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martedì 29 marzo 2016

Quinto di Treviso, martedì 21 marzo 2015: presentazione del libro sui partigiani uccisi Al Gambero (strada Noalese)

- Libri a Quinto di Treviso -
Presso la Sala della Musica 
di Villa Memo Giordani Valeri

a cura del Comune di Quinto di Treviso in collaborazione con l'Istresco

29 Aprile 1945, libro di Camillo Pavan sulla morte
dei nove partigiani avvenuta a Quinto di Treviso (Al Gambero)
nel giorno della liberazione del capoluogo da fascisti e nazisti. 

Venticinque Aprile, Resistenza, Liberazione, Provincia di Treviso

''29 aprile 1945" morte di 9 partigiani. Un momento della 
presentazione del libro a Quinto di Treviso (Villa Giordani)
alla presenza del sindaco Mauro Dal Zilio (al centro).
(Foto di Laura Martinello)

Un  aspetto della Sala della Musica di Villa Memo Giordani Valeri
a Quinto di Treviso durante la presentazione del libro sui partigiani 
uccisi Al Gambero il 29 aprile 1945. (Foto di Diego Agnoletto)

Amerigo Manesso durante la presentazione
del volume sui partigiani uccisi a Quinto di Treviso.

(Fotogramma da video)

Mauro Gobbo, console svizzero a Marsiglia e nipote del partigiano 
Bruno Guolo caduto a Quinto il 29 aprile 1945,
ha voluto che la ricerca di Pavan venisse stampata
e ha contribuito finanziariamente alla sua pubblicazione.

 (Foto di Diego Agnoletto)


Intervento di Amerigo Manesso a Quinto di Treviso il 21 aprile 2015

AUDIO

TRASCRIZIONE    

«L’evento che ricordiamo questa sera ha avuto luogo nel territorio di Quinto, ma tre di coloro che vennero uccisi alla trattoria Al Gambero erano di Zero Branco.
Quindi ringraziamo le amministrazioni comunali perché hanno aderito alla nostra proposta, hanno aderito alla realizzazione di questa pubblicazione e anche alla presentazione della stessa organizzando due serate.
Dobbiamo ringraziare anche il signor Mauro Gobbo, che è nipote del partigiano Guolo, e che è stato un po' colui che ha spinto Camillo [a pubblicare la sua ricerca].
Poi sarà Camillo che ringrazierà tutta una serie di persone perché, quando avrete modo di prendere in mano il suo libro e di leggerlo, vi renderete conto che in realtà è un libro un po’ collettivo, nel senso che Camillo ha raccolto delle voci e - come dicevamo prima - l’onestà dello storico è stata quella di riportare le voci che ha raccolto, senza modificarle e quindi riuscendo in qualche modo, attraverso le voci di coloro che all'epoca sono stati testimoni della vicenda, a darci il clima, gli atteggiamenti, i modi di pensare, le prime valutazioni su questa vicenda.
C’è il sindaco Mauro Dal Zilio: lo invito a dare un saluto.
01:59 Saluto del sindaco.
03:40 Riprende Manesso. Andiamo veloci. Come si può introdurre questa pubblicazione? Beh, diciamo che sarà Camillo stesso che dirà come è nata, quali sono stati i percorsi che lo hanno spinto a realizzarla. Io l’ho vista una volta scritta e mi sono reso conto immediatamente che apparentemente è una pubblicazione semplice. Se voi chiedete a Camillo cosa pensa di questo suo lavoro, Camillo dirà che è un lavoro semplice, un lavoro che lui considerava neanche degno di una pubblicazione in grande stile. Una ricerca che aveva fatto [...] ma che, una volta realizzata, pensava dovesse rimanere così, per pochi intimi, per poche persone, magari per i diretti interessati ai fatti.
Invece il valore del libro è che la sua semplicità in realtà ci porta a fare delle considerazioni - caso mai vi dedicheremo un quarto d’ora verso la fine - su delle tematiche molto importanti, delle tematiche diciamo anche sulle quali ci potremo dividere, sulle quali non è detto che abbiamo dei punti di vista concordanti e sulle quali neanche gli storici che si sono occupati di Resistenza hanno punti di vista concordanti.
05:10 Quali possono essere le tematiche che emergono dalla ricostruzione di Camillo?
La violenza. L’episodio che è accaduto al Gambero è un episodio di violenza, di morte violenta. Beh, io cercherò di darvi delle indicazioni, dei riferimenti per contestualizzare quello che è accaduto qui il 29 di aprile con quello che accadeva nella provincia di Treviso il 29 di aprile. Sono stati giorni di morti. Tantissime, centinaia e centinaia di morti violente. Questo è un primo aspetto sul quale riflettere: la Resistenza è stata anche un passaggio segnato  in maniera profonda, nei giorni della liberazione, dalla violenza.
Un altro tema importante che Camillo ha posto in luce in maniera direi esemplare è l’interrogativo “chi erano i partigiani?
Attraverso la ricostruzione biografica di questi nove profili, Camillo ci restituisce una visione antiretorica di coloro che sono stati protagonisti della resistenza. Rifletteremo anche su questo: chi erano i partigiani?
Terzo aspetto, sul quale la ricerca di Camillo entra veramente in maniera profonda, è la memoria dannata nei confronti dei partigiani, di chi ha fatto questo tipo di scelta. Memoria che si era già espressa nei giorni della morte di questi ragazzi, ai funerali stessi. La gente diceva “ma, non potevano tare a casa?”.
Su questi tre temi, alla fine faremo delle considerazioni, delle riflessioni […] ».
Trascrizione della registrazione audio della serata, dall'inizio al minuto 7:10 (Archivio Pavan, file 15042116)


                                                                             


Calendario presentazioni

QUINTO di Treviso:  martedì 21 aprile 2015, ore 18:00
Sala della Musica - Villa Memo Giordani Valeri  - conduce Amerigo Manesso

ZERO BRANCO: giovedì 23.4.2015, ore 20:45
Sala Consiliare, piazza Umberto I - conduce Amerigo Manesso

TREVISO: venerdì 15 maggio 2015, ore 17:30
Sala Verde palazzo Rinaldi - conduce Livio Vanzetto

sabato 11 aprile 2015

Zero Branco, 23 aprile 2015: presentazione libro sui partigiani Alessandrini, Guolo e Mazzucco

- Libri a Zero Branco, 2015 - 
Presso la sala Consiliare (piazza Umberto I)

a cura del Comune di Zero Branco in collaborazione con l'Istresco


Cartolina invito alla presentazione di
"29 Aprile 1945", libro di Camillo Pavan sulla morte
dei nove partigiani avvenuta a Quinto di Treviso (Al Gambero)
nel giorno della liberazione del capoluogo da fascisti e nazisti.
Dei nove partigiani caduti,
due abitavano a S. Alberto (Ottorino Alessandrini
e Bruno Guolo) e uno a Zero Branco (Luigi Mazzucco).

Camillo Pavan e la maestra Flora Alessandrini
con due dei suoi allievi:
David Doro e Christian Casagrande,
autori con la classe V di Sant'Alberto (a. s.1983/84)
della prima ricerca sui partigiani uccisi a Quinto.

La sala consiliare del comune di Zero Branco affollata 
per la presentazione del libro sui partigiani azionisti
uccisi a Quinto di Treviso il 29 aprile 1945.

Partecipanti alla presentazione del libro
''29 aprile 1945, morte di nove partigiani''
sala consiliare del comune di 
Zero Branco, 23.4.2015.

23 aprile 2015 - Sala consiliare del comune di Zero Branco.
Presentazione del libro sui partigiani uccisi a Quinto:
relazione di Amerigo Manesso, presidente dell'ISTRESCO.

(Foto di Laura Martinello)



                                                                                 





Calendario presentazioni

QUINTO di Treviso:  martedì 21 aprile 2015, ore 18:00
Sala della Musica - Villa Memo Giordani Valeri  - conduce Amerigo Manesso

ZERO BRANCO: giovedì 23.4.2015, ore 20:45
Sala Consiliare, piazza Umberto I - conduce Amerigo Manesso

TREVISO: venerdì 15 maggio 2015, ore 17:30
Sala Verde palazzo Rinaldi - conduce Livio Vanzetto

lunedì 15 aprile 2013

Luigino Scroccaro e Marina Rossi, 2002 - Presentazione "I prigionieri italiani dopo Caporetto", di C. Pavan


Centro di Documentazione storica sulla Grande Guerra, San Polo di Piave (Treviso) - 
Sabato 11 maggio 2002

Presentazione ''I prigionieri italiani dopo Caporetto'' - San Polo di Piave, 2002
da sx - Pavan, Marina Rossi, Luigino Scroccaro 


(Trascrizione integrale)




Luigino Scroccaro, Presidente del Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra

Credo che possiamo iniziare. Un saluto e un grazie a tutti voi che siete qui presenti a questa iniziativa che testimonia ancora una volta l’interesse per il nostro Centro che sia pure con le sue risorse limitate è comunque presente nel dibattito, nelle iniziative che numerose ci sono in giro, riguardanti la diffusione della conoscenza degli avvenimenti della Prima guerra mondiale. Il tema  che verrà affrontato questa sera è abbastanza inesplorato, nel senso che non esiste una grande bibliografia al riguardo dei prigionieri e della prigionia. È una proposta che si inserisce nello spirito del nostro Centro, cioè quello di indagare, di offrire occasioni di conoscere argomenti poco trattati di quel grande evento che è stata la Prima guerra mondiale.
L’occasione di parlare di questo ci viene offerta dalla pubblicazione di Camillo Pavan, I prigionieri italiani dopo Caporetto e dall’autorevole presenza della dottoressa Marina Rossi, studiosa dell’argomento. Ringrazio per la loro disponibilità. Però, prima di passare… così, a dire alcune cose su queste due persone che sono con noi — del resto avete già il pieghevole-invito per cui molte notizie le trovate e sicuramente le avrete già lette — vorrei, così, dire alcune cose su – appunto - questi due nostri ospiti graditissimi e partirei da Camillo Pavan, anche se dovrei parlare prima della dottoressa, da cavaliere… ma preferisco parlare di Camillo perché è un po’ quello che ci dà l’occasione di parlare di questo argomento.
Credo, almeno penso, che alcuni di noi conoscano già Camillo, sia perché è un trevigiano Doc — non è “razza Piave” ma è “razza Sile” perché è nato in riva al Sile, o quasi — sia perché vi sarà capitato di incontrarlo a qualche festa o in Calmaggiore a Treviso con la sua produzione. Perché Camillo è uno storico un po’ particolare rispetto a quelli che siamo abituati a conoscere. Cioè Camillo pensa, ricerca, costruisce la sua opera, poi … ancora non la stampa, però la commercializza… quindi è un po’ una catena quasi completa. E questo non vuol dire assolutamente che i suoi prodotti non siano di qualità, anzi, sono stimatissimi e piacevolissimi.
Io ho conosciuto Camillo parecchi anni fa, nel 1985 in occasione non so se del primo tuo libro, ma deve essere stato il primo… Drio el Sil, un libro che ha avuto un ottimo, anzi direi un grande successo, che non si trova più in commercio, ma che vi consiglio di leggere e che tra l’altro ha vinto il premio Costantino Pavan di San Donà di Piave, un premio che — purtroppo — dall’anno scorso credo che non ci sia più, sulle culture locali, e un premio a livello nazionale, quindi era molto quotato, molto importante.
Da lì poi sono seguiti altri sul Sile, però noi siamo qui per parlare del suo interesse per la Grande Guerra, un interesse che accomuna probabilmente molti di noi a Camillo e [nel]la premessa che lui fa al suo libro Caporetto, stampato nel 1997, probabilmente ci riconosciamo in tanti. Soprattutto per le generazioni che hanno vissuto l’infanzia intorno agli anni Cinquanta dove i ricordi della Prima guerra mondiale o raccontati dalle testimonianze dirette di chi li aveva vissuti, o da chi li aveva sentiti o chi era presente comunque anche se bambino… cioè tutti abbiamo avuto questi ricordi trasmessi. Perché poi sapete che oggi raccontare non si usa più, neanche la scuola racconta più… c’è tutto il mezzo televisivo, e basta. Quindi non c’è più un rapporto tra il bambino e l’adulto, tra il figlio e il genitore e certe cose non si trasmettono più, certe conoscenze, se non sono i libri, se non sono altri mezzi di comunicazione… Quindi Camillo, questo sistema di farsi raccontare l’ha utilizzato anche nel libro che verrà presentato questa sera I prigionieri italiani dopo Caporetto. E non è che ha utilizzato solo le fonti orali, perché se si utilizzano solo le fonti orali è un po’ pericoloso, perché sappiamo che molto spesso sono esperienze soggettive per cui non colpiscono e non raccontano in maniera completa; però ha aggiunto a queste molte altre fonti per cui noi che le leggiamo possiamo metterle a confronto e trarre le conclusioni.
[Per] questo libro, vorrei anche ricordare che Camillo ha avuto anche un aiuto da Alberto Burato che ha curato un elenco, credo, interessante e originale sui campi di prigionia e sui prigionieri. Per cui ringrazio anche Alberto Burato.
Abbiamo chiesto alla dottoressa Marina Rossi di presentarci questo lavoro inquadrandolo in un contesto probabilmente più ampio, per aiutarci a capire, perché poi spero che tutti avremo occasione di leggere questo libro.
Marina Rossi è docente universitario presso l’Università di Trieste, e vorrei sottolineare che è un’amica del nostro Centro, grazie anche ai rapporti di collaborazione e di stima che la lega al dottor Bucciol (che è un po’ il nostro… la nostra anima nonostante non sia più presidente e che ringrazio anche in questo momento).
Ha sempre seguito le nostre attività. Vorrei ricordare qui il prezioso aiuto che ha dato alla collaborazione per la mostra e per il catalogo che è stato presentato a Oderzo l’autunno scorso sull’Albania, Fronte dimenticato della Grande Guerra. Una mostra e un catalogo estremamente interessanti. Vedete, anche qui, un tema che non è molto conosciuto e che grazie appunto al dottor Bucciol noi siamo riusciti a portare a chi naturalmente desidera conoscere queste cose. Perché molto spesso la risposta non è adeguata all’impegno e alla passione che uno ci mette. Comunque io ho avuto, così, la comunicazione proprio dal dottor Bucciol che questa mostra quasi sicuramente l’anno prossimo andrà a Vienna, e speriamo che giri anche in altri comuni. Perché tante iniziative del Centro sono più conosciute fuori i confini non solo di San Polo, ma fuori i confini addirittura della provincia, della regione, più che nel nostro territorio.
Comunque Marina Rossi è stata invitata stasera proprio per affrontare questo tema della prigionia, perché lo conosce molto bene, non solo per la Prima guerra ma anche per altri aspetti e altri periodi storici.
Scorrendo il suo curriculum scientifico, le cose più interessanti che ho notato io sono innanzitutto le collaborazioni, sia a livello nazionale che internazionale che lei intrattiene in particolare con i paesi slavi, con la Russia. Ricordo che lei è stata la — penso — la prima che abbia consultato gli archivi dell’ex Unione Sovietica. Quindi, di prima mano, è venuta a contatto con un fondo di straordinaria importanza e su questo ci ha lavorato.
Comunque io ringrazio di nuovo questi due nostri ospiti. Ringrazio voi e per non dilungarmi… passo subito la parola alla dottoressa Marina Rossi. Buon ascolto.


