
La
motivazione
della
Giuria
Giuseppe Toffolo ha letto il libro per   "Sandonàdomani - on line"
Drio el Sil s’è meritato sicuramente il premio. Per una fortunata coincidenza, la prima edizione  ha potuto segnalare e distinguere un’opera che risponde in modo compiuto ai requisiti posti dal regolamento. La stessa cosa, probabilmente, non s’è verificata nelle edizioni successive.   L’opera si rivolge ai giovani, evocando per loro un universo ormai scomparso, e salvandone la memoria. Un universo nel quale anch'essi affondano le radici spirituali, le radici di sangue e di costume, ma che, dati i profondi cambiamenti avvenuti in pochi decenni nel nostro modo di vivere, è perfettamente sconosciuto ai più.
Il fiume Sile
Il fiume  Sile  nasce  da  polle risorgive, poco più in là di Quinto. Si pensa sia l’acqua del Piave - ma la cosa non è provata - che torna alla luce del sole dopo essere sprofondata nella roccia carsica, molto più a monte.
Non essendo il Sile un fiume alpino, il suo regime idrico non presenta turbolenze di sorta. La sua portata rimane praticamente costante. Non conosce né esondazioni né siccità. Il suo letto, non raspato dai detriti rocciosi – detriti che, invece, i fiumi alpini trascinano a valle in grande quantità - permette la crescita d’una rigogliosa vegetazione subacquea.
Le lunghe alghe d’un colore verde cupo ondeggiano sotto il pelo dell’acqua e gli conferiscono un fascino arcano. Sulle sue sponde, tanti anni fa, s’allargavano numerose paludi, per nulla malsane, che l’uomo aveva  saputo regolare e gestire a proprio vantaggio.
Il Sile scorre da Ovest verso Est fino a Treviso, dove s’accompagna col Botteniga-Cagnan, quindi volge decisamente a Sud, passa per Silea e giunge, dopo numerose anse, ad Jesolo. Qui occupa l’antico alveo del Piave e sfocia nell'Adriatico. 
Il fiume imprime il suo carattere sugli abitanti che vivono lungo le sue sponde. In altri tempi, sarebbe stato adorato come un dio benigno.
Struttura del libro
Prima parte: Libera nos a peste, fame et bello ...
Il libro si divide in tre parti. Nella prima, l’Autore ripercorre la storia dei luoghi e dei loro abitanti, ricostruendo la struttura sociale ed economica della comunità. Egli si serve soprattutto dei vecchi documenti parrocchiali di S.Angelo e di Canizzano, degli atti preparatori del Catasto austriaco e del Comune di Treviso. La sintesi dei dati è fatta dall'Autore con diligenza scientifica, ma senza annoiare. 
Le famiglie risultano composte, su una popolazione di circa trecentocinquanta abitanti, mediamente, da otto persone. Relativamente poche, se si hanno a mente le famiglie contadine che molti di noi hanno fatto in tempo a conoscere. Era tuttavia una media molto elevata, per quel tempo,  a  confronto   delle   medie   note,  grazie  a  studi omologhi, relativi ad altre realtà venete.
Il Sile costituiva una notevole risorsa economica ed alimentare, soprattutto grazie alla pesca. 
Il fatto può forse spiegare la media elevata di persone nella famiglia tipo. Questa poteva contare, per il proprio sostentamento, non solo sul lavoro della terra, ma anche su quell’ulteriore risorsa – e sul palù. Pare anzi che, per più d’un nucleo familiare, la pesca fosse l’attività principale, se non l’esclusiva.

