Silvio Lanaro (sotto un poster di Feltrinelli) e, a sx., Camillo Pavan |
Padova, Libreria Feltrinelli, Venerdì 5 giugno 1998
(Trascrizione integrale)
Il quarto d'ora accademico ormai è passato, chi c'è c'è; d'altronde in questa saletta, che io amo molto perché mi ci sono trovato parecchie volte con amici a presentare libri, tutto è sempre avvenuto in modo molto familiare, molto intimo, fra pochi insomma, anche perché pochi sono i posti. Questo non è un luogo che richiami le masse, non è fatto per questo: è fatto per chiacchierare in modo un po' salottiero, nel senso positivo del termine, attorno a libri che ci interessano.
Questo libro di Camillo Pavan, che Camillo Pavan ha in parte scritto e in parte curato, coordinando la collaborazione di altri studiosi è un libro davvero — e lo dico senza nessuna forma di finzione retorica o di riserva — è davvero un libro molto interessante. Come personalmente, d'acchito, non avrei detto. Quando il direttore della libreria Feltrinelli, Otello Baseggio, durante uno dei miei, così, abituali incontri con lui, nelle mie molteplici visite settimanali… (questo è uno dei luoghi in cui spendo anche i soldi che non ho… per costume e tradizione), quando mi chiese se volevo presentare un libro su Caporetto, non conoscendo l'autore e facendo riferimento soltanto all'argomento, rimasi un attimo perplesso e dubbioso. Tanto è vero che non gli dissi subito di sì. Gli dissi: «Fammi una cortesia, fammelo vedere prima. Perché su Caporetto tante cose si sono scritte, tanta letteratura si è accumulata, tanti stereotipi anche si sono incrostati sulla conoscenza che abbiamo del fenomeno. Insomma, vorrei vedere come il libro è fatto». E dopo averlo guardato, guardato non vuol dire sfogliato, vuol dire averlo letto con cura, con attenzione, con partecipazione, ho detto: «Ben volentieri». Ben volentieri perché questo è un libro che si accosta, e non è cosa facile, anzi è cosa intrinsecamente assai difficoltosa, si accosta a un fenomeno stranoto, mitizzato, positivamente, negativamente, di altissimo valore simbolico, che fa parte del canone ufficiale della storia patria, sul quale si sono scritti fiumi d'inchiostro e sul quale è difficile, obiettivamente, poter dire qualche cosa di nuovo e di originale.
Bene, io penso, e cercherò di spiegare perché, ma poi l'autore stesso, se avrà voglia, se avrà desiderio proseguirà lungo questa strada, credo che ci siano delle cose nuove e originali.
Per poterle individuare, partiamo intanto da un discorso generale e tuttavia necessario per capire il libro su Caporetto.
Caporetto è, come dire, la sconfitta della seconda Armata e poi di tutto l'esercito italiano, che comincia il 24 ottobre del 1917 con lo sfondamento da parte delle truppe austriache del fronte italiano fra Plezzo e Tolmino. E', come dice il generale Caviglia — e viene riportato qui nella bandella di copertina — uno sfondamento di tipo molto singolare, molto particolare. Tutto era stato previsto fuorché che venissero attaccate massicciamente le vie maestre del fondovalle. Si presidiavano con accanimento i picchi montani, pensando che prima di arrivare al fondo delle valli, si doveva passare attraverso le montagne. L'invenzione elementare, mi par di capire, degli austriaci, è stata quella che si tagliava fuori il monte e si attaccava direttamente sul fondovalle.
Caporetto per le dimensioni della sconfitta e soprattutto per il disastro che comportò in termini di cessione territoriale, dovuti anche a incertezze degli alti comandi (in un primo tempo si pensò a un ripiegamento sulla linea del Tagliamento, in un secondo momento il comando supremo rinunciò e decise, dopo non poche esitazioni di attestare l'ultimo fronte tra il Grappa e il Piave a difesa della pianura padana e dell'Italia nordorientale). Ma questo significò in pochi giorni una cessione enorme di territorio.
Questo va capito, va capito fino in fondo, se si considera come la prima guerra mondiale sia stata una guerra (soprattutto nei primi anni, in particolare nel fronte dell'Isonzo), sia stata una guerra in cui fiumi di sangue sono corsi per la conquista di una collina, di una vetta, di un avamposto, di una sponda, di una forra. E quindi, proprio questo carattere di enorme dispendiosità in termini di vite umane si ripercosse ovviamente sulla ritirata di Caporetto. Dopo aver sacrificato centinaia di migliaia di morti per avanzate di due, cinque, dieci chilometri, qui accadeva che nel giro di pochi giorni tutto il Friuli orientale e un pezzo di Veneto e della provincia di Treviso venivano a cadere quasi senza colpo ferire nelle mani degli austriaci.
Il secondo elemento riguarda la spiegazione, che non fu subito molto chiara. Tanto è vero che venne costituita una commissione d'inchiesta, che non diede a propria volta dei risultati molto soddisfacenti, nel senso che non fu in grado di mettere l'opinione pubblica in condizioni di scegliere fra le tre spiegazioni della disfatta.