Marina Rossi, Università di Trieste


Io ringrazio il signor Scroccàro… «Scròccaro… »    [precisa l’interessato, e M. R. si scusa] e il signor Beltrame per avermi proposto questa iniziativa. Da tempo desideravo conoscere il Centro per la Documentazione sulla Grande Guerra di San Polo, è vero che grazie ai rapporti di collaborazione con Eugenio Bucciol è anche la terza volta per me, la terza occasione  di confronto con l’interesse della gente di questi luoghi sul tema della Grande Guerra. Una sensibilità che mi ha molto colpita. Ringrazio quindi anche il pubblico che pur così impegnato su tanti versanti dà prova di questa attenzione. È anche un’occasione felice per conoscere personalmente Camillo Pavan. Sapevo del suo grande lavoro; non ho avuto l’occasione quando è uscito il grosso volume su Caporetto di recarmi alla presentazione, però so che da anni svolge una ricerca preziosa, importante, che lo onora, che spazia dall'etnografia alla cultura di questi territori ad un amore per il tema, ma in quale senso? Credo nello stesso senso in cui lo intendo io e gli studiosi che lui ha citato nella bibliografia aggiunta a quest’opera I prigionieri italiani dopo Caporetto, cioè l’interesse d’indagare i lati oscuri della guerra, quelli rimossi, quelli più scomodi, quelli dimenticati però in nome di valori umani che la guerra, purtroppo, ha negato e continua a negare.
Io mi sono occupata per anni di prigionìe, certo non quelle dei prigionieri italiani, come ha fatto in questo caso Camillo Pavan e come ha fatto la Giovanna Procacci nel testo di riferimento fondamentale uscito con Editori Riuniti per la prima volta e poi edito ancora una volta, I prigionieri italiani nella Grande Guerra; uscito all'inizio degli anni ’90, nel ’93, e poi più recentemente ristampato. Mi sono occupata degli italiani sì, ma di italiani ignorati per decenni, gli italiani dell’esercito austro-ungarico, cioè degli ultimi sudditi — se così li vogliamo chiamare — del Regno d’Italia. Un argomento scomodo a sua volta che gli amici, gli studiosi di Rovereto, gli studiosi trentini, per primi avevano in qualche modo valorizzato aprendo nell’85 quel convegno e poi incoraggiando altri ricercatori italiani e sloveni del nordest d’Italia ad affrontare. Io ho voluto trasferire poi la mia ricerca all’incrocio di fonti soggettive, diari e lettere, con fonti archivistiche degli archivi russi e quindi mi sono trovata immersa in uno scenario bellico enorme, diverso dal fronte italiano. Ma è anche vero che Caporetto segna una svolta che si può paragonare o porre a confronto, in altri momenti in altri settori del fronte occidentale, ed anche di quello orientale.
Franco Cecotti, è un altro studioso di frontiera, triestino — un mio caro amico con cui ho lavorato sui diari della Seconda guerra mondiale, i prigionieri russi, uno era suo padre — ecco, ha pubblicato un testo che Camillo Pavan cita e che ha il merito (un testo uscito con la Editrice Goriziana di recente, che si occupa di profughi, di sfollati, delle vittime civili della guerra) ha il merito di aprirsi con un saggio che osserva alcune cose, che secondo me è bene tenere presente nella lettura del volume di Pavan. Ossia la voluta dimenticanza, l’oblio voluto per tutta una serie di ragioni, che sono politiche e storiografiche, dei destini, della storia delle popolazioni di frontiera. Lo sbando di queste masse di uomini che noi vediamo così bene evidenziato nel volume di Pavan — è veramente un percorso originale — che nessuno ha toccato, riguarda territori sensibili del Friuli orientale, dell’Isontino, della Carnia con popolazione slovena, si parla della val di Resia. Riguarda territori che poi sono divenuti fascia confinaria difficile tra il nuovo regno d’Italia, integrato di queste province acquisite con la vittoria del ’18 e lo stato jugoslavo nato a sua volta dalle ceneri dell’impero asburgico, il regno dei serbi, dei croati e degli sloveni. 
Il libro di Pavan è un’analisi che conferma certi dati essenziali e importanti non ancora, temo, di vasto dominio. Quanto la Procacci osservava a proposito di prigionieri italiani, beh non va — dal mio punto di vista — ad onore dei vertici dell’esercito italiano. È pur certo, studiando la guerra in vari settori, in vari scacchieri del mondo, che nessuna potenza in guerra ha trattato bene i prigionieri, che nessun esercito ami i propri prigionieri. Si è tanto parlato di guerra ideologica in Urss, delle sevizie vere  o presunte ai prigionieri italiani caduti i mano all’Armata Rossa, ma quale esercito ama i propri prigionieri? Si è parlato tanto [ … ] della disposizione di Stalin che obbligava il soldato sovietico a combattere, nella seconda guerra mondiale, altrimenti la famiglia avrebbe pagato con delle sanzioni, altrimenti sarebbe stato internato, eccetera, eccetera. L’Italia, il regno d’Italia non ha fatto questo, però si è comportato, il comando supremo dell’esercito italiano — il volume della Procacci lo conferma e ne dà ampia conferma per i territori esaminati dal Pavan — ha trattato duramente e severamente i prigionieri italiani. Pavan lo sottolinea, in questo anno difficile, arriveremo poi a discuterne, il fatale 1917, conferma la programmata volontà di non inviare pacchi della Croce Rossa ai prigionieri italiani rinchiusi nei campi di prigionia del’Austria, della Germania, ridotti a scheletri. Le foto impressionanti che ci sono nel volume lo confermano — avevo visto sequenze simili solo nei documentari originali provenienti dagli archivi di guerra della Germania e dell’Austria, che una volta in una rassegna a Trento dove io ho proposto le mie ricerche sugli archivi russi, sono venute fuori. Quindi una meditata volontà punitiva nei confronti del militare italiano, punito a sua volta dopo il ritorno in patria.
Nell'esaminare i punti così avvincenti, tragici ma avvincenti per il modo in cui Pavan tratta la materia, e per la bellezza e l’estrema varietà delle fonti che usa Pavan… Pavan ha svolto un lavoro enorme, che rivela una fatica di ricerca pluriennale. Ha trovato diari, ha trovato lettere, ha una bibliografia, ha trovato illustrazioni, si è avvalso dell’aiuto di Burato per una preziosissima cartina, quindi c’è anche un’appendice statistica, con numeri, cifre, scansioni, il lavoro più difficile e più ingrato, tremendo quello della ricerca dei nomi dell’identità di questi infelici avventurandosi appunto su aspetti veramente tragici della guerra di cui credo nessuno abbia avuto il coraggio di parlare con tanta chiarezza, così come lo fa lui.
Il “fuoco amico”. Noi ne sentiamo parlare, ahimè purtroppo, da undici anni con le nostre guerre in corso nel pianeta. Vi ricordato, il “fuoco amico” durante la guerra in Iraq nel gennaio del ’91. Il diario del marine americano, poi reso di pubblico dominio credo da Panorama, che quella volta avevo comprato e letto. Il “fuoco amico” di questi ultimi tempi in Afghanistan e in altri settori del nostro pianeta in fiamme. Ebbene, Camillo Pavan — a maggior ragione potevo esserne sensibile io — ce lo mostra così vicino a noi mentre questi poveri prigionieri italiani costretti ad avviarsi tristemente verso i campi di prigionia dell’Austria sono bombardati, così,  non si sa se volutamente — ma alcune fonti indicherebbero proprio questa intenzione — o per sbaglio dall'aviazione italiana. Siamo in Friuli. Perché, comunque, se sono prigionieri non sono stati dei bravi soldati. Quindi ci sono questi tristi episodi, quindi altri elementi che indicano l’irrigidimento del comando supremo dell’esercito italiano, di un insieme di … proprio una linea generale di comportamento dei comandi rispetto a questi uomini infelici. Che devono fare i conti con la popolazione civile man mano che attraversano il cividalese, soprattutto le aree miste a popolazione slovena, e non possono trovare durante queste lunghe marce sempre amore, comprensione, pietà, aiuto.
Eh no, il caro Pavan, sottende altri problemi importanti, assai poco conosciuti dall'opinione pubblica italiana, che ignora quasi, anzi ignora direi quasi del tutto, che gli sloveni del nordest esistono dal sesto secolo dopo Cristo. Quindi sono venuti prima di altri. La Serenissima, la repubblica di Venezia, quando nel XV secolo non riuscì ad annettersi la cosiddetta Slavia Veneta, il Cividalese, spiace a dirlo, ma si comportò più democraticamente rispetto a quanto ebbe a fare il regno d’Italia, dopo la guerra d’indipendenza del 1866. L’intento continuo, quasi ossessivo, purtroppo lo devo dire con obiettività di riscontri, attraverso vari studi e pubblicazioni, l’ossessività dell’Italia è stata sempre quella della snazionalizzazione rispetto agli sloveni. Dal 1866 ha ridotto le possibilità di istruzione. In questi ultimi anni — qui sarebbe bello però poter mantenere contatti più costanti, scambi su quanto esce anche in Slovenia — nella stessa Slovenia, all’università di Lubiana, si producono studi nuovi in questa direzione. Segnalerei, se interesserà anche al Centro sarà mia cura farglielo avere — è uscito ad esempio, credo tre anni fa lo presentai e anche lo recensii, un grosso volume doppio della rivista Qualestoria, La guerra sul Carso e sull’Isontino. In questo grosso fascicolo c’è un saggio di una giovane studiosa slovena, Petra Svoljšak, che indica come la preoccupazione del comando supremo del regio esercito, a partire dall'estate del ’15, nelle aree slovene, fosse quella appunto di snazionalizzarli subito, cambiando il nome dei toponimi, licenziando i maestri e imponendo l’insegnamento di cappellani militari. Poi nella linea del fuoco la popolazione civile viene trasferita in altre località del regno, in Emilia, quindi già si propongono delle linee, così, di negazione dell’identità culturale e politica di questa gente che non possono rendere ahimè simpatici i poveri militari italiani che sfilano nei dintorni di Gorizia o in altre parti.
L’ignaro fante italiano che arriva da chissà dove, contadino da luoghi lontani, rimane colpito o dallo sgarbo o dall'indifferenza  o quanto meno dalla scarsa comprensione per il suo dolore, così come in altra parte di questo lavoro si vede come l’occupazione degli austro-ungarici del Friuli orientale è intesa in buona parte della gente come una sorta di rivincita. Ah, son tornati i nostri! Chiaro. Secoli di presenza asburgica non si cancellano… Quindi l’interpretazione della guerra  così… nel segno del patriottismo italiano — lo dice bene anche Cecotti — la si legge nei monumenti, e non è casuale che il maggior numero di monumenti in pietra a ricordo della prima guerra mondiale esista proprio nelle aree di frontiera, Redipuglia, verso il Monte Santo, in territori che invece hanno sofferto di questo difficile rapporto, di cui hanno pagato le conseguenze anche i prigionieri che — beh, la fame c’era per tutti — ma si rendevano… erano consapevoli della ostilità o quanto meno della estraneità. Che poi Gorizia, anche questo è un argomento molto interessante, abbia avuto anche un fiorire dell’irredentismo, che ci siano stati casi di irredentisti che hanno disertato, che hanno attraversato segretamente la linea del fuoco per arruolarsi nelle file dell’esercito italiano, questo è anche un dato indubitabile. Io stessa ho esaminato diari di militari austro-ungarici che hanno accolto poi la proposta della missione militare italiana in Russia che mirava ad allontanarli dall'esercito austro-ungarico (come tutte le missioni alleate dell’Intesa, per — insomma — portarli dalla propria parte) e se li è portati nella guerra contro i bolsevichi. C’è anche questo. Però sono state minoranze. Il Goriziano, particolarmente la campagna del Goriziano ha espresso in ambito sloveno, anche tra i militari sloveni dell’esercito austro-ungarico, una fedeltà… un lealismo. Beh, Pavan conosce Panzera, che conosco anch'io  insomma abbiamo molti amici in comune, molti studiosi che conosciamo reciprocamente… allora tutte queste costanti questioni traspaiono. Meritorio, ripeto, questo desiderio di approfondimento che nasce, credo, da un bisogno di capire, perché altrimenti non andrebbe a toccare tasti così scomodi, così dolorosi.
