martedì 21 ottobre 2014

Livio Vanzetto, 1986 - Recensione e analisi critica di "Drio el Sil" di Camillo Pavan

Note a margine
Intellettuali di paese Drio el Sil e nei dintorni
di Livio Vanzetto

Quando, qualche mese fa, ci incontrammo per la prima volta, compresi subito che, da un punto di vista culturale, Camillo Pavan apparteneva, come me, ad un gruppo sociale e generazionale i cui membri, pur dispersi nel territorio e poco numerosi, presentano alcune caratteristiche assai ben delineate: 35-40 anni, origini rurali, (...)
 prime esperienze di vita in parrocchia, studi condotti a termine superando oggettive difficoltà e un inconfessato senso di disagio verso una cultura ufficiale urbanocentrica e sostanzialmente estranea alle nostre esperienze di vita.  E poi, a vent'anni, lo smarrimento di fronte alle vicende della contestazione, di fronte a eventi che ci attiravano ma verso i quali permaneva, al fondo, una sorta di inespressa diffidenza; i primi anni settanta vissuti talvolta da spettatori talaltra da protagonisti, ma sempre con l’urgenza di trovare un lavoro che ci costringeva ad accantonare altre aspirazioni. Anni fecondi, tuttavia, che hanno inciso profondamente sulla nostra personalità e sulle nostre scelte: come quella, quasi obbligata, dell’insegnamento, ad esempio; o come quella che ci ha portato a mettere in discussione i rapporti esistenti con tutto ciò che era stato importante fino ad allora, gli amici, la parrocchia, la vita di paese, l’attività politica nel partito cattolico; senza però arrivare a tagliare i ponti in maniera completa e definitiva. Ognuno conservò qualche forma di contatto, nella speranza, più o meno consapevole, di ricostruire legami, di ritrovare un ruolo utile alla comunità, contribuendo alla sua crescita e alla sua trasformazione.
La nostra presenza in paese continuava, dunque.
Era questo un fatto nuovo per i piccoli centri del Veneto contadino; fino ad allora, i pochi giovani che avevano potuto studiare o erano diventati preti oppure, una volta ottenuta la laurea, avevano finito coll'estraniarsi dall'ambiente di provenienza non solo e non tanto per ragioni di lavoro, ma perché divenuti irrimediabilmente diversi, impossibilitati, pena la rinuncia completa a se stessi, a conciliare la propria cultura con quella del paese: “pì che i studia e pì bauchi i deventa”, dicevano i vecchi padri contadini e, dal loro punto di vista, non avevano certo torto.
Solo nella particolare congiuntura degli anni settanta, per la prima volta come si diceva, qualche intellettuale di paese poté rifiutare l’alternativa tra l’andar via e il mimetizzarsi nell'ambiente locale.
Incerti sul da farsi, senza punti di riferimento, guardati spesso con diffidenza dalle autorità tradizionali, questi giovani laureati trovarono qualche spazio nelle nascenti biblioteche comunali, nell'organizzazione di asfittici gruppi culturali o in una ingrata attività di rinnovamento svolta all'interno della scuola dell’obbligo. Poi, le difficoltà degli anni ottanta, il riflusso, l’indifferenza, l’immobilismo della scuola costrinsero molti, delusi, ad un ulteriore ripiegamento; non una resa però, tantoché, senza nulla sapere l’uno dell’altro, parecchi si ritrovarono, quasi una scelta obbligata, impegnati nello studio del proprio ambiente: storia locale, ma anche dialettologia, folklore, architettura rurale, sociologia, economia.
Il fine dichiarato di tali studi è, di solito, quello didattico, nell'illusione di riuscire a trasmettere attraverso la scuola le proprie esperienze di ricerca, contribuendo alla costruzione di una nuova cultura; in realtà, al fondo, c’è spesso un desiderio esistenziale di ritrovare un ruolo attivo nella comunità, di ricucire uno strappo che pesa come un tradimento, di riaprire un dialogo, di riscoprire il senso della solidarietà e della complicità paesana.
