Drio el Sil s’è meritato sicuramente il premio. Per una fortunata coincidenza, la prima edizione ha potuto segnalare e distinguere un’opera che risponde in modo compiuto ai requisiti posti dal regolamento. La stessa cosa, probabilmente, non s’è verificata nelle edizioni successive. L’opera si rivolge ai giovani, evocando per loro un universo ormai scomparso, e salvandone la memoria. Un universo nel quale anch'essi affondano le radici spirituali, le radici di sangue e di costume, ma che, dati i profondi cambiamenti avvenuti in pochi decenni nel nostro modo di vivere, è perfettamente sconosciuto ai più.
Il fiume Sile
Il fiume Sile nasce da polle risorgive, poco più in là di Quinto. Si pensa sia l’acqua del Piave - ma la cosa non è provata - che torna alla luce del sole dopo essere sprofondata nella roccia carsica, molto più a monte. Non essendo il Sile un fiume alpino, il suo regime idrico non presenta turbolenze di sorta. La sua portata rimane praticamente costante. Non conosce né esondazioni né siccità. Il suo letto, non raspato dai detriti rocciosi – detriti che, invece, i fiumi alpini trascinano a valle in grande quantità - permette la crescita d’una rigogliosa vegetazione subacquea. Le lunghe alghe d’un colore verde cupo ondeggiano sotto il pelo dell’acqua e gli conferiscono un fascino arcano. Sulle sue sponde, tanti anni fa, s’allargavano numerose paludi, per nulla malsane, che l’uomo aveva saputo regolare e gestire a proprio vantaggio. Il Sile scorre da Ovest verso Est fino a Treviso, dove s’accompagna col Botteniga-Cagnan, quindi volge decisamente a Sud, passa per Silea e giunge, dopo numerose anse, ad Jesolo. Qui occupa l’antico alveo del Piave e sfocia nell'Adriatico. Il fiume imprime il suo carattere sugli abitanti che vivono lungo le sue sponde. In altri tempi, sarebbe stato adorato come un dio benigno.
Struttura del libro Prima parte: Libera nos a peste, fame et bello ...
Il libro si divide in tre parti. Nella prima, l’Autore ripercorre la storia dei luoghi e dei loro abitanti, ricostruendo la struttura sociale ed economica della comunità. Egli si serve soprattutto dei vecchi documenti parrocchiali di S.Angelo e di Canizzano, degli atti preparatori del Catasto austriaco e del Comune di Treviso. La sintesi dei dati è fatta dall'Autore con diligenza scientifica, ma senza annoiare. Le famiglie risultano composte, su una popolazione di circa trecentocinquanta abitanti, mediamente, da otto persone. Relativamente poche, se si hanno a mente le famiglie contadine che molti di noi hanno fatto in tempo a conoscere. Era tuttavia una media molto elevata, per quel tempo, a confronto delle medie note, grazie a studi omologhi, relativi ad altre realtà venete. Il Sile costituiva una notevole risorsa economica ed alimentare, soprattutto grazie alla pesca. Il fatto può forse spiegare la media elevata di persone nella famiglia tipo. Questa poteva contare, per il proprio sostentamento, non solo sul lavoro della terra, ma anche su quell’ulteriore risorsa – e sul palù. Pare anzi che, per più d’un nucleo familiare, la pesca fosse l’attività principale, se non l’esclusiva. In questa prima parte del libro, Camillo Pavan ci dà inoltre un quadro della natalità, della mortalità e della composizione sociale della comunità. Descrive inoltre una pia istituzione, la “Scola”, e le devastazioni portate dalla terribile peste del 1630.
Seconda parte Il villaggio dei Molini
Nella seconda parte, Camillo Pavan riporta in vita la vecchia Canizzano, il “villaggio dei molini” – molini ad acqua, che dopo aver conosciuto momenti di grande attività, oggi sono ridotti ad un solo ed unico molino in produzione. Egli evoca anche alcune figure di mugnai, come Carlo Torresan e Guido e Ruggero Granello – questi due non erano parenti, nonostante l’omonimia - i migliori nella loro arte, e ne racconta la vita. Sono storie umili, ma intimamente intrecciate con la “grande” storia – il regime fascista, la guerra, la prigionia, la ricostruzione - e con quella del costume. L’Autore propone il ricupero di una delle vecchie strutture per insediarvi un museo del molino e dà, in prospettiva, il proprio contributo scientifico, redigendo una specie di enciclopedia in cui descrive gli impianti, i materiali, le parti componenti delle grandi macine e gli strumenti, le tecniche ed il lessico dell’arte molitoria.
Pre (biter) Marco Sabbadini
Camillo Pavan ha il dono di saper vivacizzare il racconto, facendo risaltare, contestualmente all'analisi dei dati, particolari aspetti umani, che riguardano sia l’antica collettività, sia i singoli individui. Risalta, indirettamente, la figura del pre(biter, cioè prete) Marco Sabbadini, parroco di S.Angelo tra il 1599 ed il 1643, che fino al 1642, in base alle direttive emanate dal Concilio Tridentino, annota le date di nascita e di battesimo dei suoi parrocchiani - in un secondo tempo comincerà a registrare anche i matrimoni ed i decessi. Le sue annotazioni rispecchiano il nuovo atteggiamento rigorista della Chiesa in materia di costumi sessuali e di matrimonio. Fino all’ultimo scorcio del secolo XVI, la nascita di illegittimi non destava particolare scandalo. Poi furono considerati figli del peccato, soprattutto del peccato delle donne. Annota pre Marco: “A di 7 agosto 1616. Domenicha figlia di Donna Menega da S.Salvadore veniva in questa villa per partorire questa figlia di padre incerto. Fu battezzata da me pre Marco Sabbadini… Nacque a di ditto…” A differenza di quanto accadeva in precedenza, il padre restava innominato - “incerto” - perché si doveva far risaltare il peccato della sciagurata madre. Ed i signori maschietti certamente ne approfittavano.
