Il 29 aprile 1945, vigilia dell’entrata in città delle prime
truppe alleate, morirono in provincia di Treviso una cinquantina di partigiani.
Lo scontro più tragico si verificò a Quinto, sulla strada noalese, dove i
tedeschi massacrarono nove combattenti della brigata “Goffredo Mameli”
appartenente al Gruppo Brigate Giustizia e Libertà di Treviso, controllato dal
Partito d’Azione.
L’episodio, pressoché ignorato dalla memorialistica e dalla
storiografia locale e del quale si stava perdendo perfino la memoria, è stato
ora ricostruito da Camillo Pavan con una ricerca attenta e rigorosa pubblicata
in questo volumetto voluto dall’Istresco in occasione del settantesimo
anniversario della Liberazione.
E’ vero che si tratta di un “piccolo lavoro”, come lo ha
definito il suo stesso autore, uno che ama autodefinirsi “un non storico che
scrive di storia”; ma è anche vero che
la ricerca di Pavan contiene elementi di originalità e preziosi spunti di
riflessione che val la pena di evidenziare in questa nota introduttiva.
Innanzitutto va ribadito che nessuno storico si era occupato
fino ad oggi del sanguinoso scontro di Quinto. Il 20 ottobre 1945, sul luogo
della strage, era stato inaugurato un cippo con i nomi dei caduti e due anni
dopo il settimanale provinciale dell’ANPI
(“La Nuova Strada” - già “Patrioti della Marca”- 9 maggio 1947) aveva
pubblicato alcune loro foto accompagnate da un articolo celebrativo. Poi più
niente, salvo una piccola meritoria ricerca dattiloscritta prodotta dagli
scolari di una quinta elementare di Zero Branco nell’anno scolastico 1983-1984
sotto la guida della loro maestra, nipote di uno dei caduti.
La sostanziale rimozione dalla memoria pubblica del
sacrificio dei nove partigiani azionisti appare ingiustificabile sul piano
morale, culturale e politico, anche se non è difficile individuare alcune delle
ragioni che hanno certamente contribuito a questo silenzio durato quasi
settant’anni. Prima tra tutte l’appartenenza dei nove caduti ad una brigata
partigiana GL dipendente da una formazione politica – il Partito d’Azione –
destinata ben presto a dissolversi e sparire; la qual cosa ha comportato
inevitabilmente la caduta dell’interesse per la trasmissione della loro
memoria.
E poi hanno giocato in negativo anche alcune circostanze
occasionali come luogo, data e modalità dell’eccidio: nessuno dei caduti era di
Quinto, fatto che non ha certo stimolato l’attenzione e la solerzia degli
amministratori locali; il 29 aprile 1945 fu un giorno concitato e caotico per
tutto il trevigiano, troppo pieno di
eventi memorabili; il dramma si compì praticamente in assenza di testimoni
disposti a raccontare.
Ma forse il fattore più importante alla base del lungo
silenzio andrebbe individuato nell’atteggiamento negativo verso la Resistenza
assunto all’indomani della liberazione – come vedremo tra poco – dalle popolazioni
rurali di vaste aree del trevigiano, compresa quella in cui si svolsero i fatti
narrati in questo libro.
Prima però di affrontare tale delicata questione, vale la
pena di soffermarsi su un altro aspetto storiograficamente rilevante di questa
vicenda resistenziale: la “strana” composizione sociale del gruppo di
partigiani caduti a Quinto, sulla quale giustamente si sofferma a lungo
l’autore della ricerca.
Tra i sette caduti originari del Trevigiano, troviamo due
borghesi del centro storico di Treviso (Rapisardi, dottore in legge e
Bortolato, ragioniere), due figli di contadini di Zero Branco (Alessandrini e
Mazzucco) e tre operai di umili origini (Chiarello, Guolo e De Vecchi).
A prima vista, dunque, appaiono superati, all'interno della
brigata GL, i rigidi steccati culturali e materiali che, nella vita di tutti i
giorni, continuavano a dividere città e campagna, intellettuali e lavoratori,
borghesi e proletari.
L'ideale mazziniano di un Risorgimento interclassista –
tutti uniti contro lo straniero – sembrava concretizzarsi nella eterogenea
composizione sociale di una brigata azionista impegnata nella Liberazione
dell'Italia dall'occupazione tedesca.