Non esiste forse comune rurale dove non vi sia qualcuno della nostra generazione che abbia intrapreso delle ricerche o che conservi nel cassetto un dattiloscritto di studi locali. Più difficile pubblicarlo, dato che non sempre l’amministrazione comunale è disponibile; e inoltre, obiettivamente, non c’è un mercato, non c’è una vera domanda per opere del genere, spesso considerate dai potenziali lettori (i compaesani) come un lusso costoso, un’inutile perdita di tempo; al massimo apprezzate se stampate con la copertina patinata e le illustrazioni a colori.
Anche Camillo Pavan ha dovuto aspettare a lungo prima di riuscire a pubblicare il suo dattiloscritto. Trevigiano di campagna, ex insegnante passato, senza rimpianti all'agricoltura ecologica, Pavan non aveva certo credenziali sufficienti per suscitare l’interesse di coloro che, in Treviso, gestiscono la politica culturale; era fuori dal giro, come si suol dire.
Ha inviato perciò il suo dattiloscritto a qualche esponente della cultura ufficiale veneta, ricevendo una risposta entusiastica da Ulderico Bernardi. Incoraggiato, ha partecipato con il suo inedito alla prima edizione del “Premio nazionale dei giovani” sulle culture locali (S. Donà di Piave) e sorprendentemente ha ottenuto il primo premio dotato di cinque milioni di lire. Utilizzando tale somma si è fatto quindi editore del proprio lavoro, stampandone mille copie; un’edizione povera ma dignitosa, su carta riciclata e con foto in bianco e nero.
Giorni fa Camillo Pavan, di ritorno da una sagra paesana dove si era recato per vendere il suo libro, si è fermato a casa mia e mi ha lasciato una copia che ho letto subito con curiosità.
A parte le prime cinquanta pagine di demografia locale, una specie di capitolo introduttivo per il quale vengono utilizzati, come fonte, i registri parrocchiali dal 1574 al 1650, non si tratta propriamente di una ricerca di storia; il libro si presenta piuttosto come una trascrizione di interviste rilasciate da anziani di S. Angelo e Canizzano (frazioni rurali del comune di Treviso), attraverso le quali l’autore ricostruisce alcuni aspetti della cultura materiale tradizionale di questi paesi del Sile: la macinazione, la pesca, la fauna e la flora del fiume e la loro utilizzazione, le attività domestiche, la vita quotidiana.
Il libro non possiede un filo conduttore preciso; ha piuttosto la struttura di una raccolta di reportages giornalistici sulla cultura rurale in riva al fiume. Eppure esso rivela, al fondo, una unitarietà ed un fascino che gli derivano forse dalla partecipazione emotiva dell’autore, dal suo essere dentro a ciascun personaggio, a ciascuna vicenda. Da ogni parte traspare un sincero amore per la propria terra che non sconfina nel languoroso e che si manifesta invece nella fedeltà con la quale Pavan tratta gli intervistati, senza nulla aggiungere o nulla togliere alle loro parole, limitandosi a dal loro voce in uno stile semplice, ma efficace e piacevole. 
Nessun intellettualismo, nessuna pretesa di interpretazione storico-sociologica della realtà, ma solo pietas storica e umana adesione. Tutto questo finisce per rendere il lavoro accessibile anche a lettori sprovveduti, a compaesani per i quali l’incontro con la “saggistica” rappresenta un evento del tutto eccezionale; possibile solo quando, come in questo caso, l’autore non si presenta come “diverso”, “altro”, estraneo al gruppo, ma viene sentito e vissuto, anche in quanto scrittore, come uno del paese, uno di cui ci si può fidare, uno dei “nostri”.
E questo è forse ciò che differenzia maggiormente Drio el Sil da tante altre ricerche locali pubblicate in questi ultimi anni, le quali, non di rado, si presentano come studi accurati, penetranti, ben scritti, non meno, e anzi, in qualche caso, più di quello di Pavan, ma che finiscono quasi sempre per porsi al di fuori dell'universo conoscitivo della gente del paese.