Per parlare di Caporetto, io non sono una studiosa di Caporetto ma certamente ho dovuto occuparmene. Il Diciassette, anno fatale. All'inizio del volume c’è anche un’ampia nota, così, di discussione tra l’autore e Antonio Sema, che pure conosco da anni, Isnenghi, che conosco benissimo, un grande studioso della Grande Guerra, inevitabilmente lo si conosce per quello che ha scritto e anche per i rapporti diretti. Beh, in Russia c’è stata la rivoluzione, d’accordo e anche i deputati liberal nazionali del cosiddetto Partito dei Cadetti, già nell’estate del Quindici avevano paura di un incendio rivoluzionario; sapevano però, ohibò…  in tutta l’Europa in guerra, la stanchezza della guerra si avverte nel ‘17 e quindi non sono completamente d’accordo sulla necessità di negare la stanchezza della guerra.  Pavan comincia bene con quelle pagine in cui si parla della progressione del numero dei prigionieri da Caporetto al Piave, e mette la battuta “W l’Austria, W la Germania. La resa senza combattere” come espressione generale di una stanchezza nei confronti di una guerra che non vuol dire necessariamente essere espressione di una ideologia socialista. Non vuol dire un porsi contro in termini politicamente consapevoli. È sicuramente logoramento. Il logoramento, la sfiducia rispetto alle ragioni della guerra, la crisi morale — se così vogliamo chiamarla — ci fu. Che poi il generale Cadorna non fosse tanto gradito… non credo che revisionismo e antirevisionismi si permettano di negare gli atti dei tribunali, dei processi militari contro i disertori, le fucilazioni dolorosissime imposte da Cadorna.
La scorsa settimana a Trieste si è celebrata la Festa dell’Esercito, forse qualcuno c’è andato o avrà visto in televisione. Io ho partecipato a una tavola rotonda in cui c’era l’ufficio storico che ha promosso il tutto e ho sentito un anziano generale — anziano, insomma, non certamente di quest’epoca, ma anziano protagonista della Seconda guerra mondiale — così, esaltare il patriottismo evocando le canzoni di guerra in onore di Cadorna. Ma dalle nostre parti, dove sul Carso morivano i pastori e i contadini sardi si cantava la strofa: «Il general Cadorna ha detto alla regina / se vuoi veder Trieste / guardala in cartolina…» … «Bim, bum, bom, al rombo del cannon… »  fa il ritornello. C’erano anche strofette più irriverenti che per motivi di eleganza non citerò pubblicamente!
Quindi c’è l’esasperazione nei confronti della guerra. Né è possibile paragonare la realtà interna dei singoli paesi a quella della Russia. Mi compiaccio con Pavan, che nel libro ha compiuto anche uno sforzo  di raccordo, di collegamento tra quella che è la stanchezza, l’imponente numero di prigionieri citati dalla Procacci — 300.000 prigionieri dopo Caporetto — alla crisi che si avverte all'interno dell’impero asburgico. Un impero in cui la gente soffre la fame e che sarà scosso subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre da grandi scioperi politici, gli scioperi del gennaio del Diciotto, da ammutinamenti — ricordo quello della baia di Cattaro — rivolte militari, su cui io stessa ho pubblicato articoli in questi anni. Quindi c’è questo scenario enorme di crisi. C’è il problema delle diserzioni che si verificò anche in Francia, si verificò anche in Inghilterra. Negli anni Sessanta, fine anni ’60- ’70, quando gli umori politici nel nostro paese erano diversi apparivano nei cineclub filmati inglesi su processi militari Per il Re e per la Patria, non so chi di voi l’abbia visto, credo sia stato Losey… Per non parlare dei classici Niente di nuovo sul Fronte Occidentale (All'ovest niente di nuovo), Orizzonti di gloria, ecc, ecc. Si discuteva molto. Oggi si parla meno, perché gli umori sono diversi, di fatto c’è un ritorno, direi, alla esaltazione della guerra e quindi una difficoltà di discutere in altri termini su quelli che sono invece i fattori umani.
Io, nelle mie ricerche, mi sono messa dalla parte delle vittime della guerra; non i profughi di cui oggi si discute tanto, ma il militare semplice. Lo dice bene, … nella prefazione del mio volume lo stesso Isnenghi, dicendo di me dice: «Cosa importa essere italiano, ceco, austriaco o croato… ». Cioè, il mio sforzo non è quello… non è una connotazione necessaria dal punto di vista nazionale. Cioè la mia identità nazionale è intesa come identità culturale, lingua, cultura, stato d’animo, radice… ma non come scontro nazionalistico o presunta superiorità o inferiorità dell’uno verso l’altro. Quindi la guerra produce scardinamento, distrugge… , un meccanismo che stritola le vite individuali e l’essere umano si trova… — beh, Mosse lo cita anche lui, ci sono grandi studi a livello europeo — è una rotellina di un ingranaggio impazzito che non può controllare. Quindi io mi pongo dalla parte delle vittime, di chi la guerra l’ha subita e non l’ha voluta, anche come soldato. Credo che Pavan indicando questa ricerca dopo la tragedia, le varie forme di difficoltà  e sofferenza di questo torrente composto da centinaia di migliaia di prigionieri che Caporetto viaggiano attraverso queste zone particolari, verso l’Austria, li vede in marcia colpiti dal “fuoco amico”, li vede in difficoltà nei rapporti con il nemico  — in quel caso l’Austria — in difficoltà con le popolazioni… Parla dei campi di prigionia, della vita all'interno dei campi distinguendo…  — anche questo è un dato nuovo rispetto alla ricerca di Giovanna Procacci, che conosco bene e con cui anche intrattengo rapporti da anni — per la prima volta pone al confronto anche il prigioniero italiano rispetto agli altri alleati nei campi di prigionia. C’è differenza? Sì, stando a Pavan, c’è anche questa differenza. Ogni esercito ha le proprie difficoltà e variamente considerato a seconda degli effettivi rapporti delle potenze. Sono i rapporti di potere, dei vertici, che influiscono. Poi anche tra prigionieri influisce il fattore umano. Ci potrà essere il prigioniero generoso e quello che ruba tutto. Il prigioniero che sogna che gli regalino un pezzo di pane e quello che ruba tutto a lui se vede la casa abbandonata o ràzzia, fa di tutto… 
Non voglio ricordare… anzi, mi viene… proprio la provocazione, dato che anch'io lavoro molto anche sulle fonti soggettive… in mente la disillusione di Emilio Stanca. Nel mio secondo volume — che è dedicato proprio all'identità nazionale, culturale, politica di italiani, sloveni e croati al fronte orientale, e al problema del rimpatrio — c’è tra i vari personaggi che spesso ricompaiono un triestino, Emilio Stanca, il quale è innamorato dell’Italia, pur essendo prigioniero, pur essendo soldato austro-ungarico prigioniero dei russi, ha questa idea molto bella dell’Italia. Al suo rimpatrio dalla Russia si ritrova a Vienna in treno con i prigionieri italiani che a loro volta, nel corso del 18, dopo, nell'autunno del ’18, a torrenti rientrano in patria. La prima delusione è quella. Proprio un italiano gli ruba lo zaino e tutte le fotografie dal fronte che lui era riuscito a conservare, dal ’15, nonostante gli attacchi, le peripezie e le sofferenze, i vari campi di prigionia, il lavoro coatto in maniera nelle zone occupate dagli austro-germanici, in Ucraina nell'estate del ’18. Ahimè, proprio un italiano… ecco, è già un disincanto. E dalle fonti che io cito in quel volume si nota che il maggiore disincanto rispetto all'Italia è avvertito proprio dagli irredentisti dell’esercito austro-ungarico: dalmati, triestini che hanno scritto autobiografie e che sognavano l’Italia, poi ce l’hanno… E dicono … c’è Arrigo Arneri, un marittimo, che dice: «Eh, la nostra Italia era un’Italia sognata, ma in realtà che cosa aveva di diverso rispetto all'Austria ». Monarchica, come l’Austria. Cattolica, come l’Austria. Con minori libertà però rispetto all'Austria, perché almeno l’Austria era il paese del , del ja e del da e quindi le scuole e l’istruzione, tante piccole cose ci potevano essere. Quindi c’è questa difficoltà, nei territori di frontiera, che porteranno a gestioni non meno critiche nell'immediato dopoguerra. Poi c’è il precoce avvio del fascismo che, in qualche modo, inevitabilmente devono essere collegate a questa inedita ricerca sui luoghi di guerra compiuta da Pavan e che riguarda proprio territori a me così vicini. Si parla dell’ultimo lembo del Friuli occidentale, Udine dove c’erano i comandi, i luoghi di transito, un orribile campo di concentramento di prigionieri a Cividale, poi via via le lunghe marce nelle aree mistilingue, poi Laibach (Lubiana) fino alla vita interna ai campi che conferma uno stato di disagio generale ed una disumanità, particolarmente quella germanica, che sembra far preludere quasi ai campi di concentramento futuri. A vedere le fotografie impressionanti di quei corpi scheletriti di questi prigionieri noi pensiamo alla Seconda guerra mondiale. In effetti la Grande Guerra, prima guerra di massa nella storia del’umanità prepara il sistema concentrazionario nei campi di prigionia. E qui è importante collegare quanto scrive Camillo Pavan, e paragonare questo ad altri campi.
Io ho cercato proprio con la Procacci, discutendo del suo libro, si paragonava la prigionia dell’Austria e della Germania a quella della Russia. Nessuno ha  nulla da invidiare all’altro. Certo la crudeltà germanica sembra studiata. Mentre in Russia, per dire, la povertà era comune a tutti, il prigioniero soldato semplice godeva dello stesso rancio del soldato semplice russo. A volte stava meglio lui del soldato russo. L’ufficiale, in base alla convenzione dell’Aja che era stata sottoscritta anche dallo zar Nicola nel 1907, invece, godeva di un trattamento di favore, superiore a quello di un ufficiale dell’esercito zarista. Nel mio libro I prigionieri dello zar parlo di un diario di un fiumano, un austro-ungarico di fiume il quale si cucina una bella gallina, perché aveva il soldo e per capodanno se la mangia con i soldati; i suoi guardiani prendono una bella pantegana, arrostiscono quella e buonanotte al secchio! Sempre carne è, a la guerre comme a la guerre!
Mentre nel volume di Pavan si vede come da parte austriaca, o anche austro-germanica, ci siano frequenti violazioni di quelle che sono le norme di diritto. Lo stato di diritto del prigioniero, come sancito dagli accordi internazionali, non è osservato per quanto riguarda l’alimentazione. Si capisce che c’è la fame  — la fame in Austria è stata tremenda, nella Prima guerra mondiale e subito dopo — ma ci sono condizioni di disagio, di rigidità, cui peraltro non viene minimamente incontro il comando supremo dell’esercito italiano, che rimane fino all'ultimo convinto di dover punire questi prigionieri.
Io parlo dei ritorni e di altri periodi di internamento coatto. Per i reduci dell’esercito austro-ungarico, dalla Russia e dal fronte balcanico la Procacci parla anche lei di campi di rieducazione per prigionieri italiani in altre località insulari e peninsulari. Si parlò in un primo momento addirittura di un internamento in Libia, nelle colonie. Quindi, in questo sfascio, in questo scardinamento generale della guerra va valorizzata la estrema originalità di questo volume, il coraggio ripeto di toccare piaghe dolorose, di entrare nei cosiddetti buchi neri della storia — come li definivo l’altro giorno parlando per telefono con l’autore — tasti difficili… Tanto più coraggioso, credo questo volume in un momento politico come questo. Purtroppo la politica incide nell'interpretazione storica. Se noi scegliamo di essere studiosi, coraggiosi, liberi, dobbiamo anche tener conto che, insomma, sarà anche più difficile la discussione, l’accettazione di quanto si fa. Però, per me, il lavoro di Pavan è un lavoro di grande valore, tenendo conto delle motivazioni — anzitutto — perché lui lo fa per un bisogno interiore. Quindi una ricerca doppiamente meritevole, per la fatica che gli costa, ma molto meritevole per il coraggio di toccare punti effettivamente poco indagati. Se per la prigionia russa sono usciti diversi saggi, io stessa sono immersa come pioniera in questo ambito, pubblicando varie cose, per quanto riguarda l’Italia sono d’accordo che — al di là del lavoro della Procacci e questo volume di Pavan ci sia……


(Lato B dell'audiocassetta)


… lo provocherei però su un punto, e cioè chiedo più che altro una spiegazione… mi piacerebbe anche in sede di dibattito, ma spiegherà meglio lui, ora, quello che è stato il suo progetto. Che cosa ha voluto dimostrare? Come vede lui l’identità di questi prigionieri? Io vedo un’insistenza molto forte, sul tema nazionale. C’è questa identità italiana di questi militari che periodicamente viene ad urtarsi o con il nemico austriaco — i rapporti tra i nemici difficilmente possono essere buoni — ma io aggiungerei un’altra cosa: i rapporti tra italiani e austriaci non erano buoni neanche nell'esercito austro-ungarico, indipendentemente dalla scelta politica del singolo ufficiale italiano che andava alla scuola di addestramento nelle retrovie a Rakensburg o in altre scuole, perché c’era una particolare durezza almeno nella ‘ufficialità’, un’estraneità  anche di cultura, di psicologia, e quindi son d’accordo. Assai più facile il confronto, i rapporti tra italiani, tedeschi, austriaci e serbi, croati, sloveni, cechi, ruteni con i russi. Effettivamente posso capire che questa difficoltà, questo disagio possa corrispondere.
Poi sulle ragioni di quest’opera, i bisogni di ricerca che hanno spinto Camillo Pavan a compiere quest’ulteriore fatica, dopo un tomo cospicuo — ho visto l’altro suo su Caporetto — sarebbe giusto che adesso cedessi la parola a Camillo e poi proseguiremo anche con le vostre domande.
Vi ringrazio per l’attenzione.