Che erano, una la spiegazione tecnico-militare: errori di comando, trascuratezza nel considerare avvertimenti ed avvisaglie che pure si erano percepite nelle settimane precedenti, scarsa tempestività degli interventi, poca lungimiranza nel capire che non si trattava di un attacco tattico, diciamo così, ma di una vera e propria operazione di sfondamento del fronte e quindi un'operazione strategica, e così via…
La seconda spiegazione, quella alla quale naturalmente e maggiormente si attaccarono elementi della destra nazionalista e per ovvie ragioni lo stesso Cadorna che si sentiva, come comandante supremo posto in causa per la sconfitta, che è quella, come dire, della pugnalata alla schiena, del cedimento morale, del degno coronamento della propaganda disfattista. Secondo questa lettura non ci sarebbe stato nessun motivo serio, sul piano tecnico-operativo, che avrebbe potuto comportare un disastro di queste proporzioni, tutto sarebbe stato determinato da un morale delle truppe minato fin dalle fondamenta dalla propaganda disfattista, da inviti alla fraternizzazione… (Il '17 fu l'anno in cui su tutti i fronti d'Europa si assiste a fenomeni di fraternizzazione, mica soltanto a Caporetto, basta leggere Barbusse, basta leggere il diario di [… ?…] per sapere che quello… , basta leggere il libro … (ecco la placca arteriosclerotica che colpisce… !) va beh, Les mutineries du 1917 (Gli ammutinamenti del 1917), di un autore francese, un libro che è diventato ormai un classico. Il 17 è l'anno del crollo dell'Unione Sovietica (scusate, della Russia), l'anno che precede la pace di Brest-Litovsk, insomma è l'anno in cui tutti gli eserciti subiscono un tracollo di carattere morale e psicologico che è difficile imputare alla propaganda disfattista, e che è invece molto da imputare al logorio ormai insopportabile, di una guerra che si protraeva da quasi quattro anni e che aveva raggiunto limiti quasi insuperabili per la fisiologia del corpo umano.
La terza interpretazione, che è una variante della seconda è quella di Caporetto come “sciopero militare”. Caporetto non tanto fuga disordinata e impaurita di uomini fiaccati nel corpo e nella mente, Caporetto come un gesto deliberato di rifiuto del servizio della Patria e, per usare le parole del tenente Ottolenghi in Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu, Caporetto come esplicita volontà di voltare la bocca della mitragliatrice dall'altra parte, di sparare non più sul nemico ma di sparare su Roma, di sparare sul governo, di sparare sui comandanti militari, di sparare sulle autorità politiche. E questa interpretazione che fu soprattutto diffusa in una memorialistica a caldo degli anni Venti, il cui testo più noto è La rivolta dei santi maledetti, di Curzio Malaparte, che non a caso uscì con questo titolo in seconda edizione, quando Malaparte era diventato fascista, mentre in prima edizione quando Malaparte non era ancora fascista fu pubblicato con il titolo Viva Caporetto. Malaparte esaltava che cosa? Esaltava lo sciopero militare, che a suo giudizio era una forma di lotta di classe in cui purtroppo gli operai-soldati risultarono sconfitti perché non trovarono come in Russia il loro Lenin. Furono costretti a muoversi in modo disordinato, quasi spastico, privo di coordinamento, di guida, di direzione e quindi alla fine rimasero sconfitti. E, a riprova di questa interpretazione, Malaparte adduceva tutti gli episodi in cui si trovavano i carabinieri, che esercitavano funzioni di polizia militare, sparati alla schiena e con appeso al collo il cartello “aeroplano abbattuto”, visto che i cappelli dei carabinieri avevano appunto la forma dell'aeroplano.
Negli anni venti ci fu poi una fioritura letteraria attorno a Caporetto, alla spiegazione della sconfitta, della disfatta, legata anche alla, come dire, non necessità, ma all'opportunità fortemente sollecitata dall'interessato, di definire in maniera chiara e limpida il ruolo di Cadorna. E il libro più importante che fu pubblicato allora, infatti, destò qualche scandalo negli ambienti militaristi e nazionalisti perché proveniva da un nazionalista – dal quale quindi ci si sarebbe aspettato altro discorso – fu il Caporetto di Gioacchino Volpe. Gioacchino Volpe che era stato addetto stampa e funzionario al servizio P, il servizio di propaganda dell'Ottava Armata, l'armata del gen. Caviglia, e quindi aveva intensamente collaborato all'attività di propaganda dell'ultimo anno di guerra, del 1918, che in questo suo libretto, molto nitido, molto lineare come tutte le cose sue, spiegava che Caporetto era stato un fatto prettamente militare, dove gli errori non erano cumulabili in una sola persona, in singole persone, ma però errori che potevano essere equamente distribuiti, da Capello, Cadorna, comandanti subalterni, ma comunque fatto militare che si iscriveva in un fenomeno di stanchezza complessiva degli eserciti, che riguardavano le truppe di tutta Europa.
