15 maggio 2015 - sala
verde di palazzo Rinaldi
00:00 / 02:56 Introduzione di Lisa Tempesta, condirettore dell'Istresco.
Progressione argomenti e trascrizione integrale [tra virgolette « ... » ] delle parti più significative dell’intervento di Livio Vanzetto
02:57 Dapprima parlerò dei contenuti e poi dell'interpretazione.
03:46 Trascrizione integrale: «In particolare cercherò di rispondere a una domanda abbastanza scomoda. Come mai, perché in molti paesi della campagna del Veneto centrale, soprattutto, ma anche del Bellunese, anche di altre aree, forse anche fuori regione - nei paesi dico, non nelle città - l’immagine del movimento partigiano è un’immagine tramandata, consolidata, fino all'altro ieri, un’immagine assolutamente negativa. Perché non ha trovato spazio invece quella rappresentazione esaltante della resistenza, ufficiale, che è stata costruita negli anni ’60 - ’70 e che è rimasta totalmente tagliata fuori da queste aree, marginali sì, ma numericamente non minoritarie: sono la maggioranza [delle persone] che abitano nei paesi».
04:37 Contenuti del libro
Colma una lacuna: non si era mai parlato di questo importante episodio avvenuto alle porte di Treviso. Si assolve così all'obbligo morale di rendere omaggio a questi nove uomini generosi appartenenti a Giustizia e Libertà.
05:41 Compiti assegnati dagli alleati ai partigiani
- salvare le infrastrutture
- intralciare la ritirata e far il maggior numero di prigionieri possibile
06:46 Ricostruzione dell’episodio
Nove morti, sette dei quali giovanissimi.
09:40 Composizione sociale di una brigata azionista.
Dei nove caduti ne teniamo da parte due, non perché meritino meno degli altri ma per ragioni che capiremo dopo:
- Emilio Schreiber, che forse venne coinvolto per caso nello scontro.
- Francesco Colamarino, abruzzese, soldato di leva: “Un caso, quello di Colamarino, piuttosto significativo, interessante, e non isolato nel quadro della resistenza veneta. C’erano dei siciliani, c’erano dei sardi che erano rimasti qui e avevano finito per aderire alla resistenza …”
In questa sede ci interessano, per il ragionamento che vogliamo fare, gli altri sette caduti
11:01 Carlo Bortolato, trentaquattrenne, in gioventù canottiere, in guerra capitano.
11:45 Vito Rapisardi, ventitreenne neolaureato in legge a Padova, fratello di un altro comandante partigiano, Raffaello, e nipote di un altro esponente della Treviso antifascista, all’epoca comandante partigiano in val Brembana.
12:40 I figli più generosi della classe dirigente borghese e antifascista trevigiana avevano in gran parte aderito al Partito d’Azione cercando di coinvolgere nell’attività partigiana i loro coetanei proletari del centro storico e i loro coetanei contadini della campagna circostante, in parte riuscendoci.
13:36 Biografie degli altri cinque caduti di Quinto.
- Bruno Chiarello è quello di cui si sa meno, aveva fatto la 5. elementare ed era meccanico a Treviso.
- Rino De Vecchi, di Canizzano, figlio di un postino, famiglia numerosa molto povera.
- Bruno Guolo, figli di un mugnaio di Sant’Alberto di Zero Brano che però faceva il saldatore al cantiere navale Breda di Marghera.
15:39 Luigi Mazzucco e Ottorino Alessandrini: i due casi più interessanti, provenienti da famiglie contadine, ma atipiche, tanto che Luigi Mazzucco riuscì a studiare.
19:00 Anche Alessandrini figlio di una famiglia in ascesa.
Personalità libere, non condizionate dalle regole della società contadina.
18:38 Trascrizione integrale
«Mi sono soffermato a lungo su aspetti biografici perché ci mostrano che la resistenza rappresentò effettivamente il primo esempio in Italia di un’alleanza - sia pure un’alleanza fragile, destinata al fallimento, destinata a infrangersi - tra élite urbane progressiste e ceti contadini. Se guardiamo bene questa cosa non era affatto avvenuta durante il risorgimento, e questa è una delle pecche della storia italiana, uno dei punti deboli della nostra storia.
E questo è un primo aspetto.
19:23 Poi ho insistito ancora su questi profili biografici per un altro motivo: perché queste piccole biografie ci forniscono spunti e ci aiutano a cogliere quelle che sono le ragioni profonde di quella rappresentazione negativa della resistenza […] che è prevalsa nei paesi rurali fin dall'immediato dopoguerra e che certamente traspare anche da molte delle interviste raccolte in questo volume.