In  questa  prima  parte  del  libro,  Camillo  Pavan  ci  dà  inoltre un quadro della natalità, della mortalità e della composizione sociale della comunità. Descrive inoltre una pia istituzione, la “Scola”, e le devastazioni portate dalla terribile peste del 1630.
Seconda parte
Il villaggio dei Molini
Nella seconda parte, Camillo Pavan riporta in vita la vecchia Canizzano, il “villaggio dei molini” – molini ad acqua, che dopo aver conosciuto momenti di grande attività, oggi sono ridotti ad un solo ed unico molino in produzione.
Egli evoca anche alcune figure di mugnai, come Carlo Torresan e Guido e Ruggero Granello – questi due non erano parenti, nonostante l’omonimia - i migliori nella loro arte, e ne racconta la vita.
Sono storie umili, ma intimamente intrecciate con la “grande” storia – il regime fascista, la guerra, la prigionia, la ricostruzione - e con quella del costume.
L’Autore propone il ricupero di una delle vecchie strutture per insediarvi un museo del molino e dà, in prospettiva, il proprio contributo scientifico, redigendo una specie di enciclopedia in cui descrive gli impianti, i materiali, le parti componenti delle grandi macine e gli strumenti, le tecniche  ed il lessico dell’arte molitoria.
Pre (biter) Marco Sabbadini
Camillo Pavan ha il dono di saper vivacizzare il racconto, facendo risaltare, contestualmente all'analisi dei dati, particolari aspetti umani, che riguardano sia l’antica collettività, sia i singoli individui.
Risalta, indirettamente, la figura del pre(biter, cioè prete) Marco Sabbadini, parroco di S.Angelo tra il 1599 ed il 1643, che fino al 1642, in base alle direttive emanate dal Concilio Tridentino, annota le date di nascita e di battesimo dei suoi parrocchiani - in un secondo tempo comincerà a registrare anche i matrimoni ed i decessi. 
Le sue annotazioni rispecchiano il nuovo atteggiamento  rigorista della Chiesa in materia di costumi sessuali e di matrimonio. Fino all’ultimo scorcio del secolo XVI, la nascita di illegittimi non destava particolare scandalo. Poi furono considerati figli del peccato, soprattutto del peccato delle donne. 
Annota pre Marco: “A di 7 agosto 1616. Domenicha figlia di Donna Menega da S.Salvadore veniva in questa villa per partorire questa figlia di padre incerto. Fu battezzata da me pre Marco Sabbadini… Nacque a di ditto…” 
A differenza di quanto accadeva in precedenza, il padre restava innominato - “incerto” - perché si doveva far risaltare il peccato della sciagurata madre. Ed i signori maschietti certamente ne approfittavano.
A morte
Quanto ai decessi, in quel tempo la morte improvvisa e subitanea era molto temuta, e considerata una assai brutta fine, perché non dava il tempo di confessarsi
Il successore di Pre Marco sente il dovere, registrando uno di questi casi, di garantire per un parrocchiano: “1650 adì 20 zugno. Piero Baruolo morì all’improvviso ma si era confessato [da pochi giorni]…et erano pochi giorni passati et era huomo di buona vita.”
La morte dei “poareti” era miserevole, come miserevole era stata la loro vita. Annota pre Marco “A di 9 zenaro 1620. Bernardin poveretto, di anni 16 in circha da Morgan, morse sulla teza delli Garbini in questa villa et il suo cadauero fu sepelito in questo cimiterio di S.to Angelo presente il populo.”
Povero Bernardin, morto di stenti e di freddo nella “teza”, cioè nel fienile, solo come un cane
I nomi
Come si chiamavano quei nostri lontani antenati? Camillo Pavan è curioso anche di questo (chi scrive ha avuto un sussulto, leggendo in un elenco di mugnai il nome Gottardo Toffolo, un probabile antenato). 
Fra i maschi il nome più diffuso era Mathio (Matteo), seguito a ruota da Menego (Domenico). Abbastanza diffusi erano Zuane, Zanetto, Zamaria, Zambattista, Hieronimo, Santo, Bortolo, Battista, Anzolo, Biasio. 