Successivamente, negli anni Sessanta e Settanta, ma soprattuto negli anni Sessanta, il dibattito riprese quando ripresero vigore le correnti pacifiste all'interno della società italiana e quando la guerra del Vietnam soprattutto determinò un rinnovato interesse per le guerre come fenomeni inutili, chiamiamoli così, di regolamento del contenzioso esistente fra paesi, stati, etnie, razze, gruppi e consorzi umani di varia natura. E così nel 1967, cinquantesimo anniversario, uscì I vinti di Caporetto, che era una raccolta di testi in presa diretta con un'introduzione dell'autore, in cui veniva in qualche modo avvallata la tesi dello sciopero militare. Ecco Plotone d'esecuzione di Forcella e Monticone in cui Caporetto è visto soprattutto negli esiti che ebbe sotto il profilo della sorte individuale e collettiva dei soldati che ne furono coinvolti e che ne dovettero pagare in termini di punizione gravosissima la conseguenze. Insomma mi fermo qui. Non si può certo dire che per quanto riguarda la conoscenza della dinamica dei fatti, dello svolgimento dell'operazione militare, si sappia poco. Non si può neppur dire che si sappia poco dal punto di vista dei dibattiti sia ideologici sia tecnici che accompagnarono l'episodio o che lo seguirono a distanza di venti, trenta, quaranta, cinquant'anni…
E allora perché un libro così ponderoso, così anche, oltre che ricco, tale da intimidire per mole (mi diceva prima l'autore-editore un po' anche per prezzo) il lettore. E questo era stato il motivo per cui inizialmente ero stato perplesso — Otello lo ricorda — di dirgli: «Sì ci sto» e gli ho detto: «Prima lo voglio vedere». Perché mi pareva difficile riuscire a dire, francamente, qualcosa di nuovo. E invece l'approccio del libro è, onestamente, un approccio di tipo assai originale. In particolare, va da sé, l'autore lo avrà già capito… il titolo è Caporetto, il sottotitolo è Storia, Testimonianze, Itinerari… l'apporto originale riguarda soprattutto le testimonianze e gli itinerari, riguarda essenzialmente la seconda parte dove si parla di un territorio di una comunità, di una serie di esperienze personali, individuali, di vita, di storie vissute in un luogo che è diventato un simbolo, anche se in negativo, ma un simbolo sicuramente della storia nazionale italiana dell'ultimo secolo.
Sono appena usciti i primi volumi di una collana diretta da Ernesto Galli della Loggia sull'identità nazionale italiana, dove oltre al libro del curatore, appuntoL'identità nazionale italiana, ci sono libri su Mirafiori, o sul santuario di Loreto. Ecco, indubbiamente Mirafiori rappresenta anche simbolicamente un luogo dell'anima e non soltanto del conflitto, nella storia italiana di questo secolo. Indubbiamente il santuario di Loreto rappresenta la stessa cosa, ma la stessa cosa rappresentata anche Caporetto; non foss'altro perché, a parte ciò che evoca da un punto di vista correttamente referenziale, è un termine entrato nel linguaggio corrente. Una Caporetto, la Caporetto dell'economia, Ciampi che rimedia la Caporetto dell'economia, e così via. Cioè Caporetto è diventato un luogo dell'anima, un luogo di altissimo valore simbolico che sta a indicare, come dire, la sconfitta di proporzioni gigantesche alla quale però poi si riesce in qualche modo a rimediare a riparare con un atteggiamento tipico della cultura e della mentalità italiana.
Infatti se voi riflettete, e soprattutto i più anziani credo me ne possano dare atto, alla simbologia di Caporetto è associata in maniera indissolubile la simbologia del Grappa e del Piave. Caporetto, sì, però poi c'è il Grappa, c'è il Piave, c'è la battaglia del Piave, c'è la battaglia di Vittorio Veneto, c'è la Vittoria. Caporetto è il momento in cui un popolo viene messo alla prova fino in fondo fino alle sue più intime fibre e capacità di resistenza alla sventura e dimostra nonostante l'immane entità del disastro di riuscire a reggere.
Allora, dicevo, ciò che rende originale questo libro è non soltanto, anzi, non tanto, il racconto delle vicende della guerra, delle offensive sull'Isonzo, di tutto ciò che ha preceduto Caporetto, che lo ha accompagnato, che lo ha seguito. Da questo punto di vista non è necessario rivolgersi a questo libro, si può rivolgersi anche ad altri, alla Storia della guerra mondiale di Piero Pieri che è “la madre di tutte le storie” della prima guerra mondiale, e ad altre ancora.
Si può dire a questo proposito che molto interessanti sono invece le fotografie e le tavole geografiche e topografiche, che non so come l'autore abbia rintracciato, ma che in alcuni casi non ho mai visto. Alcune le conoscevo, le ho trovate in altre pubblicazioni, altre sono state un'autentica sorpresa perché non ne ero assolutamente a conoscenza. Quindi questo elemento di, come dire, di accumulo di sapere topografico militare, per una vicenda di storia militare non è affatto indifferente.
Quello che invece costituisce, a mio giudizio, proprio l'elemento di grande curiosità, di grande interesse, di grande originalità del libro, sono la seconda e la terza parte, in cui l'autore, l'autore-editore, il coordinatore-guida di questo volume, si è avvalso prevalentemente di storici sloveni (sarà poi lui a dirci, se vorrà, come è entrato in contatto con costoro, in che modo è riuscito ad ottenere la loro collaborazione, perché gliel'hanno prestata)… in cui, come dire, l'evento guerra viene in qualche modo sfumato e riassorbito all'interno di una visione complessiva della vita sociale, culturale e politica in un lembo nord-orientale (non si può dire dell'Italia, perché Caporetto attualmente è in territorio sloveno) ma insomma in una zona di confine, in una zona di frontiera, in quella che nel libro viene definita una terra di profughi. E ai profughi nelle cosiddette “città di legno” che erano delle città dove venivano, durante la prima guerra mondiale sfollati e internati gli abitanti delle zone di guerra… (Fra l'altro io ho letto con particolare attenzione queste pagine anche perché recentemente ho avuto modo di discutere con una mia brava laureanda di Pola una tesi di laurea molto interessante sugli italiani d'Istria internati nei campi d'internamento austriaci durante la prima guerra mondiale. E la storia che questa ragazza racconta nella sua tesi è la storia dell'ennesima città di legno, dell'ennesima città di baracche, dell'ennesima città d'internamento)… Sono cose interessanti soprattutto da quando è uscito il libro di Kaminski sui campi di concentramento che ci spiega come i tedeschi nella seconda guerra mondiale abbiano perfezionato fino, come dire, … a una totalità maniacale le tecniche sia dell'internamento che dello sterminio, ma come dal 1896 in Europa fossero incominciate, si fossero incominciate a studiare le tecniche di deportazione in massa delle popolazioni.
