mercoledì 8 aprile 2015

Livio Vanzetto, 2015 - Prefazione al volume "29 aprile 1945, Strada Noalese presso Quinto, Morte di nove partigiani" di Camillo Pavan

Il 29 aprile 1945, vigilia dell’entrata in città delle prime truppe alleate, morirono in provincia di Treviso una cinquantina di partigiani. Lo scontro più tragico si verificò a Quinto, sulla strada noalese, dove i tedeschi massacrarono nove combattenti della brigata “Goffredo Mameli” appartenente al Gruppo Brigate Giustizia e Libertà di Treviso, controllato dal Partito d’Azione.
L’episodio, pressoché ignorato dalla memorialistica e dalla storiografia locale e del quale si stava perdendo perfino la memoria, è stato ora ricostruito da Camillo Pavan con una ricerca attenta e rigorosa pubblicata in questo volumetto voluto dall’Istresco in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione.
E’ vero che si tratta di un “piccolo lavoro”, come lo ha definito il suo stesso autore, uno che ama autodefinirsi “un non storico che scrive di storia”;  ma è anche vero che la ricerca di Pavan contiene elementi di originalità e preziosi spunti di riflessione che val la pena di evidenziare in questa nota introduttiva.
Innanzitutto va ribadito che nessuno storico si era occupato fino ad oggi del sanguinoso scontro di Quinto. Il 20 ottobre 1945, sul luogo della strage, era stato inaugurato un cippo con i nomi dei caduti e due anni dopo il settimanale provinciale dell’ANPI  (“La Nuova Strada” - già “Patrioti della Marca”- 9 maggio 1947) aveva pubblicato alcune loro foto accompagnate da un articolo celebrativo. Poi più niente, salvo una piccola meritoria ricerca dattiloscritta prodotta dagli scolari di una quinta elementare di Zero Branco nell’anno scolastico 1983-1984 sotto la guida della loro maestra, nipote di uno dei caduti.
La sostanziale rimozione dalla memoria pubblica del sacrificio dei nove partigiani azionisti appare ingiustificabile sul piano morale, culturale e politico, anche se non è difficile individuare alcune delle ragioni che hanno certamente contribuito a questo silenzio durato quasi settant’anni. Prima tra tutte l’appartenenza dei nove caduti ad una brigata partigiana GL dipendente da una formazione politica – il Partito d’Azione – destinata ben presto a dissolversi e sparire; la qual cosa ha comportato inevitabilmente la caduta dell’interesse per la trasmissione della loro memoria.
E poi hanno giocato in negativo anche alcune circostanze occasionali come luogo, data e modalità dell’eccidio: nessuno dei caduti era di Quinto, fatto che non ha certo stimolato l’attenzione e la solerzia degli amministratori locali; il 29 aprile 1945 fu un giorno concitato e caotico per tutto il trevigiano,  troppo pieno di eventi memorabili; il dramma si compì praticamente in assenza di testimoni disposti a raccontare.
Ma forse il fattore più importante alla base del lungo silenzio andrebbe individuato nell’atteggiamento negativo verso la Resistenza assunto all’indomani della liberazione – come vedremo tra poco – dalle popolazioni rurali di vaste aree del trevigiano, compresa quella in cui si svolsero i fatti narrati in questo libro.
Prima però di affrontare tale delicata questione, vale la pena di soffermarsi su un altro aspetto storiograficamente rilevante di questa vicenda resistenziale: la “strana” composizione sociale del gruppo di partigiani caduti a Quinto, sulla quale giustamente si sofferma a lungo l’autore della ricerca.
Tra i sette caduti originari del Trevigiano, troviamo due borghesi del centro storico di Treviso (Rapisardi, dottore in legge e Bortolato, ragioniere), due figli di contadini di Zero Branco (Alessandrini e Mazzucco) e tre operai di umili origini (Chiarello, Guolo e De Vecchi).
A prima vista, dunque, appaiono superati, all'interno della brigata GL, i rigidi steccati culturali e materiali che, nella vita di tutti i giorni, continuavano a dividere città e campagna, intellettuali e lavoratori, borghesi e proletari.
L'ideale mazziniano di un Risorgimento interclassista – tutti uniti contro lo straniero – sembrava concretizzarsi nella eterogenea composizione sociale di una brigata azionista impegnata nella Liberazione dell'Italia dall'occupazione tedesca.