Assai poco frequenti, invece – stranamente, se si pensa alla diffusione che avrebbero avuto qualche generazione dopo, e fino a poco tempo fa – erano Isepo (Giuseppe), Jacomo, Piero, Toni. 
Poco diffusi erano anche i nomi di Marco e Paolo (registrato, quest’ultimo, solo una volta, nella forma di Paulino). Il nome più esotico è invece, secondo noi, quello di Olivo, che ricorre una sola volta in trent'anni di annotazioni.
Fra le donne, il primato spettava a Menega, Cattarina (anche Catherina), Lucia, Anzola, Ruosa (Rosa). I nomi meno frequenti erano invece quelli di Cicilia, Gratia, Pierina, Valentina. I più originali, Armellina, Andriana, Vendramina.
Terza parte
Vita e lavoro lungo il Sile
 La terza parte del libro è dedicata alla vita ed al lavoro lungo il Sile.  Camillo Pavan parte dal “palù” - la palude - di cui descrive l’ambiente, le risorse, la vegetazione e la fauna.
Poi, per mezzo di interviste ai personaggi più rappresentativi di alcuni mestieri legati alla tradizione, ricostruisce, coi loro ricordi, la realtà viva di un mondo che va scomparendo.
Ed allora, con Gusto Beteti, detto el Sciopetin, scopriamo la grande importanza dell’attività venatoria nell’economia familiare di qualche generazione fa, ma anche i guasti prodotti oggi nell’ambiente dall’uso dei pesticidi in agricoltura e dagli scarichi industriali.
Con Gino Condota e Giulio Capeasso entriamo invece nell’universo della pesca nel Sile. Era l’universo della tipica barca spuntata a fondo piatto - le fabbricavamo in orto, su due cavalletti, ed usavamo più catrame che legno – nel quale la preda più ambita era la “bisata”, cioè l’anguilla.
Cicci Bonaventura ci guida quindi in quello beato dei divertimenti dei ragazzini del borgo, mentre Pina Pinarea – vale a dire sposata Pinarello - rievoca le fatiche della “issia”, cioè del bucato con la liscivia, come si faceva ai tempi andati.
Sandonàdomani (G.Toffolo, per)
Conosciamo Camillo Pavan solo di fama, e tutte le notizie che abbiamo di lui sono più che buone. È uno che ama scrivere, uno caparbio, uno che ama la sua terra e la sostanza delle cose, proprio come la gente di S.Angelo e Canizzano. Alla quale, con “Drio el Sil”, egli ha elevato un piccolo, duraturo monumento. Spesso si trova contro l’ottusità della burocrazia, ma tant’è.
Il professor Ulderico Bernardi  considera il suo libro come un elemento essenziale per delineare lo “scenario complessivo delle culture rurali” venete.
Ma è importante anche il paesaggio umano, che l’Autore torna a far palpitare di nuova vita, scotendo amorevolmente le scritture parrocchiali secentesche del buon pre Marco Sabbadini. Un paesaggio umano fatto di storie personali, emblematiche per le difficoltà e per le fatiche, che meritano di essere ricordate e tramandate nel ricordo delle nuove generazioni. Sono le storie di lavoro, di vita e di morte, dei nostri antenati. 
Come s’è detto, chi scrive, ha forse riconosciuto un proprio avo in uno degli elenchi riportati alla luce da Camillo Pavan. È stata una forte emozione, soprattutto per uno che non ha mai avuto la benché minima tentazione di far svolgere ricerche araldiche sulla propria famiglia, come invece pare sia molto di moda oggi, fra gli inquilini delle villette a schiera.
Prezioso è anche il contributo che Camillo Pavan dà in materia di tecniche, di procedure, di strumenti e di materiali propri delle attività gravitanti attorno al Sile, dalla molitura, alla pesca, alla caccia, allo sfruttamento del “palù”.
Non è assente la poesia, come quando egli evoca il piacere che Menego Caivo provava contemplando una nuova alba sul Sile.