E poi la terza parte che racconta la vita nei villaggi dell'Alto Isonzo e in esilio nel ricordo dei testimoni. Sono soprattutto testimonianze di gente comune, di persone che non avevano particolari responsabilità nella vita pubblica ma che avevano un requisito essenziale per rendere una testimonianza, cioè un radicamento autentico, e continuato nel tempo, nei luoghi e quindi una conoscenza sicura e controllata delle cose che raccontavano. A Caporetto durante la guerra, cosa accadde in questo posto, che nessuno conosce prima dell'ottobre del 1917. Chi sa cos'è Caporetto, prima dell'ottobre 1917? Poteva essere, non lo so, … io andavo a Piazzola sul Brenta l'altra sera, e ho scoperto — abitando a Padova da trent'anni — che un po' prima di Piazzola sul Brenta c'è una frazione che si chiama Del Medico, non l'avevo mai saputo… buono a sapersi — Voglio dire, ecco, chi sapeva cos'era Caporetto, il villaggio di Caporetto, prima del 24 ottobre 1917?
E poi la persistenza della memoria e il modo in cui, e questo è particolarmente interessante, in questo villaggio si custodisce, si rielabora e si restituisce la memoria di un grande evento di storia italiana anche se il luogo, in realtà, a questo evento ha dato poco più del nome. Perché, dico, a Kobarid, Caporetto, non è che si siano svolte gran cose, insomma. Lo sfondamento avviene fra Plezzo e Tolmino e dopo la guerra dilaga in pianura. Quindi il luogo diventa luogo simbolo proprio perché da una definizione toponomastica parte un'identificazione simbolica, che però si riflette, si riverbera, in qualche modo rimbalza, sul luogo d'origine, tanto è vero — altro elemento straordinariamente interessante del libro che ne parla con illustrazioni anche molto suggestive — tanto è vero che a Caporetto viene, in anni recenti, spero di poterlo andare a vedere perché io ci sono stato prima che venisse fondato, un museo dedicato appunto alle vicende della Grande Guerra in generale, se non sbaglio, e alle vicende particolari di quell'area nella fattispecie. E viene proprio creato in ragione di questa curiosa situazione. Cioè Caporetto non è Marzabotto, non è la risiera di San Sabba, non S. Anna di Stazzema. Voglio dire non è un luogo in cui il simbolo corrisponda all'identità del fatto avvenuto. E' un luogo che è diventato “luogo simbolo” malgrè soi, nonostante sé stesso. Perché il nome di un evento ben più grande di Kobarid è stato sintetizzato con quel nome.
Un ultimo punto riguarda proprio questo fatto, che credo spieghi anche la scelta dell'autore e coordinatore, soprattutto per ciò che riguarda i collaboratori che sono quasi tutti sloveni, Caporetto oggi si trova in territorio sloveno. Caporetto è il nome italiano di una terra che nel corso della prima guerra mondiale si voleva fosse italiana ma che appartiene, dopo il trattato di pace, del 10 febbraio 1947, appartiene alla Repubblica Slovena. E si chiama appunto Kobarid. E però ciò che è particolarmente interessante — lei mi corregga se mi sbaglio, se ho capito male tutto questo — mi pare che […malgrado] il fatto che si tratti di un villaggio sloveno, abitato quasi totalmente da elementi sloveni, è un luogo che ha accettato con un lodevole cosmopolitismo intellettuale di essere e di rappresentare il simbolo di un capitolo fondamentale della storia di un altro paese. Questo mi pare l'aspetto più straordinario della vicenda. Detto brutalmente, potrebbe essere formulato così: «Erano sloveni, cosa gliene fregava?». Sia con gli austriaci, sia con gli italiani, in ogni caso erano destinati a rimanere una minoranza compressa e perseguitata, come fu perseguitata poi, basta pensare alle proteste dei vescovi, contro le discriminazioni contro il clero sloveno negli anni del fascismo. Ma austriaci o italiani sarebbero sempre stati comunque i padroni di una minoranza etnica beffata oltretutto perché in loco era maggioranza e che sarebbe stata sottoposta a una dominazione allogena. Eppure le testimonianze slovene che raccoglie Camillo Pavan documentano come con grande spirito, ripeto di cosmopolitismo e di eleganza internazionalista, insomma, ecco… gli sloveni abbiano accettato di fare di Kobarid, costruendoci anche il museo di Caporetto un luogo in cui essi sloveni, collaborano ad una sorta di rivisitazione non retorica ma storicamente attendibile di una vicenda che è diventata appunto simbolo di uno snodo cruciale della storia d'Italia. Ecco, a me, e anche qui se ho sbagliato l'autore mi correggerà, sembra che la chiave di lettura, il filo conduttore del libro, sia appunto la Caporetto slovena. Cioè, forse più che Caporetto si sarebbe dovuto chiamare Kobarid, il libro. Ciò che ha di nuovo, rispetto alle storie militari di quella vicenda, ciò che ha di nuovo nel racconto del prima, del dopo, della vita quotidiana, degli usi, dei costumi, del folklore, delle tradizioni popolari degli sloveni del luogo, il libro ha proprio come filo rosso che lo attraversa tutto, questa idea di un capitolo di storia italiana avvenuto in terra slovena. Cioè la Caporetto non italiana, Kobarid.