In realtà, nel dopoguerra, l'insuccesso elettorale del
Partito d'Azione, la rinnovata contrapposizione tra città e campagna, le
difficoltà di dialogo tra intellettuali e popolo mostrarono ben presto che
l'abbattimento degli steccati era ancora di là da venire. Prova ne sia, tra
l'altro, il fatto che l'immagine positiva di una resistenza intesa come
esperienza rivoluzionaria che avrebbe potuto e dovuto coinvolgere anche le
masse popolari nel processo di costruzione del nuovo Stato democratico non ha
attecchito nei paesi rurali del “profondo Veneto”, dove si è imposta invece una
memoria negativa che ha finito per equiparare i partigiani ai nazifascisti,
entrambe forze estranee agli interessi della comunità locale, venute da lontano
a turbare la “serenità” di un mondo apparentemente fuori dalla storia. E i
pochi partigiani locali? Avrebbero fatto
meglio a “starsene a casa”, affermano ancor oggi quasi tutti gli intervistati
di Pavan.
Non sono stati molti, nel Veneto, gli storici che hanno
posto con forza, da posizioni antifasciste, il problema del rifiuto popolare
della resistenza, nonostante che apparisse evidente la necessità e l'urgenza di
sottrarre tale questione alle strumentalizzazioni interessate di una
memorialistica nostalgica del fascismo (Serena). Oltre al sottoscritto, va
citato soprattutto Egidio Ceccato con i suoi corposi saggi di una quindicina di
anni fa e ora anche Camillo Pavan; tutti e tre, guarda caso, “uomini di
confine” (almeno fino a quando c'è stato un “confine”).
Che cosa c'è all'origine della pessima immagine della
resistenza diffusa in molti paesi del Veneto?
Pavan intuisce che si tratta di una questione complessa e,
pur sottolineando l'importanza del tema, evita di fornire una risposta
sbrigativa.
In ogni caso, appare evidente che non si tratta di un
semplice riflesso della contrapposizione politica tra fascismo e antifascismo,
come superficialmente si potrebbe ipotizzare sulla base dell'idea preconcetta
che il “popolo” sia comunque eterodiretto. Sono invece convinto che le ragioni
profonde del processo di criminalizzazione popolare dell'esperienza partigiana
potranno essere colte solo collocando tale questione nell'ambito del problema
dell'individuazione e del riconoscimento di una “soggettività popolare” di
lungo periodo da sempre misconosciuta e negata non solo dai ceti dirigenti ma
anche dalla maggior parte degli storici (1).
Questione complessa – dicevo – da non affrontare in forma
ellittica e semplificatoria come capiterebbe inevitabilmente se lo si facesse
in questa sede.
Oltretutto oggi, in una società post-ideologica resettata
dal rullo compressore dell'omologazione che ha cancellato confini e diversità,
non c'è più neanche l'urgenza e l'interesse politico-elettorale di trovare una
spiegazione. Rimane solo la curiosità e la voglia di sapere di pochi.
Per i più giovani, anche per quelli impegnati nel difficile
esercizio di ricucitura dei fili che li legano al passato, resistenza,
fascismo, antifascismo, comunismo, anticomunismo sono solo temi storiografici più o meno remoti, che,
dal punto di vista politico, possono ancora scaldare solo le discussioni di ultrasessantenni un po'
anacronistici.
Heri dicebamus, caro Camillo. Trent'anni fa, pur
apprezzando il tuo lavoro, ti contestavo l'individualismo anarchico con cui
affrontavi, Drio el Sil, i problemi di una cultura in estinzione (2).
Ripensandoci, questionavo con te su dettagli.
La cultura in estinzione si è estinta da tempo.
E noi reduci, ex uomini di confine “emigrati da fermi”
(Trimeri), continuiamo a scrivere libri sulla storia dei nostri paesi. Non più
con l'ambizione di cambiare un mondo che poi è cambiato da solo; ma per cercare
di capire. E non è poco. Anche perché, in fondo, capire è anche cambiare;
almeno se stessi, se non il mondo.
Livio Vanzetto
Note