Nell'opera sono anche dei nei. Tra le imprecisioni che dovrebbero essere emendate nelle prossime edizioni, proprio per non far torto a questo bel libro, c’è l’etimologia non propriamente esatta del dialettale “conpare” - colui che è “con il padre”. 
C’è inoltre da chiarire un passaggio oscuro, nel quale sembra che fra le cause di morte infantile sia anche il battesimo (?). 
Un’ultima osservazione, concernente le scelte riguardanti il dialetto. Le risposte in dialetto degli intervistati sono difficili da leggere, anche per chi il dialetto lo conosce. Il testo risulterebbe molto alleggerito, a nostro sommesso avviso,  se tali risposte fossero date direttamente in italiano, con le sole parole chiave in trevisano. 
Crediamo infine che non abbia giustificazione alcuna scrivere il dialetto “come si parla”. 
Per esempio, ci pare molto brutto scrivere “paeù” invece di “palù” – da palus, latino, palude – come corregge anche il professor Bernardi, con molto più tatto e signorilità di chi scrive. Quella lì non è una e, ma una elle che si pronuncia (quasi) e, e come elle va mantenuta, scrivendo. 
Non possiamo confondere le idee a coloro che studieranno queste cose in futuro, sviandoli con una scrittura trasandata – erroneamente considerata come fedeltà al “parlato”, come fiero attaccamento alla pronuncia autentica e popolare. Cosa, questa, che rimane tutta da dimostrare, ed è anzi assolutamente falsa, per un orecchio attento - dalla corretta etimologia.
Come l’inglese, come il francese, come l’italiano – proprio come l’italiano, ragazzi! – anche il dialetto, qualche volta si scrive in un modo e si pronuncia in un altro.  
Stesso discorso vale per il brutto “s’ciopetin” invece di “sciopetin”. In veneto il suono italiano sc di scena non esiste, quindi, quando si trova un digramma sc in uno scritto dialettale, lo si pronunci, senza timori e tremori, esse più ci di ciocco. Come “sciopo”, come “scioco”!
Camillo Pavan ci perdoni queste osservazioni, dietro le quali non è alcuna ostilità, ma il condiviso amore per il dialetto, che ha una sua dignità, anche letteraria, e quindi non solo non va scritto “come si parla” – che poi non è vero - ma nemmeno con sistemi e segni ostrogotici come quelli mutuati dall'alfabeto fonetico internazionale.
Ne renderebbero, in definitiva, più difficile l’approccio. Respingerebbero il lettore, recando un pessimo servizio all'idioma natio.
Per il resto, un gran bel libro, il suo, senza dubbio. Soprattutto piacevole da leggere. Che, quindi va letto subito, o giovani!