Scrive Camillo Pavan a pagina 105: “Il giudizio di valore emerso dai paesani intervistati è di una sconfortante unanimità. Dei partigiani dicono: potevano starsene a casa, i tedeschi stavano scappando, gli americani stavano per arrivare”. È stata un po’ colpa loro, insomma.
20:20 Indubbiamente erano questi, sono questi, i sentimenti, gli atteggiamenti popolari più diffusi, più radicati nei paesi veneti. Lo erano almeno fino a qualche anno fa, oggi ho l’impressione che molte cose stiano cambiando, se non altro per un ricambio generazionale. Ormai è storia remota; la resistenza per i giovani di oggi possiamo equipararla, non so, alle campagne garibaldine, appiattite in un passato remoto di cui non si coglie la distanza temporale.
C’è un problema, però, in questa disamina che abbiamo fatto finora. Il problema è rappresentato da questa constatazione: tutti i protagonisti della resistenza veneta parlano, certo con chiaroscuri, ma parlano sostanzialmente di un atteggiamento positivo delle popolazioni contadine verso il movimento resistenziale durante i venti mesi. Testimonianze assolutamente attendibili. Non è da pensare che si siano lasciati portare dalla propaganda e che adesso dicano “i contadini ci favorivano”. No, io credo che veramente fosse così, che percepissero un atteggiamento favorevole del mondo contadino verso la resistenza, durante i venti mesi.
21:41 Se è così, se questa costatazione è vera, e non ho ragione di dubitarne, allora l’immagine negativa dei partigiani, che anche Pavan ha documentato nella sua ricerca, questa immagine negativa deve essere stata costruita dopo la Liberazione, diciamo tra il ’46 e il ‘48.
Ecco, perché questo avvenne?
Questo è un problema grosso da risolvere, e non è stato risolto finora; mai affrontato.
I più dicono: “Bah ... avvenne per influenza della chiesa, una chiesa timorosa di una resistenza prevalentemente orientata a sinistra”. È una spiegazione buttata lì, con nonchalance. In realtà si tratta di una spiegazione superficiale e di comodo, sostanzialmente non vera anche se verosimile. Verosimile perché è compatibile con una convinzione diffusa fra tutte le classi dirigenti che hanno governato il Veneto e l’Italia nel dopoguerra, le élite. La convinzione che le scelte dei ceti contadini non fossero mai autonome, fossero sempre determinate dalle classi dirigenti, di regola dalle classi dirigenti clericali, nel Veneto, e quindi che i contadini non potessero scegliere in prima persona, che per loro scegliessero altri, sul piano politico.
23:01 In realtà io credo che a decidere istintivamente di - usiamo pure questo termine, perché è così - criminalizzare la resistenza “partigiani uguale banditi”, a decidere questa cosa, tra il ’45 e il ’48 furono proprio le comunità paesane contadine. Per un meccanismo che s’innescò, direi, spontaneamente, senza la volontà di nessuno; meccanismo che nulla ha a che fare con le scelte politiche così come le intendiamo noi, come siamo abituati a pensarle.
23:39 Ho parlato di queste cose per la prima volta in pubblico una decina di giorni fa (qui a Treviso) … c’era anche qualcuno dei presenti. E quindi si tratta di ricerche ancora in corso, ancora in qualche modo fluide. Per di più questa sera sarò costretto - per ragioni di tempo e anche di opportunità - a sacrificare ancora di più il mio ragionamento. Ma speriamo di farlo, in cinque minuti.
24:06 Partiamo da una considerazione, che ho proposto anche venti giorni fa. Il modo di pensare dei contadini veneti è stato condizionato da sempre, da secoli direi, da un profondo sentimento di paura. Paura dell’incertezza della vita, delle carestie, delle avversità atmosferiche, della sfortuna, delle malattie e soprattutto paura del potere. Il potere vissuto come una forza brutale, come una forza irrazionale capace di schiacciare i più deboli […].
Per cercare di controllare queste paure profonde, i contadini hanno da sempre trovato una soluzione, hanno cercato e trovato dei protettori. Qualcuno che si occupasse di loro, che li aiutasse nelle avversità, che li tutelasse contro il potere, nei rapporti con il potere, impedisse al potere di schiacciarli.
25:20 A svolgere a lungo questo ruolo - un ruolo che io ho chiamato di patronage - con un termine inglese […]; per non confonderlo con alcuni termini italiani che hanno altro significato, uso un termine nuovo, così non lasciamo spazio a equivoci...