Dev'essere stato proprio questo particolare ad attirare l’attenzione di uno studioso come Ulderico Bernardi, senz'altro il principale patrocinatore del lavoro di Pavan dal momento che ne ha scritto la prefazione, ha presieduto la commissione che ha selezionato per il “Premio dei giovani” e, dopo la pubblicazione, ha continuato ad appoggiarne la diffusione con giudizi più che lusinghieri, ripresi dalla stampa locale.
Proprio Bernardi accenna nell'introduzione ad un altro pregio che differenzia Drio el Sil da una certa produzione corrente: Pavan conosce benissimo, in quanto di estrazione contadina, tutta la falsità di talune ricostruzioni oleografiche e nostalgicamente folkloristiche del recente passato contenute nelle opere di “studiosi”, solitamente di estrazione urbana, non si sa se in mala fede o più semplicemente ingenui, e si rende perfettamente conto dell’improponibilità di una visione arcadica della realtà contadina per chi porta ancora sulla propria pelle o nella memoria i segni delle sofferenze e delle umiliazioni patite.
Il passato di Canizzano e S. Angelo viene quindi ricostruito in termini realistici, senza indulgere alla nostalgia, con qualche luce ma anche sottolineando le tante ombre: lavoro massacrante, privazioni, dolore.
E fin qui i pregi del lavoro di Pavan.
Lo scopo di queste note però, al di là della recensione, è anche quello di individuare alcuni fermenti oggi in atto nell'attività culturale di provincia e, nel contempo, di ricercare una strada praticabile per contribuire, attraverso l’impegno intellettuale, alla crescita civile del Veneto più tradizionale.
Per offrire ulteriori elementi di valutazione in proposito, ritengo utile interrompere momentaneamente l’analisi del libro di Pavan, assunto come esempio significativo di precise tendenze oggi in atto, per prendere in considerazione un’altra ricerca di diversa impostazione, uscita proprio in questi giorni, la cui lettura aiuta a cogliere, per contrasto, alcuni rischi presenti in Drio el Sil, tanto più insidiosi in quanto, a prima vista difficilmente individuabili.
Vedelago oltre il paesaggio è un libro ideato e scritto da R. Bortolazzo, G. Lanaro, R. Morao, A. Vettoretto, quattro insegnanti di Vedelago (TV), con i quali sono in contatto da anni (in un caso, in strettissimo contatto), a buon diritto classificabili tra gli intellettuali di paese di cui si parlava all’inizio. Gli autori analizzano la realtà attuale del loro comune, tenendo conto del recente passato ma soprattutto con l’attenzione rivolta al futuro; lo fanno usando gli strumenti della statistica, della sociologia, dell’economia o utilizzando studi di geologia, botanica, zoologia e altre scienze naturali.
Ne esce un libro complesso, sicuramente estraneo, culturalmente ed ideologicamente, alla mentalità paesana; nonostante ciò, anche in questo caso, traspare un profondo attaccamento non solo alla propria terra ma anche a quei compaesani, spesso emarginati ed incapaci di emanciparsi da un[a] secolare inferiorità, che incontrano crescenti difficoltà “culturali” di fronte alla trasformazione degli ultimi anni e che rischiano di vedere perpetuarsi la loro subalternità.
La contraddizione tra l’essere dentro emotivamente all'ambiente studiato e l’esserne fuori culturalmente e razionalmente, che contraddistingue le stesse scelte di vita degli autori, si manifesta dunque in maniera piuttosto marcata anche nel libro.
L’aver scelto un linguaggio e strumenti d’indagine estranei all'ambiente locale consente di cogliere limiti, difetti e possibili involuzioni della società paesana, ma, d’altro canto, comporta anche il rischio di non riuscire ad instaurare un dialogo con i destinatari della ricerca, propensi a rifiutare e a rimuovere un prodotto sentito come espressione di una cultura dotta, di origine urbana, verso la quale permane una istintiva diffidenza. 