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NdC (21 ottobre 2014) - Non sono riuscito a recuperare le date dei testi di Toffolo e Pettoello, pubblicati nell'archivio di Sandonàdomani online. Sito web non più disponibile.

Il ricordo di Mario Pettoello - Prima edizione Premio nazionale sulle culture locali - S. Donà di Piave, 1986


1986, vince Camillo Pavan con "Drio el Sil"
1986 - Premio Nazionale
dei Giovani
"Costantino Pavan" 
Il libro, con le parole dell'autore (*)

L’autore, chi era? (*)   
di Mario Pettoello  

Inizialmente questo lavoro aveva un canovaccio del tutto diverso: pensavo infatti di utilizzare solo il materiale d'archivio riguardante i villaggi di S. Angelo e Canizzano, raccolto nel corso di due anni. Poi, cercando fra le carte del Comune di Canizzano (1815-1866) documenti riguardanti i mulini di Mure, mi sono imbattuto in una testimonianza di "storia orale" di oltre 120 anni fa.
1126 luglio 1863 gli ingegneri trevigiani Giuseppe Santalena e Luigi Monterumici, cui i "deputati" Valerio Michieletto e Luigi Postpischel avevano affidato “il difficile e delicato incarico” di ricostruire la storia della strada che “dai mulini di Mure mette alla Monchia”, considerarono come fonte inoppugnabile quanto “i testimoni Carniato Girolamo e Tronchin Vincenzo, vecchi del luogo” avevano dichiarato il 5 giugno 1857 alla Deputazione Comunale, circa il guado del Sile a Mure fino al 1803.
Mi sono deciso allora di andare anch'io a sentire gli abitanti "drio el Sil", lungo il Sile, "vecchi del luogo". Ne sono uscite testimonianze significative su come realmente si viveva in riva al fiume, fino a circa trent'anni fa, fino a quando cioè i nostri due villaggi erano prettamente agricoli. (In parte lo sono anche adesso: ma è tutta un'altra cosa).
In fin dei conti le macine dei mulini di Canizzano avevano girato per almeno mille anni, prima di arrendersi all'avanzata dei "cilindri" della molitura industriale. Ora, a Mure, “nel prato, come una enorme vertebra, affiora una macina abbandonata”.
* * *
Fino a un quarto di secolo fa "el paeù" (la palude) veniva regolarmente tagliata: era ottimo come "strame" in stalla,e per tante altre cose. Ora "el paeù" è progressivamente interrato e quello che sopravvive è lasciato in balia di sé stesso, ricettacolo di immondizie, zanzare e topi.
Nel Sile, da sempre, i ragazzi del "borgo" di S. Angelo e di tutte le case rivierasche, trascorrevano interminabili ore nuotando e giocando. Nel Sile Gènio Artuso si riforniva dell'acqua da bere per la famiglia. E chi andava a tagliare "el paeù" beveva direttamente dai fontanazzi. Se non le avessi sentite dalla viva voce degli interessati mi guarderei bene dal credere a tali affermazioni, abituato come sono a vedere il Sile - pattumiera dei nostri giorni.
E ancora, le attività di pesca e di caccia, nel fiume e in palude per secoli hanno rappresentato un valido supplemento alimentare per gli abitanti dei due villaggi.E le nostre donne, quanti panni hanno risciacquato in Sile?  
Se avesse vinto un altro autore, ora starei trascrivendo con facilità una biografia, magari dal risvolto interno della copertina. Invece ha vinto Camillo Pavan ed è proprio un guaio.
L'opera è inedita e quindi non ha nessun risvolto di copertina e Pavan grandi notizie non ne fornisce proprio.
Ivo Prandin, nell'intervista di rito in occasione della premiazione, sabato 12 aprile, gli ha strappato solo qualche faticosa ammissione (vedremo poi perché) e allora non mi resta che fare mente a un paio di incontri, a pranzo, e a qualche frase scambiata in dialetto.
Camillo Pavan ha 39 anni, sposato, laureato in pedagogia (ma dice che è una laurea che conta poco),  è stato insegnante ed ora, beneficiando di quanto consente la legge, è in pensione (ecco l'imbarazzo) seppure ci tiene a precisare che è andato in pensione utilizzando 10 anni di agricoltore.
La sua però è stata una scelta di vita: dedicarsi alla ricerca su temi, cose, persone, storie, vicende legate alla "cultura locale". Una scelta importante e difficile, ma non ha paura: “ … ho buone mani, e se servono le uso ancora come una volta”. La passione lo porta alla ricerca, a scrivere sui giornali, anche questo libro, scritto in poco tempo, impegnato come era a curare alcune mostre nei quartieri di Treviso: “ … però dietro c'erano due anni di lavoro”, precisa subito.
Quando è salito sul palco era molto commosso: “Non mi aspettavo di essere selezionato, quando ho visto i nomi degli altri selezionati poi... Non pensavo certo di vincere”. 
Magari sono parole che dicono tutti, ma in Pavan fanno trasparire una sincerità e una semplicità che possono maturare solo in certa gente, nata Drio el Sii, o magari lungo il Piave. Gente che sa guardare il mondo, le cose e gli uomini, come si guardavano un tempo e magari, volendo, si potrebbero guardare pure oggi. 
Quando ha aperto la busta, con l'assegno di cinque milioni (il premio) ero vicino e ho sentito la frase che si è lasciato sfuggire: “E adesso cosa ne faccio di questo?”.
Poi silenzio, forse pensa alla macchina, mi sono detto, ad un viaggio, alla casa. Invece pensava ad altro: “Pubblico il libro... peccato che non bastino”. 
Camillo Pavan, mi sembra sia fatto proprio così.


I
 mulini di Canizzano  nel 1714 
(*) Questi articoli sono apparsi sul numero di aprile 1986 di Sandonàdomani. Nel settembre dello stesso anno, Camillo Pavan mi spedì a casa il libro stampato, accompagnandolo con questa dedica: “A Mario Pettoello, per il bellissimo e indovinato ritratto che mi ha fatto nel suo giornale”.   
Quando ai primi di ottobre del 2001, presentai per la prima volta il mio libro 
“La Città che conosco”, al Capannone dei Bersaglieri, durante la Fiera del Rosario, Camillo Pavan era in prima fila. Al termine dell’incontro mi strinse la mano e io gli regalai una copia del mio libro.    
* * *

NdC (21 ottobre 2014) - Non sono riuscito a recuperare le date dei testi di Toffolo e Pettoello, pubblicati nell'archivio di Sandonàdomani online. Sito web non più disponibile.

Lettera di Mario Rigoni Stern, 1986




Breve giudizio di Mario Rigoni Stern
sul libro Drio el Sil di Camillo Pavan



Asiago, 12 dicembre 1986

Caro Pavan,

la ringrazio per Drio el Sil, libro notevole e sapiente. L'ò letto con tanto interesse e anche con un po' di melanconia. Lo metterò accanto ai miei libri di storia locale, in quel reparto voglio dire che più mi è caro.
Sono contento di come l'hanno accolto i paesani, ma vedrà che un giorno lo cercheranno anche i "letterati"
La saluto molto cordialmente e le auguro un sereno Natale e un salubre 1987.