Camillo Pavan


Qui viene sempre il momento critico… perché io non sono assolutamente abituato a parlare, lo dico subito, mi dispiace, non voglio deludere. Quello che devo dire lo scrivo e ce la metto tutta per scrivere e spero di aver fatto un bel lavoro. D'altronde  a quanto dice la professoressa Rossi sembra che sia proprio un bel lavoro, e io sono orgoglioso che lo dica lei che è una studiosa vera e propria della guerra e di questi problemi delle aree di confine così tragici che sono stati.
Io non mi considero un vero e proprio studioso. Non so neanch'io cosa considerarmi. Forse un cronista più che uno studioso. Perché mi sono trovato a occuparmi della Prima guerra mondiale in maniera puramente casuale, all'età di quarantasei anni. Quindi non ho un retroterra di laurea in storia, o di studi particolari. Mi son trovato sull'argine del Piave un bel giorno, alla sagra di San Romano, il 22 agosto a Negrisia, ho trovato questo vecchio … Francesco Daniel, del 1908 (ed era nel 1993) e mi diceva: «Ciò, no te ricordi, varda che qua noantri scampaìmo co le pallottole de i tedeschi che me sparava… ». Io rimanevo lì a bocca aperta e mi dicevo: «Ma senti cosa mi racconta questo signore». Mi sembrava proprio di toccare con mano la storia. Perché erano cose che sì, avevo sentito raccontare da mio padre, della Seconda guerra mondiale. Ma della Prima guerra mondiale erano cose che si sono studiate a scuola, e che si sentiva raccontare dai nonni. Ma non credevo che ci fossero ancora delle persone vive che le sapessero. E da lì è partito questo mio assolutamente estemporaneo – se vogliamo – interesse per la guerra mondiale. Prima mi ero occupato del fiume Sile, dove abito, del radicchio rosso di Treviso; mai e poi mai avrei pensato di interessarmi della Prima guerra mondiale.
Quindi anche tutte queste domande che lei mi fa, cosa voglio dimostrare, cosa … io — sinceramente — non so cosa voglia dimostrare. Io voglio studiare, capire come è funzionata, come è stata questa tragedia che ha coinvolto le nostre popolazioni. Questa guerra che c’è stata nel cortile di casa, come suol dirsi. Questa guerra che per un periodo sembrava lontana, nel fronte dell’Isonzo, tanto è vero che la vita continuava tranquillamente, per chi almeno non aveva parenti diretti in guerra. Se si leggono i giornali fino al 1917, fino all’ottobre ’17, i teatri funzionano tranquilli, le scuole idem, tutto procede normalmente, come se la guerra non ci fosse.
Poi venne questo patatràc, questo dramma, questo improvviso crollo di Caporetto e allora ci si accorse anche qui nel Veneto, nel Friuli prima e nel Veneto poi, e in particolare qui nel Piave, che la guerra toccava tutti, tutti. E si dovette scappare. Come raccontava quel signore, chi poté riuscì a scappare, chi non poté come nel suo caso, rimase sotto il dominio dell’occupazione austro-ungarica. Fu un anno terribile, l’anno della fame. E da qui è partita l’esigenza di questa ricerca. Una ricerca che inizialmente fu basata su testimonianze orali. Con questo registratore intervistai una quarantina di persone ... del’99, del ‘900… e avevo raccolto un bel malloppo di interviste, ed ero pronto a uscire nel 1995 con un libro che più o meno s’intitolava “In fuga dal Piave”.
Però, mal me n’incolse, volli andare a Caporetto perché dicevo: «Sì, il Piave…, è successo sul Piave, ma non si può capire il Piave, se non si capisce Caporetto, perché prima c’è stata Caporetto». Andai a Caporetto, trovai questo bellissimo museo — non so se siete stati anche voi — e lì trovai i dirigenti del museo… In particolare trovai che il proprietario della casa in cui sorge il museo, un certo Slavko Mašera, era vivo e vegeto e ricordava quando, bambino, vide arrivare i soldati italiani, cioè i nemici. Quindi vidi la storia da un altro punto di vista, dal loro punto di vista. E questa fu la prima delle contraddizioni. Vidi che poi anche le pubblicazioni da parte austriaca, parlando di Caporetto parlavano del “miracolo” di Caporetto (il generale Krauss); per noi è la disfatta. Sinonimo della più tremenda disfatta è Caporetto, tuttora. "La Caporetto della nazionale", "la Caporetto di D’Alema", "la Caporetto dell’economia"… Per loro invece è il “miracolo” di Caporetto.
E allora qui mi son messo proprio a vedere da due punti di vista. Infatti nel primo volume ho soprattutto trattato questi problemi delle identità nazionali — sempre nei limiti in cui sono capace di farlo — e in particolare ho fatto tradurre da una professoressa che abita a Caporetto e contemporaneamente anche a Venezia, la professoressa Ferianis Vadnjal (che era originaria della zona, slovena)… mi son fatto tradurre un giornale che era il più letto all’epoca, lo Slovenec, e ho messo in confronto il Corriere della Sera e lo Slovenec. Seguendo questi due giornali ho analizzato lo svolgersi della battaglia  di Caporetto, i primi quattro giorni della battaglia di Caporetto, 24, 25, 26, 27 ottobre 1917, lo sfondamento vero e proprio del fronte. Questo è il primo volume.
Il secondo volume … che pensavo di fare subito dopo, ho dovuto rimandarlo per motivi che potrete leggere eventualmente nella postfazione: motivi prettamente economici. Perché io pensavo, come già con il Sile, di poter vendere tranquillamente questo libro in giro per le fiere, per le sagre, e invece non fu così. Il libro non ha… gli appassionati della Prima guerra mondiale ci sono, e sono anche molto appassionati, di solito, però non sono tantisimi, e quindi il libro non ebbe questo successo editoriale ed economico che io mi aspettavo. Non ebbe neppure un successo da un punto di vista istituzionale. Tanto è vero che avevo preparato un cinque-seimila volantini depliants — con un costo di svariati milioni di lire — che ho spedito alle varie biblioteche d’Italia e a un certo punto dopo tremila e settecento volantini spediti e trentasette copie ordinate ho dovuto fermarmi altrimenti mi mangiavo anche la camicia, come suol dirsi.
In poche parole tutto questo mi ha bloccato un po’ nel lavoro. Io dovevo uscire con tre volumi … come si dice, sì … belli grossi come il primo che ho fatto, ma ho dovuto fermarmi e pubblicare questa parte del secondo volume, che [...] in origine questo doveva essere un capitolo del secondo volume. Dedicato fra l’altro a un argomento che non conoscevo. Perché, come diceva giustamente la dottoressa Rossi, dei prigionieri italiani si sa molto poco, della Prima guerra mondiale. C’è stata questa grande opera della Procacci, e poi … sinceramente non conoscevo neanche il suo volume [ … di Marina Rossi: I prigionieri dello Zar, Mursia, Milano] che è uscito proprio nel 1997, in concomitanza con il mio. 
Comunque per me è stata un’assoluta sorpresa … e ho scoperto questo dramma dei prigionieri quando nel 1998 sono andato — sempre proseguendo nelle mie ricerche — a Pieve Santo Stefano, dove esiste l’Archivio Diaristico Nazionale.  E lì sono conservati tremila e passa diari, all'epoca,  adesso saranno molti di più, fra cui un centoventi circa parlavano della Prima guerra mondiale. Diari di soldati, diari normali, di gente comune… tutti possono mandare, se hanno un diario a casa, possono mandarlo lì: verrà schedato, poi messo da parte, pubblicato anche l’indice in internet, quindi messo a disposizione di un vasto pubblico… In poche parole leggendo questi diari mi sono accorto del dramma dei prigionieri [...] E lì ho pensato: «Ma come, … vàrda che roba!». Io proprio non pensavo neppure, perché nel piano originario del lavoro, pubblicato all'inizio del primo libro, il secondo volume era dedicato alla ritirata vera e propria militare dei soldati italiani, alla resistenza che c’è stata al Tagliamento, ai vari episodi di resistenza… ai profughi, ma dei prigionieri non pensavo di parlare. Invece questa massa di prigionieri, enorme, in fuga verso il cuore dell’Europa centrale, attraverso queste aree mistilingue, erano una cosa che meritava… ed è emersa proprio dalla lettura di questi diari, come si dice, inediti, conservati lì. Ecco quindi, ho preparato un capitolo e nel frattempo speravo sempre di trovare finanziamenti, di trovare la possibilità… ho scritto a vari enti Provincia, Regioni, Comuni… chi ha voglia di guardare il sito internet può vedere tutta la corrispondenza che ho tenuto in questo periodo, nessuno mi ha mai risposto, e a un certo punto l’anno scorso, nel 2001, ho detto: «O chiudo completamente questa ricerca, iniziata con tanto entusiasmo a suo tempo, o mi rassegno a pubblicarla così, in tono ridotto, sui prigionieri». E così ho fatto.
Ho fatto questo libro sui prigionieri, e ho avuto la fortuna di trovare il signor Alberto Burato, che mi ha scritto un capitolo molto interessante dedicato proprio all'elenco dei campi di prigionia (di quelli che si conoscono). Lui ha studiato in particolare questo argomento e aveva anche delle fotografie in seguito alla ricerca che aveva fatto sui caduti del suo paese, Guarda Veneta; si era messo in contatto con le varie ambasciate, con i vari organi ministeriali, il ministero della difesa, OnorCaduti, e così è venuto fuori questo libro che tutto sommato è accettabile. Però non è il libro che io volevo fare, sinceramente, e quindi… mi trovo un po’ in imbarazzo anche a rispondere alle domande. Tutto qui.
Se voi avete altre domande da dirmi, da farmi, io rispondo. Spero comunque di poter continuare nella ricerca, perché soddisfazioni dal punto di vista così… critico, ne ho avute; la dottoressa Rossi è l’ultima persona che me le ha fatte, prima c’era stato il suo collega Salimbeni di Trieste, nella presentazione precedente. Anche il professor Lanaro di Padova aveva parlato bene di me. Però, c'è questo problema …
Ed è per questo che, prima di chiudere, volevo ringraziare gli organizzatori del Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra che mi hanno dato l’opportunità di far conoscere anche a questo pubblico il mio lavoro.
Voglio ringraziare in particolare il presidente attuale Luigino Scroccaro, cui — come ricordava lui stesso — mi accomuna anche il percorso di ricerca, della storia dei paesi. Mi ricordo ancora quel convegno nell'85 o nell'86 ... “Storia di Paesi e Paesi nella Storia”. Ci siamo trovati tante volte in archivio di stato a Treviso, entrambi abbiamo scritto sul nostro paese di origine, lui su Marcon, io su Sant'Angelo e Canizzano, poi sul Sile e poi entrambi — inevitabilmente — siamo venuti a confrontarci con questo drammatico evento che è stato al Grande Guerra, che ha sconvolto le nostre zone. Lui, come ben sapete, ha studiato gli alpini di Treviso, ha studiato poi anche un cappellano militare, adesso ha in corso una ricerca — e non voglio anticipare niente — su un diario inedito … e quindi ecco che inevitabilmente dovevamo anche incontrarci. E lo ringrazio proprio per avermi chiamato, perché è la prima presentazione, diciamo, di una istituzione, che viene fatta del mio lavoro. Finora ci sono state queste due presentazioni in una libreria, alla libreria Borsatti di Trieste e alla libreria Feltrinelli di Padova, e questa è la prima presentazione di un ente, non so come si possa chiamare, questo istituto che si occupa della Prima guerra mondiale.
Volevo ringraziare anche — l’ho visto prima — il signor Bucciol, che mi aveva tradotto per il primo volume un pezzo importante di un giornale austriaco (io purtroppo le lingue non le conosco, conosco bene il veneto, poi traduco in italiano simultaneamente, ma più in là non vado). E, ovviamente, ringrazio l’anima di questo Centro, che è Antonio Beltrame di questo. Conosco anche lui dal 1989, era già in attività quando nell’89 ho avuto un premio per una sezione del premio Gambrinus dedicata alla storia locale, qui, sempre per i miei libri sul Sile. 
Ringrazio voi tutti, se avete qualcosa da dirmi, da chiedermi, più in particolare, me lo chiedete. Tutto qui.