A differenza di Pavan la cui capacità di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda popolare viene pagata con un sostanziale conformismo culturale, gli autori del libro di Vedelago rischiano di veder vanificata la loro azione di stimolo a causa di una sorta di intraducibilità delle loro riflessioni nel linguaggio comune; e questo nonostante tutta una serie di accurate e talvolta brillanti soluzioni tecnico-divulgative (foto, grafici, cartine, tabelle).
Resta la possibilità che i contenuti del volume vengono mediati e tradotti, all'interno delle scuole, da insegnanti sensibili e preparati; cosa non impossibile, specie se l’opinione pubblica e le autorità locali si dimostreranno interessate e disponibili.
Occorre però osservare che quest’ultima non è certo una condizione che può essere data per scontata; la pubblicazione del volume a spese del Comune e della Cassa rurale è stata infatti resa possibile dalla presenza, caso piuttosto infrequente in zona, di un sindaco sensibile, che dichiara di credere a questo genere di iniziative suscitatrici di confronto pluralistico e che riesce ad imporle, grazie al prestigio di cui gode, ad un ambiente sostanzialmente scettico e talvolta ostile.
Assenza di pluralismo culturale: questo è appunto il problema storico di paesi caratterizzati ancora oggi da una straordinaria uniforme omogeneità comportante un forte rischio di colonizzazione esterna; un destino evitabile forse solo valorizzando al massimo le poche forze in grado di garantire un minimo di dialettica culturale, condizione indispensabile per una crescita autonoma che faccia leva su valori quali orgoglio, fierezza e un senso popolare dell’onorabilità non ancora inquinato dalla pratica della corruzione.
Vedelago oltre il paesaggio è in grado, almeno potenzialmente, di dare un contributo in tale direzione; si tratta infatti di un libro che, nonostante qualche difetto di impostazione quale, ad esempio, una insufficiente individuazione di chiare linee interpretative attorno alle quali raccogliere gli innumerevoli dati disponibili, ha il merito di evidenziare, grazie alla disaggregazione territoriale dei dati, peculiarità e problemi paesani che ricerche più generali non riescono mai a mettere in luce; come, a titolo esemplificativo, le preoccupanti inequivocabili tendenze rilevate nel settore dell’istruzione, che dimostrano come Vedelago, nonostante il suo dinamismo economico, non riesca a produrre attualmente una classe dirigente autoctona. Si tratta evidentemente di un fatto che potrebbe portare, in breve volgere di anni, a una pesante subordinazione del paese a forze economiche, culturali e politiche con interessi contrapposti a quelli della maggioranza della popolazione; un processo, del resto, già in corso e tutt'altro che nuovo per la storia di questi paesi. 
Ebbene, la consapevolezza critica di questo e di altri problemi esistenti rappresenta, di per sé, un prezioso contributo alla loro soluzione.
Proprio questo manca nel libro di Pavan, al quale ritorno per ulteriori considerazioni miranti non tanto a una sterile critica, quanto a porre qualche dubbio metodologico a quegli studiosi locali che si accingono o aspirano ad occuparsi, con iniziative culturali, del proprio paese e che potrebbero essere indotti a seguire pedissequamente un esempio che ha riscosso un discreto successo e che non richiede, oltretutto, una preparazione teorica particolarmente approfondita e dispendiosa.
Entrando nel merito della questione, non mi preoccupa tanto il fatto che la riproposizione di un passato di stenti e di miserie possa far emergere, nelle nuove generazioni, sentimenti di gratitudine e di consenso verso chi avrebbe reso possibile la costruzione di un presente incomparabilmente migliore: la conoscenza della realtà è, in ogni caso, un fatto positivo purché, da un punto di vista educativo, essa comporti l’acquisizione di consapevolezza critica suscitatrice di stimoli e di riflessioni.
Il problema è che la metodologia con la quale, in Drio el Sil e in opere simili, viene analizzato il passato contadino appare piuttosto discutibile proprio da quest’ultimo punto di vista; con la scusa di rispettarli, l’autore si mimetizza completamente dietro i suoi personaggi e, così facendo, ne ripropone acriticamente e astoricamente valori ed ideologie.