Suo, Mario Rigoni Stern



Mario Rigoni Stern, 1986 - scritto autografo

                                                                                  


È incredibile l'umiltà e la generosità con cui questo grande autore ha sempre saputo trovare il tempo e la gentilezza di scrivere, a mano e con la stilografica, a un gran numero di persone nel corso della sua non breve vita. Oserei dire a migliaia di persone, perché nella primavera del 1986, durante un incontro con gli allievi di una scuola media di Treviso patrocinato dal libraio Adamo Lovat e aperto al pubblico, a una ragazzina che gli chiedeva come trascorresse la sua giornata disse che come prima cosa al mattino “rispondeva alla corrispondenza”. (Quanto mi dispiace di non aver registrato quell'incontro, con Rigoni Stern che rispondeva alle domande più disparate, dalla sua attività di scrittore, alla guerra, alla caccia, conversando con autorevole naturalezza con grandi e piccoli, soprattutto con i piccoli).
Per l'occasione era presente anche l’assessore alla cultura di Treviso che volle pubblicamente presentarmi come “autore di un romanzo” che aveva vinto un importante premio. Rigoni Stern chiese subito informazioni e io mi sentii sprofondare.
Quale romanzo? Avevo solo scritto una pubblicazione sulla storia del mio paese e sul fiume che l'attraversa: Drio el Sil, per l’appunto. Mi ero recato ad ascoltare Rigoni Stern perché avevo letto tutti i suoi libri, portandomi appresso Storia di Tönle per farmelo autografare. Dopo il qui pro quo sgattaiolai al più presto dalla sala, e arrivato a casa, gli scrissi scusandomi per l’accaduto. Con mia somma sorpresa mi rispose a giro di posta con il biglietto fotografico che riproduco.


Asiago, 30 aprile 1986
Caro Pavan, lo sappiamo come sono gli assessori alla cultura:
non se la prenda più di tanto!
La ringrazio per la sua lettera e spero un giorno leggere il suo libro.
(Questa cartolina non è certo per "divismo" ma come
segnapagine in un mio libro dove avrebbe voluto l'autografo)
Molti cordiali saluti e auguri
Mario Rigoni Stern 

 

Finita l'avventura del Sile, nel 1997 gli inviai una copia di Caporetto. Non solo mi ringraziò con una cartolina, ma anche dimostrò di conoscere il contenuto del libro nel corso di un’intervista con una radio locale.

 

Asiago, 27 ott. 1997
Ho ricevuto il suo libro Caporetto e la ringrazio;
è molto interessante. Auguri di cuore.
Saluti M. Rigoni Stern
 

 

Infine - sapendo del suo interesse per i profughi di guerra - gli inviai una copia di In fuga dai tedeschi. Ringraziò con la consueta cartolina (quale fortuna che nel frattempo non fosse passato alla posta elettronica!), e notai che stavolta, a differenza degli scritti precedenti nei quali aveva sempre utilizzato l'inchiostro azzurro, aveva usato quello nero. Era il 2004.

 

Asiago, 3 agosto 2004
La ringrazio per In fuga dai tedeschi e mi complimento
per l'importante suo lavoro.
Le auguro buona salute operosa
M. Rigoni Stern

Da sottolineare come Rigoni Stern non abbia mai usato le immagini a caso ma le abbia sempre scelte in sintonia con l'argomento su cui doveva scrivere. Nella prima è ritratto lo scrittore con il suo cane perché nella scuola trevigiana aveva parlato molto di natura e anche di caccia. Nella seconda è raffigurato il Sacrario di Asiago perché scriveva a proposito di una battaglia della Grande Guerra. Nella terza - che si riferiva a un libro sui profughi - è riprodotta una nota cartolina della propaganda italiana messa in circolazione dopo l'occupazione austriaca delle province di là del Piave (1917-18).



                                                                                 


Sfogliando il web (11 novembre 2014)
Piccola antologia di lettere autografe di Mario Rigoni Stern

27 agosto 2003, a Lorenzo Gassa, sito lupidellamontebianco: ricorda il suo periodo da alpino in Val d’Aosta. 
19 maggio 2005, a Adolfo Zamboni, sito Cimeetrincee: sulla brigata Catanzaro.
27 marzo 2007, a Leopoldo Marcolongo, sindaco di San Giorgio in Bosco: ricordo dei pastori di Foza e  rinuncia a cittadinanza onoraria « … è la terza proposta in un mese. Troppo!»

Non mancano poi un paio di riproduzioni di dediche su libri del Nostro.