Cronaca di due viaggi in barcone sul Sile. Il primo risale al 1969,
quando ero un aspirante giornalista.
Mai avrei pensato in quell'occasione che, quasi vent'anni più tardi durante la preparazione del libro sul Sile, avrei ripercorso la via d'acqua fra Treviso e Venezia su un burcio per trasporto merci assieme all'ultimo barcaro ancora in attività.
Mai avrei pensato in quell'occasione che, quasi vent'anni più tardi durante la preparazione del libro sul Sile, avrei ripercorso la via d'acqua fra Treviso e Venezia su un burcio per trasporto merci assieme all'ultimo barcaro ancora in attività.
Trasporto fluviale, navigazione interna: 1969, barcari del Sile. Articolo di Camillo Pavan |
La
ricalibratura del Sile farà sparire
le tradizionali carovane dei «barcari»
le tradizionali carovane dei «barcari»
Vanno a poco più di 10 chilometri all’ora, in un’epoca
caratterizzata dal mito della velocità. Sono riuniti in «carovana», un nome
strano che fa pensare quasi ad una confraternita segreta. Sono in pochi, una
trentina: i «barcari del Sile». A Casale sul Sile vivono le famiglie di più
antica tradizione: gli Sponchia, gli Stefanato, i Continetto che da secoli si
tramandano il mestiere di padre in figlio. A Casale c’è anche la sede della
loro «carovana» coordinata da G. Carlo Sponchia, giovane 22enne entusiasta del
proprio lavoro il quale ci spiega le difficoltà di vincere la concorrenza dei
grossi armatori veneziani e come ora siano riusciti ad assicurarsi i trasporti
per conto del mangimificio del consorzio agrario di Casale e delle numerose
fornaci della zona, tutte prospicienti il Sile.
Siamo saliti su uno dei loro barconi: quello di Antonio Sponchia,
il padre di Giancarlo. Assieme a Sponchia a bordo delle loro barche, partono
anche Giovanni Continetto e Giovanni Rosso. Giovanni Continetto, 58 anni,
lavora sul Sile da quando ne aveva 11 ed è stato fino a sei mesi fa il
presidente della carovana. Giovanni Rosso è il più giovane, ma anche lui ha
iniziato a lavorare nelle barche fin da bambino. A differenza di
Continetto non proviene però da una famiglia di barcari. Prima di partire Rosso
ci fa presente la necessità di aumentare i prezzi del trasporto: «Ormai è
aumentato il costo di ogni merce, afferma, ma noi continuiamo a trasportare
materiale allo stesso prezzo di 10 anni fa». Poi scende in cabina per avviare
il motore. È mezzogiorno, è l’ora del «via». La navigazione sul Sile fino a
Portegrandi è infatti regolata da un preciso orario, si può scendere verso il
mare solo dalle 4 alle 8 e dalle 12 alle 16: le altre ore sono riservate alla
risalita. E il motivo è facilmente intuibile dato l’alto numero di curve e la
modesta larghezza del Sile.
Saliamo sul Giancaro S. Antonio
Sponchia, il proprietario, ha 51 anni ed un fisico ancora vigoroso, asciutto,
da atleta. È l’ultimo di una famiglia dalle secolari tradizioni di barcari.
Quand’era giovane lavorava assieme ad altri 8 fratelli e ad una decina di
cugini. Poi venne la guerra e gli anni che la seguirono furono anni di fame.
Lavoro non ce n’era. Le barche rimanevano ferme per mesi. In pochi
resistettero. La maggior parte se ne andò all’estero o a Marghera in cerca di
un po’ di pane. Lui rimase, e superata la crisi, si comprò un barcone proprio,
non molto grande. 65 tonnellate, ma sufficiente a tirare avanti la
famiglia. In viaggio assieme ad Antonio Sponchia c’è uno dei suoi figli,
Rino: è il più piccolo, ma già tiene il timone con la sicurezza di un adulto. È
in vacanza: altri suoi amici sono al mare o in montagna, lui guida una barca da
650 quintali, a 11 anni.
