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Dopo la sosta       per la notte a Udine, nella città devastata dai saccheggi, il giorno       successivo riprende il cammino.             
              
«Alle ore 10 venne       l’ordine di partire. — A piedi per Cividale, poi si proseguirà       per Caporetto, Tolmino, S. Lucia. —             
Tutti fummo presi da uno       sconforto tale che il sentimento di ribellione ci sconvolse. Ma ribellione       contro chi? Automi eravamo diventati, nient’altro che automi (…) .             
Partimmo con poche       sentinelle, imbucando l’ampia strada per Cividale (…) . Nei dintorni       della città incontrammo due morti: soldati nostri di fanteria (…) . Più       avanti, lungo il fosso laterale della strada altri due soldati nostri       sdraiati, immobili. Sembravano morti ed erano invece ubriachi fradici. Non       davano segni di vita. Due sentinelle tedesche si avvicinarono per farli       alzare; non si mossero nemmeno alle spinte ed allora       cominciarono a percuoterli con il calcio del fucile» 7.             
              
14 novembre 1917,       Longarone. Il racconto del capitano medico Michele Daniele.             
              
«E’ l’alba di un altro       giorno triste. Visito la città. Sembra sia stata messa a ferro ed a       fuoco.              
Case con porte       sconquassate, finestre con vetri a pezzi, magazzini e botteghe       saccheggiati (…) prigionieri italiani in cerca di alimenti; soldati       austriaci avvinazzati, intenti a trascinare mucche e maiali sgozzati       (…).              
I nostri, a frotte, vagano       per ogni dove in cerca di cibi; girano, rigirano, entrano in ogni luogo,       in ogni vano (…) . Gironzano per gli orti in cerca di radici, di       erbaggi, di frutta cadute, di patate non ancora disotterrate, e scavano,       scavano fino a che riescono a procurarsi qualche alimento! Si fermano nei       cantoni, nei cortili, nei giardini, bivaccano in capannelli; accendono       fuochi e improvvisano cucine (…) . Molti sono taciturni e tristi, ma       altri se la prendono in santa pace e ridono con gli austriaci, i quali       menano presso a poco la stessa vita, con la differenza che essi di viveri       ne hanno, perché li hanno requisiti con la forza, e sono quindi meno       parchi, specie nell’impastare farine e friggere frittelle in una nuova       sorta di padelle: catini smaltati!             
E’ un quadro speciale,       bizzarro, fantastico, mai supposto, mai immaginato, mai visto! (…) » 8.             
              
              
              
              
              
7             Tacconi,       pp. 64-76.             
8             Daniele,       pp. 30-31             
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“Fame continua … fame, orrenda fame”             
              
Fra       i molti aspetti della vita all'interno dei campi        di concentramento ci limitiamo ad approfondire quello della fame,       sempre con l’aiuto delle memorie e dei diari di chi visse in prima       persona l’esperienza.              
              
«I       medici raccontano che dopo Caporetto gli italiani morivano come le mosche,       per denutrizione. Dalle autopsie praticate trovarono che tutto il grasso       era scomparso dalle fibre muscolari e dal corpo. Il cuore era rattrappito       come un pezzo di cuoio (…)»      10.                    
              
La       fame, che era stata una compagna immancabile già nel viaggio verso la       prigionia sia per i soldati sia per gli ufficiali, nel lager diventa la       causa primaria di morte, diretta o indiretta. Ma questa volta solo, o       quasi, per i soldati. Le cause di morte dei circa 550 ufficiali periti in       prigionia furono in genere le conseguenze delle ferite riportate prima       della cattura o complicazioni polmonari.              
Riguardo ai soldati la CIV, ad onor del vero, parla       di oltre il 50% di deceduti in prigionia a causa della tubercolosi 11.       Ma se si pensa che i prigionieri erano tutti uomini giovani, è difficile       non identificare in questa tubercolosi di massa il processo finale di mesi       e mesi di stenti, aggiunti al clima rigido dell'Europa centro       settentrionale affrontato senza la più elementare protezione. La parola       “fame” «non doveva essere pronunciata nel Campo; si diceva che le       morti avvenivano per esaurimento, ma guai a chi avesse detto che       avvenivano per fame» 12.       E anche nella registrazione delle cause di morte, come vedremo a Milowitz,       il vocabolo veniva pudicamente escluso: si preferiva usare il termine ödem,       edema.  Oppure i responsabili dei campi parlavano di un'altra       malattia  che «hanno voluto       astutamente nascondere in un termine nuovo “Gefangenenpsychosis”       che potrebbe essere tradotto in italiano con la parola “Prigionite”, o meglio ancora — per esprimersi chiaramente —       “Malattia della fame”» 13.                     
              
                                     
              
10                  Procacci, p. 217.             
11                  CIV, (Commissione d'Inchiesta sulle Violazioni del diritto delle       genti) p. 26.             
12                  Preliminari, p. 133.             
13                               Masucci (…), p. 27. | 
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