Luigino Scroccaro


Non so se qualcuno desidera  porre delle domande, comunque Camillo è venuto spesso agli incontri, quindi è di casa al nostro Centro, spesse volte l’ho visto ai vari incontri che sono stati organizzati.
Ecco, volevo ringraziare anche la presenza dell’assessore, che mi sono dimenticato. Assessore, lei è il padrone di casa, quindi… che ci ospita, che ci dà il sostentamento.

(Intervento non comprensibile, per mancanza di microfono per il pubblico)
Altro intervento di uno spettatore: pressoché incomprensibile, per lo stesso motivo.
Idem per l’intervento del sindaco di Ponte di Piave… cui risponde Marina Rossi.

Se mi permette, lo studio approfondito della Procacci, che si fonda su documenti riservati del Comando supremo, indicherebbero comunque un particolare rigidità, un accanimento del generale Cadorna, e una particolare , proprio, ossessione rispetto alla paura così della non accettazione della guerra, contro i disertori, al punto che purtroppo è un dato unico, solo l’Italia ha rifiutato, non ha permesso che fossero inviati i pacchi della Croce Rossa ai prigionieri, c’è stato un sabotaggio dei treni con i viveri… Negli altri… perfino nella lontanissima Russia, magari a cavallo, il prigioniero si vedeva recapitare i soldi di casa. Magari non so dopo quanti mesi, però arrivava. Qui proprio c’è stata la volontà. La Procacci denuncia questo stato di cose, che non ha fatto piacere, per quanto sia una studiosa stimatissima, al momento neppure lo storico Rochat era molto felice, perché appariva nuovo, ecco, questo rigore. Poi, sono d’accordo, che nel quadro comparativo, insomma, tra l’uno esercito e l’altro c’è stata poca differenza, così come le diserzioni, l’insofferenza rispetto alla guerra sia stata generalizzata. Ma Caporetto cade in un momento difficile per l’Italia. Non dimentichiamo che in Italia esisteva comunque un partito socialista molto forte prima della guerra. Una componente era interventista, favorevole. Pensiamo a Emilio Lussu, che poi per primo nel suo diario, nella sua autobiografia Un anno sull'altipiano ha denunciato varie cose. Però, insomma, un’opinione pubblica, uno spirito pubblico contro la guerra  in Italia era molto forte. In agosto sono scoppiati scioperi politici contro la guerra. Una studiosa purtroppo prematuramente scomparsa, Simonetta Ortaggi, che si è occupata ripetutamente di queste cose, già al convegno di Rovereto ne discusse, fra l’altro aveva uno scambio molto proficuo con la stessa Procacci. Quindi c’è sicuramente anche una parte dei militari italiani che, insomma, ha disaffezione, non condivide più la causa della guerra. Poi errori de comandi, non ne parliamo, sicuramente ci potranno essere stati. Ma, per dire, l’effetto di… l’onda di Caporetto, l’onta di Caporetto viene sfruttata addirittura in Russia, dopo lo scoppio della rivoluzione d’Ottobre, nel novembre del ’17 presso i militari dell’esercito austro-ungarico di lingua e idealità italiana per convincerli ad entrare nel Corpo di spedizione italiano. Io, nel mio secondo volume Irredenti giuliani cito proprio l’appello di un ufficiale fiumano, Baccich. Poi ci sono state storie strane, Baccich, Zanella, gente che doveva in realtà entrare nell'esercito austro-ungarico ma è entrato nell’intelligence dell’esercito italiano per vie avventurose, e quindi su questa “vergogna di Caporetto” cerca di stimolare l’arruolamento tra prigionieri e, secondo le testimonianze di un altro soldato istriano di Capodistria, seicento prigionieri, allora, a Volgograd, proprio quando si discuteva a Caporetto il famoso convegno. Lei cita Isnenghi e alcune frasi che ha pronunciato come di revisione rispetto alle sue interpretazioni su Caporetto, io invece mi trovavo proprio a Volgograd a un altro convegno sulle prigionie perciò non son venuta a Kobarid, ma quella disgraziata città, perché ha segnato tante sventure e speranze negate di rimpatrio per gli austro-ungarici di lingua italiana, … e, insomma, è famosa in questo diario per questo appello che sfrutta Caporetto per incentivare lo spirito, così, di lotta al fianco dell’Italia.
Poi il Diciassette non ne parliamo, quest’area qui è interessantissima. Io mi compiaccio per la passione che c’è nella gente, in voi, negli altri dibattiti cui ho partecipato, e anche l’amore stesso di Pavan, Bucciol e altri amici che conosco… sento anche Luigino Scroccaro che ha questa passione di ricerca, ma … sono posti in un’area densissima di reazioni e di avvenimenti. È una guerra infinita che presenta sempre aspetti inediti. Se pensiamo che il Piave, quanto c’è ancora da dire sul Piave. Chi ha studiato la tragica sorte dei legionari céchi, chi ha studiato le rivolte militari all’interno dell’esercito austro-ungarico, degli sloveni, per ragioni nazionali ma anche per ragioni sociali. C’è un universo estremamente articolato e complesso però proprio per questo prezioso, per le sorprese che continuamente ci riserva.

Pavan

Volevo cogliere al volo la parola del signor sindaco di Ponte di Piave, visto che il prossimo anno mi occuperò, se Dio vuole, in un terzo volume dei profughi — proprio — … eh mi farò vivo, così chissà che mi dia una collaborazione, magari un acquisto di copie, non so, per le scuole, per le biblioteche… qualcosa si può fare, insomma…

Sindaco di Ponte di Piave

Questo è certo, ma io pensavo a un interesse più vasto, siccome ci troveremo lunedì con gli altri sindaci perché abbiamo altri problemi, ma questo è uno dei punti cardine del nostro interesse per il Piave. Quindi più volte abbiamo ripetuto sull’opportunità, anzi sulla necessità direi di far [ … ] perché questi impegni non vadano disseminati, trovino un punto di riferimento. Adesso non per campanilismo. Anzi, si tratta di collaborare, di trovare un’opportunità per un’informazione, per una documentazione che sia fruibile da tutti ma che abbia un punto di riferimento , per questioni logistiche, per questioni anche proprio di economia. E questo mi entusiasma, credo che… io mi auguro che ne possiamo [ … ]

Marina Rossi


Vorrei aggiungere ancora una breve cosa e così per il nostro autore. Oltre alle ragioni scientifiche e di ricerca, questo volume mi ha appassionata sia per la vicinanza geografica dei luoghi ma anche perché mio nonno è stato giovanetto del Piave, anche decorato, e quindi quando ero piccola — purtroppo allora nessuno si immaginava che sarebbe stato meglio prendere un’intervista col registratore, allora non si usava — mi ha raccontato quante volte, delle battaglie, della costruzione di ponti, di genieri…  e poi essendo romagnolo si è trasferito a Trieste con un amico che costruiva proprio ponti di barche sul Piave. Quindi lui, mia nonna, insomma… la Grande Guerra, ecco per me è nata sul Piave, si può dire, proprio per questa prima memoria che ne ho ricevuto e sono doppiamente felice  e riconoscente per voi che mi date questa occasione di alimentare questa storia…

Pavan


Per rispondere un attimo solo [ … al precedente intervento di una persona del pubblico]. Io non sono molto preparato oltre i quattro giorni della battaglia di Caporetto. Però non è del tutto vero che si sono arresi senza combattere così… C’è stata anche una… cioè, bisogna anzitutto ricordare che c’è stata una preparazione austro-tedesca della battaglia che ha colto assolutamente alla sprovvista i nostri comandi militari [ … ] Che altro potevano fare [i soldati italiani]?. Io ho riportato un diario di un combattente che proprio lo vedevi convinto di resistere col fucile in pugno a Codroipo. Si trovò circondato da una marea, ormai… e cosa poteva fare, se non arrendersi? [ … ]
Comunque io ho notato anche una certa somiglianza su questa tesi, a proposito di tradimento … di Lichem, il barone Lichem che ha scritto sulla guerra, quando si chiede perché gli austro-ungarici arrivati qui sul Piave si siano fermati, dice che è stato un tradimento. «Io lo so perché ho parlato con il generale tal dei tali, dice, un testimone — Siamo stati traditi! … ». In realtà quando c’è una sconfitta si tende sempre a dar la causa a qualcos’altro… Io non credo assolutamente a questa ipotesi…     [ … ]

Seguono tre altri interventi dal pubblico, poco comprensibili in audio, per mancanza di microfono.

Scroccaro


Se non ci sono altri interventi… Io ringrazio prima di tutto i nostri ospiti, ringrazio chi è intervenuto, chi ha partecipato e credo che la proposta del sindaco di Ponte di Piave… — io sono di un’altra provincia e quindi non conosco i sindaci trevigiani — credo che sia interessante che le forze vadano unite, che non ci sia una fabbrica ad ogni campanile, che non ci sia un museo ad ogni campanile, perché s disperdono le forze e i risultati dopo sono più o meno simili ma non sono come quando si fa la forza…
Assessore [del comune di San Polo di Piave] a lei la parola.
«Sì, intervengo per fare il saluto finale … quanto lanciato dal sindaco di Ponte di Piave, diciamo ci permetterà di mettere un po’ di carne al fuoco su quello che è l’intervento del nostro comune e della biblioteca su questa attività. Abbiamo cercato, abbiamo mandato messaggi … per non aver questa dispersione, anche con collegamenti con la Provincia. Ci sono state delle risposte positive e stiamo cercando di dare, di far emergere dei lavori, delle situazioni… e quanto da lei esposto speriamo possa servire anche per collegare qualche paese qua attorno… ».

sabato 6 aprile 2013

Silvio Lanaro (Università di Padova), 1998 - Presentazione "Caporetto" di C. Pavan



Silvio Lanaro (sotto un poster di Feltrinelli) e, a sx., Camillo Pavan



Padova, Libreria Feltrinelli, Venerdì 5 giugno 1998
                                                        
(Trascrizione integrale)         