In realtà, nel dopoguerra, l'insuccesso elettorale del Partito d'Azione, la rinnovata contrapposizione tra città e campagna, le difficoltà di dialogo tra intellettuali e popolo mostrarono ben presto che l'abbattimento degli steccati era ancora di là da venire. Prova ne sia, tra l'altro, il fatto che l'immagine positiva di una resistenza intesa come esperienza rivoluzionaria che avrebbe potuto e dovuto coinvolgere anche le masse popolari nel processo di costruzione del nuovo Stato democratico non ha attecchito nei paesi rurali del “profondo Veneto”, dove si è imposta invece una memoria negativa che ha finito per equiparare i partigiani ai nazifascisti, entrambe forze estranee agli interessi della comunità locale, venute da lontano a turbare la “serenità” di un mondo apparentemente fuori dalla storia. E i pochi partigiani locali?  Avrebbero fatto meglio a “starsene a casa”, affermano ancor oggi quasi tutti gli intervistati di Pavan.
Non sono stati molti, nel Veneto, gli storici che hanno posto con forza, da posizioni antifasciste, il problema del rifiuto popolare della resistenza, nonostante che apparisse evidente la necessità e l'urgenza di sottrarre tale questione alle strumentalizzazioni interessate di una memorialistica nostalgica del fascismo (Serena). Oltre al sottoscritto, va citato soprattutto Egidio Ceccato con i suoi corposi saggi di una quindicina di anni fa e ora anche Camillo Pavan; tutti e tre, guarda caso, “uomini di confine” (almeno fino a quando c'è stato un “confine”).
Che cosa c'è all'origine della pessima immagine della resistenza diffusa in molti paesi del Veneto?
Pavan intuisce che si tratta di una questione complessa e, pur sottolineando l'importanza del tema, evita di fornire una risposta sbrigativa.
In ogni caso, appare evidente che non si tratta di un semplice riflesso della contrapposizione politica tra fascismo e antifascismo, come superficialmente si potrebbe ipotizzare sulla base dell'idea preconcetta che il “popolo” sia comunque eterodiretto. Sono invece convinto che le ragioni profonde del processo di criminalizzazione popolare dell'esperienza partigiana potranno essere colte solo collocando tale questione nell'ambito del problema dell'individuazione e del riconoscimento di una “soggettività popolare” di lungo periodo da sempre misconosciuta e negata non solo dai ceti dirigenti ma anche dalla maggior parte degli storici (1).
Questione complessa – dicevo – da non affrontare in forma ellittica e semplificatoria come capiterebbe inevitabilmente se lo si facesse in questa sede.
Oltretutto oggi, in una società post-ideologica resettata dal rullo compressore dell'omologazione che ha cancellato confini e diversità, non c'è più neanche l'urgenza e l'interesse politico-elettorale di trovare una spiegazione. Rimane solo la curiosità e la voglia di sapere di pochi.
Per i più giovani, anche per quelli impegnati nel difficile esercizio di ricucitura dei fili che li legano al passato, resistenza, fascismo, antifascismo, comunismo, anticomunismo sono solo  temi storiografici più o meno remoti, che, dal punto di vista politico, possono ancora scaldare solo  le discussioni di ultrasessantenni un po' anacronistici.
Heri dicebamus, caro Camillo. Trent'anni fa, pur apprezzando il tuo lavoro, ti contestavo l'individualismo anarchico con cui affrontavi, Drio el Sil, i problemi di una cultura in estinzione (2).
Ripensandoci, questionavo con te su dettagli.
La cultura in estinzione si è estinta da tempo.
E noi reduci, ex uomini di confine “emigrati da fermi” (Trimeri), continuiamo a scrivere libri sulla storia dei nostri paesi. Non più con l'ambizione di cambiare un mondo che poi è cambiato da solo; ma per cercare di capire. E non è poco. Anche perché, in fondo, capire è anche cambiare; almeno se stessi, se non il mondo.
                                                                                                                Livio Vanzetto

Note
(1) Si veda Soggettività popolare e Unità d'Italia. Il caso Veneto, in “Venetica”, a. XXVI,  n. 25, 2012.
(2) Livio Vanzetto, Intellettuali di paese Drio el Sil e nei dintorni, in “Venetica”, 1986,  n.6.

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