Un'ultima cosa vorrei dire, non per mettere il pizzico di veleno nella coda, insomma, come spesso accade, o per esprimere così dissensi. Ci sono tecniche retoriche ben note, in questo tipo di occasioni, di presentazioni. Uno prima suona la gran cassa, fa finta di parlar bene di una cosa e poi con aria noncurante, verso la fine, piazza lì un'osservazione apparentemente di striscio, che in realtà demolisce l'opera. No, non si tratta assolutamente di questo. Si tratta del fatto che per i miei gusti intellettuali, per le mie preferenze personali, per il modo in cui leggo la storia d'Italia non mi ha persuaso fino in fondo, anzi se devo dire la verità non mi ha persuaso affatto questa lunga citazione di Don Lorenzo Milani tratta da L'obbedienza non è più una virtù collocata nell'incipit del libro e che, fermo restando tutto il rispetto che si deve a Lorenzo Milani, è una sorta di sintesi in dieci righe della storia della prima guerra mondiale che secondo me è francamente inaccettabile. E' improntata a una forma di pacifismo fra il populista e il pretesco che non appartiene alla mia cultura e spero non apparterà mai. Milani in queste righe dimentica che cosa quella guerra significò, giusta o sbagliata che fosse, ma era una guerra mondiale, una guerra europea, in termini nation building, di creazione di un'embrione di nazione italiana che ancora non c'era. Per carità, dico, se è possibile costruire una nazione senza fare le guerre, è giusto meglio, però ci fu anche questo aspetto e affermazioni come «fu la guerra di Cadorna… Giolitti aveva detto che avremmo potuto avere gli stessi risultati negoziando la neutralità», cose di un'ingenuità assolutamente folle. Voglio dire, certo che Giolitti scriveva questo, però poi bisogna vedere se sarebbe stato vero che ci avrebbero dato il Trentino, la Venezia Giulia e magari anche qualcosa di più, soltanto in cambio della neutralità. C'è un pacifismo piagnone, ingenuo, molto diffuso devo dire nel nostro paese, soprattutto da venti-trent'anni a questa parte, e che dovrebbe essere assoggettato secondo me a un lavacro razionale un po' più severo. Non so — anche questo lo dirà Camillo Pavan, se vorrà — se egli si riconosce totalmente in queste parole di Don Milani, o se, semplicemente, gli sono sembrate idonee, adatte a introdurre un libro come il suo che è un libro tutto giocato certamente sul contrappunto tra lo sconvolgimento della guerra in un luogo dove si vive normalmente in pace, anche se in una condizione di austerità quasi spartana, di costumi, di tecnologia, di usanze, di relazioni e di tecniche del vivere.
Grazie
Intervento di Camillo Pavan
Dunque, cinque minuti solo, perché non è che sia il mio mestiere, purtroppo, trattenere molto il pubblico; lui è un professore, io sono un autodidatta. Mi è doveroso ringraziare innanzi tutto il direttore della Feltrinelli, qui di Padova, che mi ha così, tranquillamente, prima detto di sì, di fare questa presentazione, e poi procurato addirittura un professore universitario. … (Non un professore universitario, me! Perché di professori universitari ce n'è tanti!… scherzo, eh … Lanaro)
Comunque per me è un motivo di grande orgoglio. Sono veramente orgoglioso, dico sinceramente, che lei abbia letto il mio libro e l'abbia trovato interessante.
Comincio da quest'ultima obiezione, perché è la prima volta che uno me la fa, e sono anche qui molto contento che lei me l'abbia fatta. Perché tutti fingono di non leggerla, e invece c'è, è proprio nell'esergo, non so come si chiami quella posizione. Io l'ho messa volutamente. Dico anche che ero molto incerto. «Metto o non metto. La metto più lunga, la metto più corta. Forse è meglio che non la metta». E in un certo senso dopo averla messa mi sono chiamato anche pentito, perché mi rendo conto di come una guerra sia molto, molto più complessa di come la presenta [Don Milani]…(Beh, allora sono contento… Lanaro)… Ma adesso non lo dico per farlo contento! (No, no, no… comunque… questo lo immagino, però sono contento lo stesso! Lanaro). Scrivendo e occupandomi di guerra (perchè fino prima mi ero occupato del Sile e del Radicchio rosso di Treviso, e non di guerra; ho dovuto, così, inventarmi un mestiere che non conoscevo) mi rendo conto che le cose sono molto più complesse di come le presenta Don Milani.