Il quarto d'ora accademico ormai è passato, chi c'è c'è; d'altronde in questa saletta, che io amo molto perché mi ci sono trovato parecchie volte con amici a presentare libri, tutto è sempre avvenuto in modo molto familiare, molto intimo, fra pochi insomma, anche perché pochi sono i posti. Questo non è un luogo che richiami le masse, non è fatto per questo: è fatto per chiacchierare in modo un po' salottiero, nel senso positivo del termine, attorno a libri che ci interessano.
Questo libro di Camillo Pavan, che Camillo Pavan ha in parte scritto e in parte curato, coordinando la collaborazione di altri studiosi è un libro davvero — e lo dico senza nessuna forma di finzione retorica o di riserva  — è davvero un  libro molto interessante.  Come personalmente, d'acchito, non avrei detto. Quando il direttore della libreria Feltrinelli, Otello Baseggio, durante uno dei miei, così, abituali incontri con lui, nelle mie molteplici visite settimanali… (questo è uno dei luoghi in cui spendo anche i soldi che non ho… per costume e tradizione), quando mi chiese se volevo presentare un libro su Caporetto, non conoscendo l'autore e facendo riferimento soltanto all'argomento, rimasi un attimo perplesso e dubbioso. Tanto è vero che non gli dissi subito di sì. Gli dissi: «Fammi una cortesia, fammelo vedere prima. Perché su Caporetto tante cose si sono scritte, tanta letteratura si è accumulata, tanti stereotipi anche si sono incrostati sulla conoscenza che abbiamo del fenomeno. Insomma, vorrei vedere come il libro è fatto». E dopo averlo guardato, guardato non vuol dire sfogliato, vuol dire averlo letto con cura, con attenzione, con partecipazione, ho detto: «Ben volentieri». Ben volentieri perché questo è un libro che si accosta, e non è cosa facile, anzi è cosa intrinsecamente assai difficoltosa, si accosta a un fenomeno stranoto, mitizzato, positivamente, negativamente, di altissimo valore simbolico, che fa parte del canone ufficiale della storia patria, sul quale si sono scritti fiumi d'inchiostro e sul quale è difficile, obiettivamente, poter dire qualche cosa di nuovo e di originale.
Bene, io penso, e cercherò di spiegare perché, ma poi l'autore stesso, se avrà voglia, se avrà desiderio proseguirà lungo questa strada, credo che ci siano delle cose nuove e originali.
Per poterle individuare, partiamo intanto da un discorso generale e tuttavia necessario per capire il libro su Caporetto.
Caporetto è, come dire, la sconfitta della seconda Armata e poi di tutto l'esercito italiano, che comincia il 24 ottobre del 1917 con lo sfondamento da parte delle truppe austriache del fronte italiano fra Plezzo e Tolmino. E', come dice il generale Caviglia — e viene riportato qui nella bandella di copertina — uno sfondamento di tipo molto singolare, molto particolare. Tutto era stato previsto fuorché che venissero attaccate massicciamente le vie maestre del fondovalle. Si presidiavano con accanimento i picchi montani, pensando che prima di arrivare al fondo delle valli, si doveva passare attraverso le montagne. L'invenzione elementare, mi par di capire, degli austriaci, è stata quella che si tagliava fuori il monte e si attaccava direttamente sul fondovalle.
Caporetto per le dimensioni della sconfitta e soprattutto per il disastro che comportò in termini di cessione territoriale, dovuti anche a incertezze degli alti comandi (in un primo tempo si pensò a un ripiegamento sulla linea del Tagliamento, in un secondo momento il comando supremo rinunciò e decise, dopo non poche esitazioni di attestare l'ultimo fronte tra il Grappa e il Piave a difesa della pianura padana e dell'Italia nordorientale). Ma questo significò in pochi giorni una cessione enorme di territorio.
Questo va capito, va capito fino in fondo, se si considera come la prima guerra mondiale sia stata una guerra (soprattutto nei primi anni, in particolare nel fronte dell'Isonzo), sia stata una guerra in cui fiumi di sangue sono corsi per la conquista di una collina, di una vetta, di un avamposto, di una sponda, di una forra. E quindi, proprio questo carattere di enorme dispendiosità in termini di vite umane si ripercosse ovviamente sulla ritirata di Caporetto. Dopo aver sacrificato centinaia di migliaia di morti per avanzate di due, cinque, dieci chilometri, qui accadeva che nel giro di pochi giorni tutto il Friuli orientale e un pezzo di Veneto e della provincia di Treviso venivano a cadere quasi senza colpo ferire nelle mani degli austriaci.
Il secondo elemento riguarda la spiegazione, che non fu subito molto chiara. Tanto è vero che venne costituita una commissione d'inchiesta, che non diede a propria volta dei risultati molto soddisfacenti, nel senso che non fu in grado di mettere l'opinione pubblica in condizioni di scegliere fra le tre spiegazioni della disfatta.
Che erano, una la spiegazione tecnico-militare:  errori di comando, trascuratezza nel considerare avvertimenti ed avvisaglie che pure si erano percepite nelle settimane precedenti, scarsa tempestività degli interventi, poca lungimiranza nel capire che non si trattava di un attacco tattico, diciamo così, ma di una vera e propria operazione di sfondamento del fronte e quindi un'operazione strategica, e così via…
La seconda spiegazione, quella alla quale naturalmente e maggiormente si attaccarono elementi della destra nazionalista e per ovvie ragioni lo stesso Cadorna che si sentiva, come comandante supremo posto in causa per la sconfitta, che è quella, come dire, della pugnalata alla schiena, del cedimento morale, del degno coronamento della propaganda disfattista. Secondo questa lettura non ci sarebbe stato nessun motivo serio, sul piano tecnico-operativo, che avrebbe potuto comportare un disastro di queste proporzioni, tutto sarebbe stato determinato da un morale delle truppe minato fin dalle fondamenta dalla propaganda disfattista, da inviti alla fraternizzazione… (Il '17 fu l'anno in cui su tutti i fronti d'Europa si assiste a fenomeni di fraternizzazione, mica soltanto a Caporetto, basta leggere Barbusse, basta leggere il diario di [… ?…] per sapere che quello… , basta leggere il libro … (ecco la placca arteriosclerotica che colpisce… !) va beh, Les mutineries du 1917  (Gli ammutinamenti del 1917), di un autore francese, un libro che è diventato ormai un classico. Il 17 è l'anno del crollo dell'Unione Sovietica (scusate, della Russia), l'anno che precede la pace di Brest-Litovsk, insomma è l'anno in cui tutti gli eserciti subiscono un tracollo di carattere morale e psicologico che è difficile imputare alla propaganda disfattista, e che è invece molto da imputare al logorio ormai insopportabile, di una guerra che si protraeva da quasi quattro anni e che aveva raggiunto limiti quasi insuperabili per la fisiologia del corpo umano.
La terza interpretazione, che è una variante della seconda è quella di Caporetto come “sciopero militare”. Caporetto non tanto fuga disordinata e impaurita di uomini fiaccati nel corpo e nella mente, Caporetto come un gesto deliberato di rifiuto del servizio della Patria e, per usare le parole del tenente Ottolenghi in Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu, Caporetto come esplicita volontà di voltare la bocca della mitragliatrice dall'altra parte, di sparare non più sul nemico ma di sparare su Roma, di sparare sul governo, di sparare sui comandanti militari, di sparare sulle autorità politiche. E questa interpretazione che fu soprattutto diffusa in una memorialistica a caldo degli anni Venti, il cui testo più noto è La rivolta dei santi maledetti, di Curzio Malaparte, che non a caso uscì con questo titolo in seconda edizione, quando Malaparte era diventato fascista, mentre in prima edizione quando Malaparte non era ancora fascista fu pubblicato con il titolo Viva Caporetto. Malaparte esaltava che cosa? Esaltava lo sciopero militare, che a suo giudizio era una forma di lotta di classe in cui purtroppo gli operai-soldati risultarono sconfitti perché non trovarono come in Russia il loro Lenin. Furono costretti a muoversi in modo disordinato, quasi spastico, privo di coordinamento, di guida, di direzione e quindi alla fine rimasero sconfitti. E, a riprova di questa interpretazione, Malaparte adduceva tutti gli episodi in cui si trovavano i carabinieri, che esercitavano funzioni di polizia militare, sparati alla schiena e con appeso al collo il cartello “aeroplano abbattuto”, visto che i cappelli dei carabinieri avevano appunto la forma dell'aeroplano.
Negli anni venti ci fu poi una fioritura letteraria attorno a Caporetto, alla spiegazione della sconfitta, della disfatta, legata anche alla, come dire, non necessità, ma all'opportunità fortemente sollecitata dall'interessato, di definire in maniera chiara e limpida il ruolo di Cadorna. E il libro più importante che fu pubblicato allora, infatti, destò qualche scandalo negli ambienti militaristi e nazionalisti perché proveniva da un nazionalista  – dal quale quindi ci si sarebbe aspettato altro discorso – fu il Caporetto di Gioacchino Volpe. Gioacchino Volpe che era stato addetto stampa e funzionario al servizio P, il servizio di propaganda dell'Ottava Armata, l'armata del gen. Caviglia, e quindi aveva intensamente collaborato all'attività di propaganda dell'ultimo anno di guerra, del 1918, che in questo suo libretto, molto nitido, molto lineare come tutte le cose sue, spiegava che Caporetto era stato un fatto prettamente militare, dove gli errori non erano cumulabili in una sola persona, in singole persone, ma però errori che potevano essere equamente distribuiti, da Capello, Cadorna, comandanti subalterni, ma comunque fatto militare che si iscriveva in un fenomeno di stanchezza complessiva degli eserciti, che riguardavano le truppe di tutta Europa.
Successivamente, negli anni Sessanta e Settanta, ma soprattuto negli anni Sessanta, il dibattito riprese quando ripresero vigore le correnti pacifiste all'interno della società italiana e quando la guerra del Vietnam soprattutto determinò un rinnovato interesse per le guerre come fenomeni inutili, chiamiamoli così, di regolamento del contenzioso esistente fra paesi, stati, etnie, razze, gruppi e consorzi umani di varia natura. E così nel 1967, cinquantesimo anniversario, uscì I vinti di Caporetto, che era una raccolta di testi in presa diretta con un'introduzione dell'autore, in cui veniva in qualche modo avvallata la tesi dello sciopero militare. Ecco Plotone d'esecuzione di Forcella e Monticone in cui Caporetto è visto soprattutto negli esiti che ebbe sotto il profilo della sorte individuale e collettiva dei soldati che ne furono coinvolti e che ne dovettero pagare in termini di punizione gravosissima la conseguenze. Insomma mi fermo qui. Non si può certo dire che per quanto riguarda la conoscenza della dinamica dei fatti, dello svolgimento dell'operazione militare, si sappia poco. Non si può neppur dire che si sappia poco dal punto di vista dei dibattiti sia ideologici sia tecnici che accompagnarono l'episodio o che lo seguirono a distanza di venti, trenta, quaranta, cinquant'anni… 
E allora perché un libro così ponderoso, così anche, oltre che ricco, tale da intimidire per mole (mi diceva prima l'autore-editore un po' anche per prezzo) il lettore. E questo era stato il motivo per cui inizialmente ero stato perplesso — Otello lo ricorda — di dirgli: «Sì ci sto» e gli ho detto: «Prima lo voglio vedere». Perché mi pareva difficile riuscire a dire, francamente, qualcosa di nuovo. E invece l'approccio del libro è, onestamente, un approccio di tipo assai originale. In particolare, va da sé, l'autore lo avrà già capito… il titolo è Caporetto, il sottotitolo è Storia, Testimonianze, Itinerari… l'apporto originale riguarda soprattutto le testimonianze e gli itinerari, riguarda essenzialmente la seconda parte dove si parla di un territorio  di una comunità, di una serie di esperienze personali, individuali, di vita, di storie vissute in un luogo che è diventato un simbolo, anche se in negativo, ma un simbolo sicuramente della storia nazionale italiana dell'ultimo secolo.
Sono appena usciti i primi volumi di una collana diretta da Ernesto Galli della Loggia sull'identità nazionale italiana, dove oltre al libro del curatore, appuntoL'identità nazionale italiana, ci sono libri su Mirafiori, o sul santuario di Loreto. Ecco, indubbiamente Mirafiori rappresenta anche simbolicamente un luogo dell'anima e non soltanto del conflitto, nella storia italiana di questo secolo. Indubbiamente il santuario di Loreto rappresenta la stessa cosa, ma la stessa cosa rappresentata anche Caporetto; non foss'altro perché, a parte ciò che evoca da un punto di vista correttamente referenziale, è un termine entrato nel linguaggio corrente. Una Caporetto, la Caporetto dell'economia, Ciampi che rimedia la Caporetto dell'economia, e così via. Cioè Caporetto è diventato un luogo dell'anima, un luogo di altissimo valore simbolico che sta a indicare, come dire, la sconfitta di proporzioni gigantesche alla quale però poi si riesce in qualche modo a rimediare a riparare con un atteggiamento tipico della cultura e della mentalità italiana.
Infatti se voi riflettete, e soprattutto i più anziani credo me ne possano dare atto, alla simbologia di Caporetto è associata in maniera indissolubile la simbologia del Grappa e del Piave. Caporetto, sì, però poi c'è il Grappa, c'è il Piave, c'è la battaglia del Piave, c'è la battaglia di Vittorio Veneto, c'è la Vittoria. Caporetto è il momento in cui un popolo viene messo alla prova fino in fondo fino alle sue più intime fibre e capacità di resistenza alla sventura e dimostra nonostante l'immane entità del disastro di riuscire a reggere.
Allora, dicevo, ciò che rende originale questo libro è non soltanto, anzi, non tanto, il racconto delle vicende della guerra, delle offensive sull'Isonzo, di tutto ciò che ha preceduto Caporetto, che lo ha accompagnato, che lo ha seguito. Da questo punto di vista non è necessario rivolgersi a questo libro, si può rivolgersi anche ad altri, alla Storia della guerra mondiale di Piero Pieri che è “la madre di tutte le storie” della prima guerra mondiale, e ad altre ancora.
Si può dire a questo proposito che molto interessanti sono invece le fotografie e le tavole geografiche e topografiche, che non so come l'autore abbia rintracciato, ma che in alcuni casi non ho mai visto. Alcune le conoscevo, le ho trovate in altre pubblicazioni, altre sono state un'autentica sorpresa perché non ne ero assolutamente a conoscenza. Quindi questo elemento di, come dire, di accumulo di sapere topografico militare, per una vicenda di storia militare non è affatto indifferente.
Quello che invece costituisce, a mio giudizio, proprio l'elemento di grande curiosità, di grande interesse, di grande originalità del libro, sono la seconda e la terza parte, in cui l'autore, l'autore-editore, il coordinatore-guida di questo volume, si è avvalso prevalentemente di storici sloveni (sarà poi lui a dirci, se vorrà, come è entrato in contatto con costoro, in che modo è riuscito ad ottenere la loro collaborazione, perché gliel'hanno prestata)… in cui, come dire, l'evento guerra viene in qualche modo sfumato e riassorbito all'interno di una visione complessiva della vita sociale, culturale e politica in un lembo nord-orientale (non si può dire dell'Italia, perché Caporetto attualmente è in territorio sloveno) ma insomma in una zona di confine, in una zona di frontiera, in quella che nel libro viene definita una terra di profughi. E ai profughi nelle cosiddette “città di legno” che erano delle città dove venivano, durante la prima guerra mondiale sfollati e internati gli abitanti delle zone di guerra… (Fra l'altro io ho letto con particolare attenzione queste pagine anche perché recentemente ho avuto modo di discutere con una mia brava laureanda di Pola una tesi di laurea molto interessante sugli italiani d'Istria internati nei campi d'internamento austriaci durante la prima guerra mondiale. E la storia che questa ragazza racconta nella sua tesi è la storia dell'ennesima città di legno, dell'ennesima città di baracche, dell'ennesima città d'internamento)… Sono cose interessanti soprattutto da quando è uscito il libro di Kaminski sui campi di concentramento che ci spiega come i tedeschi nella seconda guerra mondiale abbiano perfezionato fino, come dire, … a una totalità maniacale le tecniche sia dell'internamento che dello sterminio, ma come dal 1896 in Europa fossero incominciate, si fossero incominciate a studiare le tecniche di deportazione in massa delle popolazioni.
E poi la terza parte che racconta la vita nei villaggi dell'Alto Isonzo e in esilio nel ricordo dei testimoni. Sono soprattutto testimonianze di gente comune, di persone che non avevano particolari responsabilità nella vita pubblica ma che avevano un requisito essenziale per rendere una testimonianza, cioè un radicamento autentico, e continuato nel tempo, nei luoghi e quindi una conoscenza sicura e controllata delle cose che raccontavano. A Caporetto durante la guerra, cosa accadde in questo posto, che nessuno conosce prima dell'ottobre del 1917. Chi sa cos'è Caporetto, prima dell'ottobre 1917? Poteva essere, non lo so, … io andavo a Piazzola sul Brenta l'altra sera, e ho scoperto — abitando a Padova da trent'anni — che un po' prima di Piazzola sul Brenta c'è una frazione che si chiama Del Medico, non l'avevo mai saputo… buono a sapersi — Voglio dire, ecco, chi sapeva cos'era Caporetto, il villaggio di Caporetto, prima del 24 ottobre 1917?
E poi la persistenza della memoria e il modo in cui, e questo è particolarmente interessante, in questo villaggio si custodisce, si rielabora e si restituisce la memoria di un grande evento di storia italiana anche se il luogo, in realtà, a questo evento ha dato poco più del nome. Perché, dico, a Kobarid, Caporetto, non è che si siano svolte gran cose, insomma. Lo sfondamento avviene fra Plezzo e Tolmino e dopo la guerra dilaga in pianura. Quindi il luogo diventa luogo simbolo proprio perché da una definizione toponomastica parte un'identificazione simbolica, che però si riflette, si riverbera, in qualche modo rimbalza, sul luogo d'origine, tanto è vero — altro elemento straordinariamente interessante del libro che ne parla con illustrazioni anche molto suggestive — tanto è vero che a Caporetto viene, in anni recenti, spero di poterlo andare a vedere perché io ci sono stato prima che venisse fondato, un museo dedicato appunto alle vicende della Grande Guerra in generale, se non sbaglio, e alle vicende particolari di quell'area nella fattispecie. E viene proprio creato in ragione di questa curiosa situazione. Cioè Caporetto non è Marzabotto, non è la risiera di San Sabba, non S. Anna di Stazzema. Voglio dire non è un luogo in cui il simbolo corrisponda all'identità del fatto avvenuto. E' un luogo che è diventato “luogo simbolo” malgrè soi, nonostante sé stesso. Perché il nome di un evento ben più grande di Kobarid è stato sintetizzato con quel nome.
Un ultimo punto riguarda proprio questo fatto, che credo spieghi anche la scelta dell'autore e coordinatore, soprattutto per ciò che riguarda i collaboratori che sono quasi tutti sloveni, Caporetto oggi si trova in territorio sloveno. Caporetto è il nome italiano di una terra che nel corso della prima guerra mondiale si voleva fosse italiana ma che appartiene, dopo il trattato di pace, del 10 febbraio 1947, appartiene alla Repubblica Slovena. E si chiama appunto Kobarid. E però ciò che è particolarmente interessante — lei mi corregga se mi sbaglio, se ho capito male tutto questo — mi pare che […malgrado] il fatto che si tratti di un villaggio sloveno, abitato quasi totalmente da elementi sloveni, è un luogo che ha accettato con un lodevole cosmopolitismo intellettuale di essere e di rappresentare il simbolo di un capitolo fondamentale della storia di un altro paese. Questo mi pare l'aspetto più straordinario della vicenda. Detto brutalmente, potrebbe essere formulato così: «Erano sloveni, cosa gliene fregava?». Sia con gli austriaci, sia con gli italiani, in ogni caso erano destinati a rimanere una minoranza compressa e perseguitata, come fu perseguitata poi, basta pensare alle proteste dei vescovi, contro le discriminazioni contro il clero sloveno negli anni del fascismo. Ma austriaci o italiani sarebbero sempre stati comunque i padroni di una minoranza etnica beffata oltretutto perché in loco era maggioranza e che sarebbe stata sottoposta a una dominazione allogena. Eppure le testimonianze slovene che raccoglie Camillo Pavan documentano come con grande spirito, ripeto di cosmopolitismo e di eleganza internazionalista, insomma, ecco… gli sloveni abbiano accettato di fare di Kobarid, costruendoci anche il museo di Caporetto un luogo in cui essi sloveni, collaborano ad una sorta di rivisitazione non retorica ma storicamente attendibile di una vicenda che è diventata appunto simbolo di uno snodo cruciale della storia d'Italia. Ecco, a me, e anche qui se ho sbagliato l'autore mi correggerà, sembra che la chiave di lettura, il filo conduttore del libro, sia appunto la Caporetto slovena. Cioè, forse più che Caporetto si sarebbe dovuto chiamare Kobarid, il libro. Ciò che ha di nuovo, rispetto alle storie militari di quella vicenda, ciò che ha di nuovo nel racconto del prima, del dopo, della vita quotidiana, degli usi, dei costumi, del folklore, delle tradizioni popolari degli sloveni del luogo, il libro ha proprio come filo rosso che lo attraversa tutto, questa idea di un capitolo di storia italiana avvenuto in terra slovena. Cioè la Caporetto non italiana, Kobarid.
Un'ultima cosa vorrei dire, non per mettere il pizzico di veleno nella coda, insomma, come spesso accade, o per esprimere così dissensi. Ci sono tecniche retoriche ben note, in questo tipo di occasioni, di presentazioni. Uno prima suona la gran cassa, fa finta di parlar bene di una cosa e poi con aria noncurante, verso la fine, piazza lì un'osservazione apparentemente di striscio, che in realtà demolisce l'opera. No, non si tratta assolutamente di questo. Si tratta del fatto che per i miei gusti intellettuali, per le mie preferenze personali, per il modo in cui leggo la storia d'Italia non mi ha persuaso fino in fondo, anzi se devo dire la verità non mi ha persuaso affatto questa lunga citazione di Don Lorenzo Milani tratta da L'obbedienza non è più una virtù collocata nell'incipit del libro e che, fermo restando tutto il rispetto che si deve a Lorenzo Milani, è una sorta di sintesi in dieci righe della storia della prima guerra mondiale che secondo me è francamente inaccettabile. E' improntata a una forma di pacifismo fra il populista e il pretesco che non appartiene alla mia cultura e spero non apparterà mai. Milani in queste righe dimentica che cosa quella guerra significò, giusta o sbagliata che fosse, ma era una guerra mondiale, una guerra europea, in termini nation building, di creazione di un'embrione di nazione italiana che ancora non c'era. Per carità, dico, se è possibile costruire una nazione senza fare le guerre, è giusto meglio, però ci fu anche questo aspetto e affermazioni come «fu la guerra di Cadorna… Giolitti aveva detto che avremmo potuto avere gli stessi risultati negoziando la neutralità», cose di un'ingenuità assolutamente folle. Voglio dire, certo che Giolitti scriveva questo, però poi bisogna vedere se sarebbe stato vero che ci avrebbero dato il Trentino, la Venezia Giulia e magari anche qualcosa di più, soltanto in cambio della neutralità. C'è un pacifismo piagnone, ingenuo, molto diffuso devo dire nel nostro paese, soprattutto da venti-trent'anni a questa parte, e che dovrebbe essere assoggettato secondo me a un lavacro razionale un po' più severo. Non so — anche questo lo dirà Camillo Pavan, se vorrà — se egli si riconosce totalmente in queste parole di Don Milani, o se, semplicemente, gli sono sembrate idonee, adatte a introdurre un libro come il suo che è un libro tutto giocato certamente sul contrappunto tra lo sconvolgimento della guerra in un luogo dove si vive normalmente in pace, anche se in una condizione di austerità quasi spartana, di costumi, di tecnologia, di usanze, di relazioni e di tecniche del vivere.
Grazie