Hanno svolto questo ruolo di patronage i proprietari terrieri, aristocratici soprattutto, la nobiltà veneziana. Poi però le nuove famiglie della borghesia agraria di fine Ottocento che si erano man mano sostituite all'aristocrazia veneziana, queste nuove famiglie di proprietari terrieri, finirono per inurbarsi: il periodo della Belle Époque è il periodo tipico dell'inurbamento dei proprietari terrieri, che finirono per abbandonare i contadini a sé stessi, rifiutandosi di continuare a svolgere un ruolo di patronage che i contadini continuavano a richiedere. Basterebbe leggere le pagine scritte da un uomo come Costante Gris, che mi è capitato di incontrare anni fa, per rendersi conto di come ci fosse questa aspettativa di un ruolo di patronage da parte dei proprietari terrieri e i proprietari terrieri cominciarono a rifiutarsi di svolgere.
26:46 I contadini si sentirono abbandonati e cominciarono a guardarsi intorno, cercando altri protettori, a fine Ottocento. E scelsero di affidare la propria tutela a una micro classe dirigente nuova, ai funzionari, ai dirigenti di quelle istituzioni parrocchiali che, se vi ricordate, la chiesa trevisana - ne abbiamo parlato altre volte - aveva messo in piedi in pochi anni a fine Ottocento, dopo la Rerum Novarum: le casse rurali, le assicurazioni, i comitati parrocchiali (laddove non c’era una cassa rurale mettevano in piedi comunque un comitato parrocchiale). Ecco, presidente e segretario di questi piccoli enti economici assunsero ben presto anche il ruolo di nuovi patroni, chiamiamoli così, patroni delle proprie comunità paesane: erano sul luogo e potevano essere presenti in ogni momento. In cambio della protezione loro garantita, i contadini offrivano a questi patroni - cioè alla chiesa, sostanzialmente, perché erano l’emanazione della chiesa - offrivano una delega politica in bianco. Una delega politica che, ovviamente, fu gestita dall'élite cattolica in funzione moderata, tendenzialmente conservatrice.
28:19 Questa rete capillare di patronage si dimostrò vitale e duratura negli anni a venire, nel tempo. Rischiò di saltare soltanto in alcune zone dopo la prima guerra mondiale, soprattutto nei paesi del profugato, i paesi nei quali i vincoli comunitari, paesani, si erano dissolti in seguito alla dispersione degli abitanti su tutto il territorio nazionale. Come ad esempio nel Montebellunese o nella Sinistra Piave dove tra il ’19 e il ’24 emersero in ambiente rurale - ambiente rurale già dominato dalla chiesa, intendiamoci - i “repubblicani sociali”, anticlericali, quelli di Guido Bergamo per intenderci e i “socialisti mangiapreti” di Angelo Tonello nella sinistra Piave. Due leader che avevano, non a caso, saputo mettere in piedi - in brevissimo tempo - delle reti di patronage alternative a quelle cattoliche che erano state scardinate dagli eventi bellici.
29:25 Naturalmente poi il fascismo distrusse quanto costruito da Bergamo e da Tonello, lo distrusse in pochi mesi. Invece sopravvisse durante il fascismo, anzi si rinvigorì, direi, il patronage cattolico, clericale. Quei clericali che finirono per adeguarsi in qualche modo al fascismo, opportunisticamente, per conviverci fino alla fine.
Certo questo patronage, da un punto di vista contadino garantiva la sopravvivenza ma era indubbiamente anche qualcosa di oneroso. Comportava delle rinunce sul piano della libertà individuale, comportava l’obbligo di adeguarsi ai valori dominanti, ai valori cattolici della comunità rurale. Comportava l’obbligo di non trasgredire alle regole comunitarie. E molti giovani contadini scalpitavano, volevano uscire - come tutti i giovani - da una situazione opprimente, una situazione che vivevano male, che sentivano come una prigione, quasi. Così alcuni di loro, i più intraprendenti - come ad esempio i Mazzucco, gli Alessandrini, i Guolo di questo libro - nel '43-'44 aderirono, istintivamente direi, alla resistenza.
30:45 Vi aderirono per una esigenza intima, esistenziale; per un bisogno del tutto prepolitico di sottrarsi a quei vincoli stringenti della comunità paesana, che vivevano male. Gli altri, la maggioranza, forse, stettero a guardare, a vedere come sarebbe andata a finire.