Malgrado questo, sono lo stesso contento di averla messa perché pone un problema che è fondamentalmente il problema della guerra giusta e della guerra non giusta. Cioè, lui dice: La prima guerra mondiale non è stata giusta perché avremmo ottenuto lo stesso, cosa da dimostrare, perché effettivamente anch'io poi ho letto che non era così automatico che sarebbe stato dato all'Italia quello che ha ottenuto; però dice che sarebbe stato giusto invece intervenire nella seconda fase, dopo la guerra contro quella "banda di criminali" (e penso che più o meno possiamo concordare) che sono stati i fascisti. Invece l'esercito, in quel momento, pur essendo fatto da gente che tanto aveva nominato la parola Patria, in quel momento ha lasciato mano libera a queste squadracce che poi hanno preso il potere. E quindi io l'ho lasciata, e tutto sommato sono anche contento, anche se mi mette un po' in crisi, sempre, questa citazione, perché, alla fine di questi tre volumi, se mai arriverò alla fine, vorrei proprio porre…
Interviene Lanaro:
Scusi, posso interromperla, perché volevo… visto che ci sono alcuni miei ragazzi, alcuni miei studenti, e vorrei che restasse loro una considerazione che per me è capitale, e che era all'origine anche di questa parziale critica su Don Milani.
Se le squadracce hanno conquistato il potere, se i fascisti sono andati al governo, se hanno fatto dell'Italia quello che hanno fatto, è anche perché, insomma, nel corso del 1919 si è assistito a un fenomeno che non è mai accaduto da nessun'altra parte del mondo. Un fenomeno per cui si è sistematicamente denigrata, svillaneggiata, sputacchiata, sputtanata una guerra vinta. Una guerra vinta con morti, con sangue, con sacrifici, con atti di eroismo magari non voluti (perché nessuno vuol far l'eroe), ma vinta. Quando tu, di una guerra vinta, l'unica poi della nostra storia, perché le altre le abbiamo perse tutte… quando uno di una guerra vinta fa un motivo di autoflagellazione, di autofrustrazione, come se tutto ciò che era stato fatto per vincere fosse stato atto colpevole, è evidente che allora non si costruisce nulla moralmente. Solo questo volevo dire, ecco… Io credo che espressioni come quelle di Don Milani vadano un momento corrette nel senso che l'Italia ha dovuto pagare dei prezzi molto alti a un'operazione dissennata di denigrazione di una guerra… di una guerra vinta. E che non era una guerra imperialista, nello spirito con cui la combattevano, almeno, i soldati o gli ufficiali di complemento; non parlo degli alti comandi, insomma. Chiusa la parentesi; mi scuso di averla interrotta.
Riprende Pavan:
No, no, mancherebbe altro. E siccome l'ho messa all'inizio ed è giusto che uno la veda e me la dica, e nessuno mai aveva tirato fuori questa citazione… ho anche piacere, così mi chiarisco anch'io le idee.
Il motivo principale stavo per dire, e poi concludo questa parentesi, è che alla fine di questo ciclo, di questi tre libri che presumibilmente, in un piano decennale di lavoro, dovrei finire nel 2003 (ho cominciato nel 1993), vorrei proprio porre in un capitolo, e chiedermi: «E' possibile, punto di domanda, una soluzione dei conflitti internazionali, senza ricorrere alla guerra? Cioè, è possibile arrivare… ». Lui, questo prete, dice, da buon prete, è sempre la teoria vecchia della guerra giusta e della guerra non giusta, io ci vedo sotto a quella citazione: che ci sono guerre giuste e guerre non giuste, e quindi accetta fondamentalmente l'idea della guerra. Io, che sono nato, sia pure di poco, dopo l'esplosione della bomba atomica, mi domando: «E' ancora possibile parlare di guerre giuste e guerre non giuste, nell'epoca delle armi di distruzione di massa? E' possibile arrivare alla messa a tabù del concetto stesso di guerra? Cosa bisogna fare per far questo? ».
Io ho un figlio che ha vent'anni e farà l'obiettore di coscienza. Lo prendo sempre in giro perché gli dico, ma cosa fai… sono capaci tutti far gli obiettori di coscienza e andar servire i vecchietti e andar su una biblioteca… ma se viene veramente un conflitto cui l'Italia bene o male deve partecipare, cosa fa uno che si dichiara pacifista? Come te, e come sostanzialmente [me] … non so se chiamarmi pacifista o antimilitarista… certo che io non ho fatto il militare, ma non perché ero obiettore di coscienza, per fortuna non l'ho fatto, perché ero il terzo figlio e c'era questa legge… Comunque questo è il dilemma che io mi pongo. «E' possibile arrivare, l'umanità, a non ricorrere alla guerra per risolvere i conflitti internazionali? ».
Questo l'ho messo all'inizio, perché poi alla fine riprenderò questo discorso, magari interpellando un generale, con la mia tecnica di mettere un po' in confronto le due opinioni, e un pacifista, e vedere cosa vien fuori da questo dibattito, e poi mettendo anch'io delle mie considerazioni, su quello che intanto ho capito in questo lavoro che è in fase di attuazione…
E comunque la ringrazio in ogni caso di aver parlato di questa citazione, perché, le ripeto, anche tanti che so esser magari di destra… fanno finta di non aver letto… Invece c'era questa citazione, io l'ho messa, mi ha costato anche un certo ripensamento… tutto sommato sono contento di averla messa perché poi la richiamerò nel terzo volume…
Parlava delle foto e delle carte. Quelle lì diciamo che le ho trovate, e sono stato molto fortunato, al museo del Risorgimento a Roma, non so se lei conosca, sopra l'Altare della Patria, il Vittoriano… fra l'altro è un posto bellissimo, si vede tutta Roma, soffia anche un po' di ponentino, se non altro perché si è al quarto piano… e mi hanno lasciato fotografare proprio fotografie originali del Servizio fotografico del Comando supremo, senza neanche farmi pagare niente (per il momento…) quindi mi considero molto fortunato.