“Non vorrei tornare indietro … con la vita che ho fatto … dicevo sempre a mio marito: guarda… se sposeremo tutti i nostri figli… quando andranno a fare queste gite, guarda, non ne perderemo una. Il Signore ha fatto che mi sia ammalata alle gambe, non ho più potuto andare in alcun posto (p. 118)”.
È vero che testimonianze del genere possono essere viste e proposte come documenti di un certo tipo di mentalità abituata ad accettare la vita con fatalismo e rassegnazione, senza chiedere le ragioni dello sfruttamento e delle ingiustizie del passato o del malessere e delle malattie del presente. In realtà, però, non sembra essere quella documentaria la preoccupazione predominante di Pavan, che si pone invece l’obiettivo di rivitalizzare una “cultura in estinzione”, di ricercare nel passato valori e comportamenti, a torto ritenuti superati, al fine di riutilizzarli nella costruzione di una nuova cultura capace di ricomporre organicamente la frattura apertasi tra identità sociale e identità culturale delle genti venete.
Se tutto questo è vero, allora l’impostazione data ad un lavoro come Drio el Sil non rappresenta soltanto un problema stilistico o letterario la cui soluzione compete all’autore in base alla sua personale sensibilità ed attitudine, ma costituisce una scelta di politica culturale, effettuata in maniera forse inconsapevole e sulla quale, proprio per questo, occorre riflettere.
La vecchia storiografia municipalistica tendeva ad instillare nei giovani l’amor di patria, ricercando idiograficamente, a livello di paese, esempi utili a creare nelle masse uno spirito e un’identificazione nazionale. Stiamo forse per assistere oggi alla rinascita (se mai è morta) di una storia locale événémentielle tesa, stavolta, a ricostruire tanto minuziosamente quanto acriticamente la cultura materiale contadina e con il fine recondito di ribadire le vecchie istanze ruralistiche della classe paternalista veneta, magari riverniciate con il moderno linguaggio della sociologia?
Si osserva da taluno non potersi trattare, nella fattispecie, di operazione reazionaria, dal momento che, una volta tanto, si fanno parlare i “senza voce”, gli sfruttati, le masse subalterne; non è difficile però rendersi conto che le classi subalterne sono tali appunto perché “dominate” e rimangono tali finché “il senso che esse conferiscono al proprio agire occulta e legittima le condizioni di sfruttamento e di alienazione all’interno delle quali l’agire stesso si realizza” (A. Signorelli).
A questo proposito va riconosciuto che Pavan denuncia con forza i guasti dell’inquinamento del Sile, il “degrado di quello che fu un fiume da bere”; ma lo fa rimanendo sostanzialmente all'interno delle categorie mentali degli intervistati, incapaci, proprio in quanto subalterni, di individuare le cause strutturali della distruzione ambientale: colpa dei pesticidi usati dagli agricoltori – dicono –, colpa degli allevatori delle trote, colpa dei pescatori dilettanti. E, coerentemente con questa impostazione, il contadino Pavan rinuncia ad usare diserbanti o veleni nella sua azienda; ma è proprio quella del volontarismo individuale la strada giusta per affrontare e risolvere i problemi ambientali?
In fondo, ha ragione Bernardi a sottolineare nell'introduzione (p. 2), con intenti agiografici, come, nelle pagine di Drio el Sil, “esca confermata ancora una volta la straordinaria capacità (delle masse venete) di resistere e di reinventare ogni giorno la vita risolvendo ogni sorta di problemi, sia pur nella modestia delle risorse disponibili”.
Il fatto che, in base a questa “capacità di resistere”, cittadini singoli e gruppi spontanei provvedano meritoriamente, anche se entro limiti circoscritti, alla salvaguardia del bene collettivo porta a sminuire e rischia di occultare le precise responsabilità di una classe dirigente che, non di rado, finisce per preoccuparsi soltanto di se stessa.