Intervento di Camillo Pavan

Dunque, cinque minuti solo, perché non è che sia il mio mestiere, purtroppo, trattenere molto il pubblico; lui è un professore, io sono un autodidatta. Mi è doveroso ringraziare innanzi tutto il direttore della Feltrinelli, qui di Padova, che mi ha così, tranquillamente, prima detto di sì, di fare questa presentazione, e poi procurato addirittura un professore universitario. … (Non un professore universitario, me! Perché di professori universitari ce n'è tanti!… scherzo, eh … Lanaro)
Comunque per me è un motivo di grande orgoglio. Sono veramente orgoglioso, dico sinceramente, che lei abbia letto il mio libro e l'abbia trovato interessante.
Comincio da quest'ultima obiezione, perché è la prima volta che uno me la fa, e sono anche qui molto contento che lei me l'abbia fatta. Perché tutti fingono di non leggerla, e invece c'è, è proprio nell'esergo, non so come si chiami quella posizione. Io l'ho messa volutamente. Dico anche che ero molto incerto. «Metto o non metto. La metto più lunga, la metto più corta. Forse è meglio che non la metta». E in un certo senso dopo averla messa mi sono chiamato anche pentito, perché mi rendo conto di come una guerra sia molto, molto più complessa di come la presenta [Don Milani]…(Beh, allora sono contento… Lanaro)…  Ma adesso non lo dico per farlo contento!  (No, no, no… comunque… questo lo immagino, però sono contento lo stesso! Lanaro). Scrivendo e occupandomi di guerra (perchè fino prima mi ero occupato del Sile e del Radicchio rosso di Treviso, e non di guerra; ho dovuto, così, inventarmi un mestiere che non conoscevo) mi rendo conto che le cose sono molto più complesse di come le presenta Don Milani.
Malgrado questo, sono lo stesso contento di averla messa perché pone un problema che è fondamentalmente il problema della guerra giusta e della guerra non giusta. Cioè, lui dice: La prima guerra mondiale non è stata giusta perché avremmo ottenuto lo stesso, cosa da dimostrare, perché effettivamente anch'io poi ho letto che non era così automatico che sarebbe stato dato all'Italia quello che ha ottenuto; però dice che sarebbe stato giusto invece intervenire nella seconda fase, dopo la guerra  contro quella "banda di criminali" (e penso che più o meno possiamo concordare) che sono stati i fascisti. Invece l'esercito, in quel momento, pur essendo fatto da gente che tanto aveva nominato la parola Patria, in quel momento ha lasciato mano libera a queste squadracce che poi hanno preso il potere. E quindi io l'ho lasciata, e tutto sommato sono anche contento, anche se mi mette un po' in crisi, sempre, questa citazione, perché, alla fine di questi tre volumi, se mai arriverò alla fine, vorrei proprio porre…
Interviene Lanaro:
Scusi, posso interromperla, perché volevo… visto che ci sono alcuni miei ragazzi, alcuni miei studenti, e vorrei che restasse loro una considerazione che per me è capitale, e che era all'origine anche di questa parziale critica su Don Milani.
Se le squadracce hanno conquistato il potere, se i fascisti sono andati al governo, se hanno fatto dell'Italia quello che hanno fatto, è anche perché, insomma, nel corso del 1919 si è assistito a un fenomeno che non è mai accaduto da nessun'altra parte del mondo. Un fenomeno per cui si è sistematicamente denigrata, svillaneggiata, sputacchiata, sputtanata una guerra vinta. Una guerra vinta con morti, con sangue, con sacrifici, con atti di eroismo magari non voluti (perché nessuno vuol far l'eroe), ma vinta. Quando tu, di una guerra vinta, l'unica poi della nostra storia, perché le altre le abbiamo perse tutte… quando uno di una guerra vinta fa un motivo di autoflagellazione, di autofrustrazione, come se tutto ciò che era stato fatto per vincere fosse stato atto colpevole, è evidente che allora non si costruisce nulla moralmente. Solo questo volevo dire, ecco… Io credo che espressioni come quelle di Don Milani vadano un momento corrette nel senso che l'Italia ha dovuto pagare dei prezzi molto alti a un'operazione dissennata di denigrazione di una guerra… di una guerra vinta. E che non era una guerra imperialista, nello spirito con cui la combattevano, almeno, i soldati o gli ufficiali di complemento; non parlo degli alti comandi, insomma. Chiusa la parentesi; mi scuso di averla interrotta.
Riprende Pavan:
No, no, mancherebbe altro. E siccome l'ho messa all'inizio ed è giusto che uno la veda e me la dica, e nessuno mai aveva tirato fuori questa citazione… ho anche piacere, così mi chiarisco anch'io le idee.
Il motivo principale stavo per dire, e poi concludo questa parentesi, è che alla fine di questo ciclo, di questi tre libri che presumibilmente, in un piano decennale di lavoro, dovrei finire nel 2003 (ho cominciato nel 1993), vorrei proprio porre in un capitolo, e chiedermi: «E' possibile, punto di domanda, una soluzione dei conflitti internazionali, senza ricorrere alla guerra? Cioè, è possibile arrivare… ». Lui, questo prete, dice, da buon prete, è sempre la teoria vecchia della guerra giusta e della guerra non giusta, io ci vedo sotto a quella citazione: che ci sono guerre giuste e guerre non giuste, e quindi accetta fondamentalmente l'idea della guerra. Io, che sono nato, sia pure di poco, dopo l'esplosione della bomba atomica, mi domando: «E' ancora possibile parlare di guerre giuste e guerre non giuste, nell'epoca delle armi di distruzione di massa? E' possibile arrivare alla messa a tabù del concetto stesso di guerra? Cosa bisogna fare per far questo? ».
Io ho un figlio che ha vent'anni e farà l'obiettore di coscienza. Lo prendo sempre in giro perché gli dico, ma cosa fai… sono capaci tutti far gli obiettori di coscienza e andar servire i vecchietti e andar su una biblioteca… ma se viene veramente un conflitto cui l'Italia bene o male deve partecipare, cosa fa uno che si dichiara pacifista? Come te, e come sostanzialmente [me] … non so se chiamarmi pacifista o antimilitarista… certo che io non ho fatto il militare, ma non perché ero obiettore di coscienza, per fortuna non l'ho fatto, perché ero il terzo figlio e c'era questa legge… Comunque questo è il dilemma che io mi pongo. «E' possibile arrivare, l'umanità, a non ricorrere alla guerra per risolvere i conflitti internazionali? ».
Questo l'ho messo all'inizio, perché poi alla fine riprenderò questo discorso, magari interpellando  un generale, con la mia tecnica di mettere un po' in confronto le due opinioni, e un pacifista, e vedere cosa vien fuori da questo dibattito, e poi mettendo anch'io delle mie considerazioni, su quello che intanto ho capito in questo lavoro che è in fase di attuazione…
E comunque la ringrazio in ogni caso di aver parlato di questa citazione, perché, le ripeto, anche tanti che so esser magari di destra… fanno finta di non aver letto… Invece c'era questa citazione, io l'ho messa, mi ha costato anche un certo ripensamento… tutto sommato sono contento di averla messa perché poi la richiamerò nel terzo volume…
Parlava delle foto e delle carte. Quelle lì diciamo che le ho trovate, e sono stato molto fortunato, al museo del Risorgimento a Roma, non so se lei conosca, sopra l'Altare della Patria, il Vittoriano… fra l'altro è un posto bellissimo, si vede tutta Roma, soffia anche un po' di ponentino, se non altro perché si è al quarto piano… e mi hanno lasciato fotografare proprio fotografie originali del Servizio fotografico del Comando supremo, senza neanche farmi pagare niente (per il momento…) quindi mi considero molto fortunato.
Per quanto riguarda poi questo collegamento Piave-Caporetto, anch'io ho fatto questo collegamento, all'inverso. Nel senso che il libro è iniziato dal Piave. Io ho trovato un vecchio, diciamo pure questa parola anche se adesso non si usa più dire, di novant'anni che ricordava quand'era piccolo (… beh, a novant'anni forse si può ancora dire! a sessanta, no, ma a novanta…! Lanaro)… Si può anche dire vecchio, non è un'offesa dire vecchio, anche perché prima o poi ci arriviamo tutti… speriamo di arrivarci a novant'anni!
Beh, insomma questo si ricordava che quando era piccolo c'erano questi tedeschi che erano arrivati sulla riva del Piave, e lui è scappato, è andato profugo. E dentro di me è scattata come una molla. Ma senti un po' cosa dice questo… io ho di fronte a me proprio un documento vivente, un testimone di un'epoca che io consideravo già chiusa, già vecchia quando andavo a scuola. Perché della prima guerra mondiale, per quel poco che si è studiato a scuola, la si considerava già vecchia ancora cinquant'anni fa. A me per la verità sembrava vecchia anche la seconda guerra mondiale, che mi raccontava mio padre.
Allora via a intervistare questo ed altri personaggi lungo il Piave, perché più che essere appunto uno storico, mi considero un cronista, non so come dire, un amanuense come qualcuno ha detto, cerco di conservare queste memorie, perché non vadano perse…  (fine lato A della cassetta)