Per quanto riguarda poi questo collegamento Piave-Caporetto, anch'io ho fatto questo collegamento, all'inverso. Nel senso che il libro è iniziato dal Piave. Io ho trovato un vecchio, diciamo pure questa parola anche se adesso non si usa più dire, di novant'anni che ricordava quand'era piccolo (… beh, a novant'anni forse si può ancora dire! a sessanta, no, ma a novanta…! Lanaro)… Si può anche dire vecchio, non è un'offesa dire vecchio, anche perché prima o poi ci arriviamo tutti… speriamo di arrivarci a novant'anni!
Beh, insomma questo si ricordava che quando era piccolo c'erano questi tedeschi che erano arrivati sulla riva del Piave, e lui è scappato, è andato profugo. E dentro di me è scattata come una molla. Ma senti un po' cosa dice questo… io ho di fronte a me proprio un documento vivente, un testimone di un'epoca che io consideravo già chiusa, già vecchia quando andavo a scuola. Perché della prima guerra mondiale, per quel poco che si è studiato a scuola, la si considerava già vecchia ancora cinquant'anni fa. A me per la verità sembrava vecchia anche la seconda guerra mondiale, che mi raccontava mio padre.
Allora via a intervistare questo ed altri personaggi lungo il Piave, perché più che essere appunto uno storico, mi considero un cronista, non so come dire, un amanuense come qualcuno ha detto, cerco di conservare queste memorie, perché non vadano perse… (fine lato A della cassetta)
Lato B
… il Piave sì, ma il Piave ha avuto origine da Caporetto. Allora sono andato a Caporetto, e lì ho avuto la fortuna di trovare questi dirigenti del museo… e veramente anch'io ho notato questo spirito, che una volta si diceva internazionalista in senso marxista, non so… (di farsi carico della storia degli altri, Lanaro)… di rendersi conto che sono in una posizione, anche geografica, che sono a cavallo di varie culture: la cultura slava, la cultura tedesca e quella italiana. E loro hanno affrontato in maniera veramente imparziale… non so se lei andrà a veder il museo, concorderà. (Eh… ci andrò, Lanaro). L'hanno veramente organizzato bene, hanno vinto il premio della comunità europea dato ai musei, e lì ho trovato uno dei dirigenti che mi ha aiutato molto… e mi ha anche dato una chiave di lettura, per quello ho messo a confronto giornali italiani e giornali sloveni. Perché lui, parlando … a un certo punto è venuto fuori il “miracolo” di Caporetto.
«Ma come, per noi è la disfatta e per loro… senti che roba…» e così ho messo in confronto i giornali italiani e i giornali sloveni… e ho trovato un'abitante di Caporetto, una signora che ora abita a Venezia, ma che è nata a Caporetto, un'insegnante di liceo che mi ha tradotto questi giornali sloveni. E poi, ho sentito io stesso l'esigenza. Mi son detto, se loro che sono sloveni fanno questa operazione, e prendono anche critiche, a livello di base, perché ogni tanto mi dicono, guarda che sul Delo, non so, sul giornale tal dei tali vengono fuori critiche nei nostri confronti, (lettere dai lettori) che dicono, ma come, voi parlate degli italiani, con tutto quello che ci hanno fatto, parlando della seconda guerra mondiale, perché purtroppo c'è sempre un po' il dente avvelenato… Ma loro dicono, la prima guerra mondiale ha avuto questi avvenimenti e noi li trattiamo.
Allora poi ho voluto sentire un altro dirigente del museo di Nuova Gorizia (Goriški Muzej)… anche lì ho trovato belle foto… Sapevo che aveva fatto belle ricerche sui campi profughi, barakenlager, sulle città di legno e gli ho detto fammi questa ricerca. Poi sono andato da un'altra che sapevo che aveva fatto una ricerca sui profughi sloveni in Italia, una dottoressa dell'Accademia delle Arti e Scienze di Lubiana… Questo perché sentivo l'esigenza di rendere più completo e anche, diciamo, più originale, questo lavoro. E anche perché volenti o nolenti italiani e sloveni, onestamente, sulle zone di confine, così, come è inevitabile, come anche noi con i vicini di casa a volte facciamo baruffa… Non è facile avere dei rapporti, così, distesi. Adesso c'è un processo, malgrado tutto, di distensione e di comprensione reciproca. Allora anch'io volevo dare il mio piccolo contributo, sia pure da autodidatta come non mi stanco di ripetere, alla comprensione reciproca di fenomeni storici così importanti quale è stata la prima guerra mondiale. Questo per quanto riguarda il perché, volutamente, ho scelto dei collaboratori sloveni e perché volutamente ho messo dei giornali sloveni tradotti e confrontati con il contemporaneo giornale italiano, che era il maggiore dell'epoca… il Corriere della Sera, che vendeva un milione e mezzo di copie.