E andò a finire male. Dopo la guerra la società rurale, queste piccole comunità paesane, avevano ancora estremo bisogno di patronage. Avevano cioè bisogno dell’appoggio di persone che fossero presenti sul territorio, persone capaci di garantire alla comunità paesana un flusso, sia pure modesto, di finanziamenti per le esigenze collettive e anche di garantire un’assistenza capillare e individuale alle singole famiglie contadine. Per tanti motivi: scrivere una lettera, fare una pratica burocratica che non erano capaci di gestire, ottenere un prestito, avere assistenza in caso di malattia, in caso di emigrazione, in caso di servizio militare. Tutte occasioni in cui ci voleva qualcuno che sapesse trattare con il potere. Assistere i vecchi, curare i malati: non c’erano mica le mutue, ancora, quindi diventava difficile se non c’era un protettore.
32:11 Ebbene, i capi partigiani urbani, nei quali avevano creduto, nei quali avevano in qualche modo scommesso questi giovani contadini o figli di contadini intraprendenti, questi capi partigiani non si dimostrarono disponibili a assumere un ruolo di patronage, o non potevano assumerlo, per svariate ragioni, alcune delle quali anche molto serie, sulle quali non possiamo indagare in questa sede, per ovvi motivi; comunque non potevano svolgerlo. Ritornarono in città e i partigiani di estrazione rurale si ritrovarono allo scoperto, privi di qualsiasi tutela, di quelle tutele tradizionali che esistevano nei paesi.
33:04 E fu così che la maggior parte di loro finì per emigrare, come ben sappiamo, come ci dicono tante testimonianze. Chi rimase invece - e anche questo l’ho documentato di persona in alcune ricerche - dovette rimuovere e rinnegare l’esperienza partigiana per poter rientrare in qualche modo sotto l’ombrello protettivo del patronage locale. Rientrare sotto l’ombrello protettivo di un patronage che evidentemente era rinato, era riemerso immediatamente.
Non c’era stata soluzione di continuità. Le vecchie classi dirigenti paesane che erano al potere fin dall’Ottocento, che avevano transitato lungo il periodo fascista senza colpo ferire, riemersero ben presto dopo la liberazione, come ci dice anche Camillo Pavan parlando di Quinto.
33:55 E riemersero per motivi ovvi. Riemersero perché disponevano di un consenso a livello popolare quasi unanimistico. Disponevano di un consenso che era garantito loro proprio da questa gestione del patronato, del patronage.
In tale situazione, evidentemente, non poteva emergere, non poteva imporsi una memoria positiva della resistenza, di una resistenza che aveva rappresentato come sappiamo un potenziale fattore di rottura e di superamento dei vecchi equilibri, anche a livello paesano. E fu così che nelle mille piccole comunità parrocchiali del Veneto centrale la resistenza fu rimossa e criminalizzata, come dicevo, in pochi mesi. Senza che nessuno neanche provasse a contrastare questo processo, che fu inarrestabile.
34:56 E voluto, in qualche maniera; non subíto più di tanto, insomma. È una scelta, una scelta istintiva. Di sopravvivenza.
Ecco, ho voluto affrontare anche questo argomento, oggettivamente un po' ellittico rispetto al libro. L'ho voluto affrontare perché si tratta di una questione che lo stesso Pavan pone, sia pure fra le righe, e che mi veniva posto anche in fase di stesura […].
Dovevo una risposta. Una risposta che ha trovato conferma proprio dalla lettura delle pagine di questo libro. Se lo leggete con questo criterio troverete conferme a quanto ho tentato di esporvi in breve.
E mi avvio a concludere. Queste pagine, e lo dico anche per invogliarvi a leggerle, sono pagine scritte in maniera molto efficace. Stile piacevole, stile discorsivo, non certo paludato, come del resto ha sempre fatto Camillo Pavan fin dai tempi del suo primo volume - mi pare fosse Drio el Sil, se ricordo bene - e come ha continuato a fare in molti altri suoi volumi. Mi piace ricordare quelli dedicati alla grande guerra, visto che siamo nel centenario. È uno storico locale che però viene citato spesso anche dai migliori storici nazionali; questo gli va riconosciuto, mi pare giusto.
Per tutto questo, e in particolare proprio per quest’ultimo lavoro che tanti stimoli, abbiamo visto, offre alla riflessione storiografica, per tutto questo mi sento di ringraziare Camillo Pavan, a nome dell’Istituto per la Storia della Resistenza, e anche a titolo personale. Grazie».
NdC
Di Livio Vanzetto (Sant'Ambrogio di Trebaseleghe, PD, 1949) non esiste in rete una biografia al di fuori delle scarne note di Linkedin.
Rimando quindi alla sua vasta produzione libraria.
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