E allora in questo quadro, sostenere, come fa Pavan, che il passato contadino va studiato con il fine di restituire dignità e orgoglio a masse che rischiano di perdere la loro identità mi sembra solo un’affermazione priva di riscontro; in realtà, con questo tipo di ricerche, si corre il rischio di riproporre e di “salvare” proprio quella parte della cultura delle masse subalterne che è fatta di rassegnazione, deferenza, servilismo e che è stata sapientemente costruita pezzo per pezzo imbavagliando, strumentalizzando, conculcando le aspirazioni e le manifestazioni più spontanee ed istintive delle plebi rurali; un patrimonio inestimabile per una certa classe dirigente, frutto del lavoro paziente, meticoloso, per certi versi geniale di decine di generazioni dell’élite moderata veneta, a partire dalla conquista veneziana.  
Le difficoltà incontrate negli ultimi anni nel gestire una trasformazione tumultuosa che rischia di disperdere questa “preziosa” eredità, potrebbero indurre qualcuno a tentare di utilizzare anche gli intellettuali di paese come strumento di controllo sociale.
Da questo punto di vista, mi lascia piuttosto perplesso, pur riconoscendo la necessità di salvaguardare importanti testimonianze del nostro passato, anche la proposta di trasformare il mulino abbandonato del Sile in un museo-laboratorio nel quale perpetuare le tradizionali tecniche di macinazione, utilizzando i vecchi strumenti e la vecchia manodopera.
Si tratta di un progetto che ricalca quello, elaborato qualche anno fa da Bernardi, dei “Centri studi etnografici” di paese, nuovi santuari, un po’ chiese e un po’ osterie, della cultura contadina: in teoria, luoghi di socializzazione per masse “deculturate” alla riscoperta della loro identità storica; in pratica, a mio avviso, ambienti inevitabilmente destinati ad esser monopolizzati ed utilizzati come occasione di svago di una mediocre classe media tanto poco avvezza a porsi interrogativi sul senso della propria attività culturale quanto desiderosa di soddisfare piccole ambizioni personali.
Pavan però aggiunge, di suo, una trovata in certo modo geniale: utilizzare la farina “ecologica” macinata ad acqua con la mola di pietra per fare enormi polente da servire, con bisata e trote del Sile, a ospiti presumibilmente di estrazione borghese e desiderosi di riscoprire, anche a caro prezzo, le loro disseccatissime radici; ingegnosa nemesi storica del mondo rurale tradizionale, attuata, non a caso, proprio con la complicità della polenta, l’alimento-simbolo dello sfruttamento padronale.
Comunque, al di là di ogni critica o posizione personale, una cosa mi sembra incontestabile: Pavan e gli altri intellettuali di paese si adoperano onestamente, con i mezzi a disposizione, per contribuire alla salvaguardia del proprio ambiente.
Ciascuno, ovviamente, percorre strade e sperimenta soluzioni diverse, ed appare difficile individuare scelte chiare ed univoche. Importante è evitare il rischio della strumentalizzazione, sempre presente data la posizione di debolezza e di isolamento della maggior parte di questi operatori culturali. In ogni caso, la loro presenza critica in paese rappresenta un fatto nuovo che va salvaguardato e valorizzato; come è nuovo e incoraggiante per il superamento della separatezza tipica di queste aree il fatto che “Venetica” si occupi di opere quali Drio el Sil o Vedelago oltre il paesaggio, paradigmaticamente scelte all’interno di un filone minore fino qualche anno fa rigorosamente underground per la cultura accademico-ufficiale di destra e di sinistra.
Venetica, Rivista di Soria delle Venezie, Aldo Francisci editore, n. 6, luglio - dicembre 1986, pp. 152-160

Venetica, 6-1986 - Colophon
Venetica, Rivista di storia delle Venezie 
(studi, bibliografie e materiali per la storia dei secoli XVIII-XX)
Direttore responsabile: Giulio Antonio Galla / Amministrazione: 
Aldo Francisci Editore, via Puccini 27 - Abano Terme (PD)
Comitato direttivo: Emilio Franzina, Mario Isnenghi, Silvio Lanaro
Coordinatore : Emilio Franzina, Vicenza.


Venetica, Rivista di storia delle Venezie
(Prima serie), numero 6 - 1986

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