Un libro di Camillo Pavan spiega il dopo Caporetto
Il viaggio dei prigionieri italiani nel nascente mondo dei lager
Marina Rossi, Il Piccolo -Trieste 19 giugno 2002 |
Avvalendosi di una ricca documentazione cartacea e visiva, proveniente da archivi pubblici e privati italiani, austriaci e sloveni, (tra cui il Kriegsarchiv di Vienna, il museo centrale del Risorgimento di Roma, la fototeca del museo di storia contemporanea di Lubiana, dei musei provinciali di Gorizia, della sezione fotocinematografica del comando supremo e dell'archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano), l'autore si sofferma ad analizzare i destini dei vinti di Caporetto, dal momento della cattura, all'internamento nei campi allestiti in Friuli, durante le marce estenuanti o nei lunghi viaggi compiuti in treno verso i lager dell'Austria e della Germania.
Udine, Codroipo, Cividale, Villasantina, la Val di Resia, i bacini dell'Isonzo e della Sava, i territori mistilingui abitati da italiani e sloveni, divenuti, un anno dopo, aree di confine tra il regno d'Italia e il nuovo stato Jugoslavo, segnarono le tappe di tragedie e sofferenze che confermano le tesi enunciate da Giovanna Procacci nel suo volume dedicato ai prigionieri dell'esercito italiano, anche in territori così vicini a noi, soprattutto per quanto riguarda l'atteggiamento punitivo assunto dal comando supremo verso i militari italiani arresisi al nemico.
Dal Pavan apprendiamo che il campo di concentramento di Cividale, già utilizzato dal regio esercito italiano per rinchiudere gli austriaci diviene, agli inizi di novembre del 1917, luogo di tormenti per gli italiani, colpiti addirittura dall'aviazione del loro stesso esercito. «Un rumore assordante, vetri infranti, la baracca si scuote, il tempo appena di fuggire e una seconda bomba la manda in aria in un rovinio di legno e di schegge. Che strazio vedersi colpiti dai propri fratelli! E il fante pensava: "Che i fratelli vengano a punirci perché siamo prigionieri?"».
Nel Friuli rioccupato dagli austro-germanici i militari italiani laceri e affamati devono far i conti con l'ostilità della popolazione civile, poco prodiga di aiuti, sia perché a sua volta logorata e ridotta a una vita di stenti a causa della guerra, sia perché più propensa a sostenere le ragioni dell'Austria o comunque non necessariamente disposta a appoggiare la causa italiana.
Alla fine del lungo viaggo, per quei trecentomila prigionieri si sarebbero spalancate le porte dei campi di concentramento degli imperi centrali.
Le foto inedite di corpi ischeletriti dalla fame, confermano nella particolare prospettiva della ricerca del Pavan, un altro dato interpretativo ormai recepito da molti storici, che individua proprio nei campi di prigionia della grande guerra, la prima guerra di massa nella storia dell'umanità, l'avvio di quel sistema concentrazionario, applicato poi su vasta scala dal nazismo.
Marina Rossi
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