Il primo paese che incontriamo è Quarto d’Altino. Proseguiamo
costeggiando la strada per Jesolo. Corriamo a 10-12 chilometri all’ora. «È una
velocità discreta, dice Antonio Sponchia, in quattro ore saremo a Porto
Marghera. Una volta non ci impiegavamo mai meno di un giorno. Ovviamente non
c’era ancora il motore. Le barche venivano trainate da diverse paia di buoi
fino a Casale e poi da cavalli fino a Portegrandi. Giunti in laguna si doveva
iniziare la navigazione con le vele. Non sempre c’era il vento sufficiente. A
volte c’era la nebbia: allora ci si fermava, anche per una settimana, in attesa
di una schiarita».
Intanto sulla statale le auto sfrecciano veloci, sorpassano, hanno
fretta di godere fino all’ultimo momento le proprie vacanze. Sul Sile invece
non c’è fretta. Anche il paesaggio invita alla calma, con i suoi canneti, i
pioppi, le acque che scorrono lente, susseguirsi di curve sinuose. Solo il
ronzio soffocato del motore della barca ci ricorda che siamo nell’era delle
macchine. Per il resto alla vista del convoglio di barche che scorre
lentamente, si ha l’illusione di vivere in un’epoca lontana. «Qui nessuno viene
a darci ordini, non c’è da timbrare il “cartellino”. Dobbiamo fare il viaggio e
basta. Per questo sono contento del mio mestiere. Per questo mi piacerebbe
lasciare la barca a mio figlio». All’una e mezza siamo alle chiuse di
Portegrandi. Ci vuole quasi mezz’ora perché passino le barche. In effetti l’impianto
di Portegrandi è decisamente superato con le sue saracinesche da aprire a mano.
Approfittiamo della sosta per fare conoscenza con Vittorio
Stefanato, «il gigante del Sile» che è in attesa del suo turno di passaggio.
Sessant’anni, kg. 120 di peso Vittorio Stefanato è l’ultimo capo di una
famiglia interamente composta da barcari. I suoi tre figli Bruno, Renzo e Leo
(tutti pezzi da 90, è il caso di dirlo, data la loro complessione fisica
gigantesca) lavorano infatti assieme al padre. Come ai vecchi tempi, prima che
il miraggio della città rubasse al Sile tutti i suoi giovani. Stefanato impreca
contro le grosse motobarche degli armatori veneziani. Fanno concorrenza alle
sue barche di piccolo cabotaggio, dice.
Attraversata la fertile terra di bonifica che si trova alle spalle
di Portegrandi, si giunge in laguna. Si passa in mezzo a sandoli di pescatori;
si costeggia Torcello, Burano e Murano. All’orizzonte emergono dalla foschia
Venezia e i suoi campanili. I turisti che affollano i motoscafi ci guardano
curiosi, scattano fotografie: anche i barconi fanno parte del paesaggio
lagunare. Ben presto però abbandoniamo la rotta per Venezia. Imbocchiamo il
canale di San Giuliano. Qui l’acqua è già nera: la inquinazione è il biglietto
da visita di Marghera. Si entra nel canale dei petroli navigando su un liquido
giallastro che una volta era acqua ed ora è un misto di nafta, olii, acidi e
rifiuti di vario genere. Si ritorna alla realtà; nella civiltà industriale non
c’è posto per il sentimento. I campanili di Venezia sono sostituiti dalle
ciminiere degli stabilimenti. La foschia della laguna cede il posto ai gas di
scarico. I barcari non sono più i padroni del Sile. Le loro barche scivolano
tra rimorchiatori e motonavi. Ormeggiano al molo B di fianco allo scafo di una
gigantesca nave russa. Il ritorno verrà fatto l’indomani. I barcari usciranno
dal porto furtivamente, come vi sono entrati. Sono gli ultimi rappresentanti di
un’epoca che non conosceva orari di navigazione o turni di lavoro. Fra poco ci
sarà la «ricalibratura» del Sile. Tutti ne parlano e sarà senz’altro utile
all’economia della zona. Ma per le loro piccole barche non ci sarà più posto.
Camillo Pavan
Il Gazzettino, edizione di Treviso, 21 agosto 1969
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