Lato B

… il Piave sì, ma il Piave ha avuto origine da Caporetto. Allora sono andato a Caporetto, e lì ho avuto la fortuna di trovare questi dirigenti del museo… e veramente anch'io ho notato questo spirito, che una volta si diceva internazionalista in senso marxista, non so… (di farsi carico della storia degli altri, Lanaro)… di rendersi conto che sono in una posizione, anche geografica, che sono a cavallo di varie culture: la cultura slava, la cultura tedesca e quella italiana. E loro hanno affrontato in maniera veramente imparziale… non so se lei andrà a veder il museo, concorderà. (Eh… ci andrò, Lanaro).  L'hanno veramente organizzato bene, hanno vinto il premio della comunità europea dato ai musei, e lì ho trovato uno dei dirigenti che mi ha aiutato molto… e mi ha anche dato una chiave di lettura, per quello ho messo a confronto giornali italiani e giornali sloveni. Perché lui, parlando … a un certo punto è venuto fuori il “miracolo” di Caporetto.
«Ma come, per noi è la disfatta e per loro… senti che roba…»  e così ho messo in confronto i giornali italiani e i giornali sloveni… e ho trovato un'abitante di Caporetto, una signora che ora abita a Venezia, ma che è nata a Caporetto, un'insegnante di liceo che mi ha tradotto questi giornali sloveni. E poi, ho sentito io stesso l'esigenza. Mi son detto, se loro che sono sloveni fanno questa operazione, e prendono anche critiche, a livello di base, perché ogni tanto mi dicono, guarda che sul Delo, non so, sul giornale tal dei tali vengono fuori critiche nei nostri confronti, (lettere dai lettori) che dicono, ma come, voi parlate degli italiani, con tutto quello che ci hanno fatto, parlando della seconda guerra mondiale, perché purtroppo c'è sempre un po' il dente avvelenato… Ma loro dicono, la prima guerra mondiale ha avuto questi avvenimenti e noi li trattiamo.
Allora poi ho voluto sentire un altro dirigente del museo di Nuova Gorizia (Goriški Muzej)… anche lì ho trovato belle foto… Sapevo che aveva fatto belle ricerche sui campi profughi, barakenlager, sulle città di legno e gli ho detto fammi questa ricerca. Poi sono andato da un'altra che sapevo che aveva fatto una ricerca sui profughi sloveni in Italia, una dottoressa dell'Accademia delle Arti e Scienze di Lubiana… Questo perché sentivo l'esigenza di rendere più completo e anche, diciamo, più originale, questo lavoro. E anche perché volenti o nolenti italiani e sloveni, onestamente, sulle zone di confine, così, come è inevitabile, come anche noi con i vicini di casa a volte facciamo  baruffa… Non è facile avere dei rapporti, così, distesi. Adesso c'è un processo, malgrado tutto, di distensione e di comprensione reciproca. Allora anch'io volevo dare il mio piccolo contributo, sia pure da autodidatta come non mi stanco di ripetere, alla comprensione reciproca di fenomeni storici così importanti quale è stata la prima guerra mondiale. Questo per quanto riguarda il perché, volutamente, ho scelto dei collaboratori sloveni e perché volutamente ho messo dei giornali sloveni tradotti e confrontati con il contemporaneo giornale italiano, che era il maggiore dell'epoca… il Corriere della Sera, che vendeva un milione e mezzo di copie.
Io mi rendo conto che il mio limite maggiore è quello di non avere un'impostazione forse complessiva, da storico vero e proprio. D'altronde fino a quattro anni fa non mi occupavo di storia di questo tipo… 
Adesso dico che il secondo volume si occuperà della ritirata di Caporetto; il terzo volume dell'ultimo anno della guerra, la vittoria italiana e il disfacimento dell'impero austro ungarico. Anche lì ho visto; che ci sono bellissimi documenti, ci sono belle testimonianze. Il problema grosso che mi si pone di fronte adesso, a parte quello economico che le accennavo prima… (è una battuta), il problema grosso è come riuscire a conciliare le testimonianze numerosissime che riesco a trovare in questa vasta area occupata dagli austro-tedeschi in quell'anno, l'anno della fame, come è unanimemente ricordato; come conciliare questi fatti che riguardano la popolazione civile con gli eventi militari che li hanno determinati. E non sarà facile, perché qui a Caporetto mi è stato abbastanza semplice in quanto le testimonianze sono state 14 e le ho messe in un capitolo a parte e poi sono riuscito a fare un montaggio in qualche maniera scorrevole di tutto il lavoro. Adesso sto arrovellandomi  in quest'anno, con la scusa che sono in giro a cercare di vendere il libro e nel frattempo raccolgo testimonianze… mi domando come farò, anche nei prossimi volumi a mettere d'accordo le due cose.
Per concludere io chiedo sempre, quando faccio qualche incontro, quando vado in qualche scuola, in qualche biblioteca, se c'è qualcuno che ha qualche documento, qualche foto vecchia, qualche diario, qualcosa che riguardi l'ultimo anno della guerra, la ritirata di Caporetto, la fine della guerra … se è così gentile di segnalarmelo; se hanno un nonno, uno zio. Io ho l'ambizione di fare sempre un lavoro collettivo, anche se lo faccio, lo gestisco e lo coordino io. Un lavoro in cui, insomma, emerge l'esperienza tragica, drammatica vissuta qui a casa nostra. A Padova che di fatto era la capitale della guerra nell'ultimo anno. Vissuta nel cortile di casa mia che era a dieci km dal fronte, Treviso; e vissuta sul Piave e sotto l'occupazione austro-ungarica, che è ben ricordata dagli anziani del posto proprio come un anno di fame drammatica… mano a mano, questo, che si avvicinava alla linea dello scontro fra i due eserciti. Perché poi, più in là [più lontano dalla linea del fuoco]  sì… si ricorda[no]  la fame, le ristrettezze, ma non fame vera e propria. Ma, per dire, a Miane, dove sono andato anche insieme con la moglie a fare un sondaggio (Miane è vicino a Follina? Lanaro) … sì, appena di là della linea del Piave, in territorio occupato, sono andato a guardare gli archivi parrocchiali, una fonte che mi sembra doveroso confrontare, per vedere come vivevano. Insomma, ho notato una cosa incredibile, che mentre normalmente negli anni precedenti morivano in un anno — in un paese, non so se di cinquemila abitanti, o non ricordo quanti di preciso — morivano 50 abitanti all'anno, nel 17-18, sono morti 500 abitanti. Provi immaginare lei cosa ha voluto dire solo questo dato, la durezza di quell'anno lì, e perché sia ricordato come l'anno della fame, tuttora, dai vecchi. Ma i giovani non se ne ricordano più.
Ecco, io il motivo per cui ci tengo ormai a finire quest'opera che è veramente molto gravosa per me, sia da un punto di vista diciamo intellettuale, e sia anche economicamente, è proprio perché non venga persa la memoria di questi testimoni ultimi, ancora viventi, di questi fatti drammatici.
Lanaro:
Io penso che di questo la dobbiamo ringraziare e se mi permette non soltanto lei ma tutti coloro che meritoriamente si dedicano a questa raccolta critica di memorie. Nel senso che per noi, più o meno bravi, più o meno capaci, più o meno provveduti, che facciamo gli storici di professione, lavori come questo costituiscono fasi intermedie di elaborazione di materiali di straordinaria e insostituibile importanza. Libri come questo Caporetto curato da lei, che significato hanno, in sostanza, detto in due parole? Di raccogliere tutta una serie di testimonianze che permetterà tra due, tre, cinque, dieci anni a chi la farà, a me, a un altro, a voi due diventati grandi, non so a chi, di riuscire a scrivere la storia di una società, di una comunità, di un paese in guerra, dove la guerra non vuol dire soltanto che si spara, che si avanza, che si arretra, che si ripiega, ma che si vive, che si costruiscono utensili con determinati attrezzi, che si fa l'amore, che si muore, che si muore di fame, che si muore più di fame di altre volte. Io credo che il contributo proprio più utile di questo tipo di memorie che vengono assemblate in libri importanti come questo, consista proprio nello smantellare il concetto ingannatore e fasullo dell'evento storico eccezionale, come se fosse qualche cosa che risucchia tutto, che mangia tutto e che non lascia nulla fuori di se stesso. Non è che fra il 1915 e 18 in Italia ci sono soltanto i cannoni che tuonano, i fucili che sparano, i soldati che muoiono in trincea, gli alti comandi che mandano all'assalto i fantaccini. C'è una società che vive, che pulsa. Ci sono i teatri, ci sono i cabaret, c'è una vita che va analizzata nei suoi elementi di normalità, come anche negli elementi di alterazione, che subisce in ragione di un evento bellico, che non può essere indubbiamente indifferente date le sue dimensioni e data la sua importanza. Ma ecco, questa memorialistica serve proprio a indagare in modo finalmente serio storiograficamente, l'intreccio tra eccezionalità e normalità che caratterizza i periodi storici cruciali e le guerre in particolare.
E applaudiamo l'autore!