Io mi rendo conto che il mio limite maggiore è quello di non avere un'impostazione forse complessiva, da storico vero e proprio. D'altronde fino a quattro anni fa non mi occupavo di storia di questo tipo…
Adesso dico che il secondo volume si occuperà della ritirata di Caporetto; il terzo volume dell'ultimo anno della guerra, la vittoria italiana e il disfacimento dell'impero austro ungarico. Anche lì ho visto; che ci sono bellissimi documenti, ci sono belle testimonianze. Il problema grosso che mi si pone di fronte adesso, a parte quello economico che le accennavo prima… (è una battuta), il problema grosso è come riuscire a conciliare le testimonianze numerosissime che riesco a trovare in questa vasta area occupata dagli austro-tedeschi in quell'anno, l'anno della fame, come è unanimemente ricordato; come conciliare questi fatti che riguardano la popolazione civile con gli eventi militari che li hanno determinati. E non sarà facile, perché qui a Caporetto mi è stato abbastanza semplice in quanto le testimonianze sono state 14 e le ho messe in un capitolo a parte e poi sono riuscito a fare un montaggio in qualche maniera scorrevole di tutto il lavoro. Adesso sto arrovellandomi in quest'anno, con la scusa che sono in giro a cercare di vendere il libro e nel frattempo raccolgo testimonianze… mi domando come farò, anche nei prossimi volumi a mettere d'accordo le due cose.
Per concludere io chiedo sempre, quando faccio qualche incontro, quando vado in qualche scuola, in qualche biblioteca, se c'è qualcuno che ha qualche documento, qualche foto vecchia, qualche diario, qualcosa che riguardi l'ultimo anno della guerra, la ritirata di Caporetto, la fine della guerra … se è così gentile di segnalarmelo; se hanno un nonno, uno zio. Io ho l'ambizione di fare sempre un lavoro collettivo, anche se lo faccio, lo gestisco e lo coordino io. Un lavoro in cui, insomma, emerge l'esperienza tragica, drammatica vissuta qui a casa nostra. A Padova che di fatto era la capitale della guerra nell'ultimo anno. Vissuta nel cortile di casa mia che era a dieci km dal fronte, Treviso; e vissuta sul Piave e sotto l'occupazione austro-ungarica, che è ben ricordata dagli anziani del posto proprio come un anno di fame drammatica… mano a mano, questo, che si avvicinava alla linea dello scontro fra i due eserciti. Perché poi, più in là [più lontano dalla linea del fuoco] sì… si ricorda[no] la fame, le ristrettezze, ma non fame vera e propria. Ma, per dire, a Miane, dove sono andato anche insieme con la moglie a fare un sondaggio (Miane è vicino a Follina? Lanaro) … sì, appena di là della linea del Piave, in territorio occupato, sono andato a guardare gli archivi parrocchiali, una fonte che mi sembra doveroso confrontare, per vedere come vivevano. Insomma, ho notato una cosa incredibile, che mentre normalmente negli anni precedenti morivano in un anno — in un paese, non so se di cinquemila abitanti, o non ricordo quanti di preciso — morivano 50 abitanti all'anno, nel 17-18, sono morti 500 abitanti. Provi immaginare lei cosa ha voluto dire solo questo dato, la durezza di quell'anno lì, e perché sia ricordato come l'anno della fame, tuttora, dai vecchi. Ma i giovani non se ne ricordano più.
Ecco, io il motivo per cui ci tengo ormai a finire quest'opera che è veramente molto gravosa per me, sia da un punto di vista diciamo intellettuale, e sia anche economicamente, è proprio perché non venga persa la memoria di questi testimoni ultimi, ancora viventi, di questi fatti drammatici.
Lanaro:
Io penso che di questo la dobbiamo ringraziare e se mi permette non soltanto lei ma tutti coloro che meritoriamente si dedicano a questa raccolta critica di memorie. Nel senso che per noi, più o meno bravi, più o meno capaci, più o meno provveduti, che facciamo gli storici di professione, lavori come questo costituiscono fasi intermedie di elaborazione di materiali di straordinaria e insostituibile importanza. Libri come questo Caporetto curato da lei, che significato hanno, in sostanza, detto in due parole? Di raccogliere tutta una serie di testimonianze che permetterà tra due, tre, cinque, dieci anni a chi la farà, a me, a un altro, a voi due diventati grandi, non so a chi, di riuscire a scrivere la storia di una società, di una comunità, di un paese in guerra, dove la guerra non vuol dire soltanto che si spara, che si avanza, che si arretra, che si ripiega, ma che si vive, che si costruiscono utensili con determinati attrezzi, che si fa l'amore, che si muore, che si muore di fame, che si muore più di fame di altre volte. Io credo che il contributo proprio più utile di questo tipo di memorie che vengono assemblate in libri importanti come questo, consista proprio nello smantellare il concetto ingannatore e fasullo dell'evento storico eccezionale, come se fosse qualche cosa che risucchia tutto, che mangia tutto e che non lascia nulla fuori di se stesso. Non è che fra il 1915 e 18 in Italia ci sono soltanto i cannoni che tuonano, i fucili che sparano, i soldati che muoiono in trincea, gli alti comandi che mandano all'assalto i fantaccini. C'è una società che vive, che pulsa. Ci sono i teatri, ci sono i cabaret, c'è una vita che va analizzata nei suoi elementi di normalità, come anche negli elementi di alterazione, che subisce in ragione di un evento bellico, che non può essere indubbiamente indifferente date le sue dimensioni e data la sua importanza. Ma ecco, questa memorialistica serve proprio a indagare in modo finalmente serio storiograficamente, l'intreccio tra eccezionalità e normalità che caratterizza i periodi storici cruciali e le guerre in particolare.
E applaudiamo l'autore!
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