A morte
Quanto ai decessi, in quel tempo la morte improvvisa e subitanea era molto temuta, e considerata una assai brutta fine, perché non dava il tempo di confessarsi. Il successore di Pre Marco sente il dovere, registrando uno di questi casi, di garantire per un parrocchiano: “1650 adì 20 zugno. Piero Baruolo morì all’improvviso ma si era confessato [da pochi giorni]…et erano pochi giorni passati et era huomo di buona vita.” La morte dei “poareti” era miserevole, come miserevole era stata la loro vita. Annota pre Marco “A di 9 zenaro 1620. Bernardin poveretto, di anni 16 in circha da Morgan, morse sulla teza delli Garbini in questa villa et il suo cadauero fu sepelito in questo cimiterio di S.to Angelo presente il populo.” Povero Bernardin, morto di stenti e di freddo nella “teza”, cioè nel fienile, solo come un cane
I nomi
Come si chiamavano quei nostri lontani antenati? Camillo Pavan è curioso anche di questo (chi scrive ha avuto un sussulto, leggendo in un elenco di mugnai il nome Gottardo Toffolo, un probabile antenato). Fra i maschi il nome più diffuso era Mathio (Matteo), seguito a ruota da Menego (Domenico). Abbastanza diffusi erano Zuane, Zanetto, Zamaria, Zambattista, Hieronimo, Santo, Bortolo, Battista, Anzolo, Biasio. Assai poco frequenti, invece – stranamente, se si pensa alla diffusione che avrebbero avuto qualche generazione dopo, e fino a poco tempo fa – erano Isepo (Giuseppe), Jacomo, Piero, Toni. Poco diffusi erano anche i nomi di Marco e Paolo (registrato, quest’ultimo, solo una volta, nella forma di Paulino). Il nome più esotico è invece, secondo noi, quello di Olivo, che ricorre una sola volta in trent'anni di annotazioni. Fra le donne, il primato spettava a Menega, Cattarina (anche Catherina), Lucia, Anzola, Ruosa (Rosa). I nomi meno frequenti erano invece quelli di Cicilia, Gratia, Pierina, Valentina. I più originali, Armellina, Andriana, Vendramina.
Terza parte Vita e lavoro lungo il Sile
La terza parte del libro è dedicata alla vita ed al lavoro lungo il Sile. Camillo Pavan parte dal “palù” - la palude - di cui descrive l’ambiente, le risorse, la vegetazione e la fauna. Poi, per mezzo di interviste ai personaggi più rappresentativi di alcuni mestieri legati alla tradizione, ricostruisce, coi loro ricordi, la realtà viva di un mondo che va scomparendo. Ed allora, con Gusto Beteti, detto el Sciopetin, scopriamo la grande importanza dell’attività venatoria nell’economia familiare di qualche generazione fa, ma anche i guasti prodotti oggi nell’ambiente dall’uso dei pesticidi in agricoltura e dagli scarichi industriali. Con Gino Condota e Giulio Capeasso entriamo invece nell’universo della pesca nel Sile. Era l’universo della tipica barca spuntata a fondo piatto - le fabbricavamo in orto, su due cavalletti, ed usavamo più catrame che legno – nel quale la preda più ambita era la “bisata”, cioè l’anguilla. Cicci Bonaventura ci guida quindi in quello beato dei divertimenti dei ragazzini del borgo, mentre Pina Pinarea – vale a dire sposata Pinarello - rievoca le fatiche della “issia”, cioè del bucato con la liscivia, come si faceva ai tempi andati.
Sandonàdomani (G.Toffolo, per)
Conosciamo Camillo Pavan solo di fama, e tutte le notizie che abbiamo di lui sono più che buone. È uno che ama scrivere, uno caparbio, uno che ama la sua terra e la sostanza delle cose, proprio come la gente di S.Angelo e Canizzano. Alla quale, con “Drio el Sil”, egli ha elevato un piccolo, duraturo monumento. Spesso si trova contro l’ottusità della burocrazia, ma tant’è. Il professor Ulderico Bernardi considera il suo libro come un elemento essenziale per delineare lo “scenario complessivo delle culture rurali” venete. Ma è importante anche il paesaggio umano, che l’Autore torna a far palpitare di nuova vita, scotendo amorevolmente le scritture parrocchiali secentesche del buon pre Marco Sabbadini. Un paesaggio umano fatto di storie personali, emblematiche per le difficoltà e per le fatiche, che meritano di essere ricordate e tramandate nel ricordo delle nuove generazioni. Sono le storie di lavoro, di vita e di morte, dei nostri antenati. Come s’è detto, chi scrive, ha forse riconosciuto un proprio avo in uno degli elenchi riportati alla luce da Camillo Pavan. È stata una forte emozione, soprattutto per uno che non ha mai avuto la benché minima tentazione di far svolgere ricerche araldiche sulla propria famiglia, come invece pare sia molto di moda oggi, fra gli inquilini delle villette a schiera. Prezioso è anche il contributo che Camillo Pavan dà in materia di tecniche, di procedure, di strumenti e di materiali propri delle attività gravitanti attorno al Sile, dalla molitura, alla pesca, alla caccia, allo sfruttamento del “palù”. Non è assente la poesia, come quando egli evoca il piacere che Menego Caivo provava contemplando una nuova alba sul Sile.
Nell'opera sono anche dei nei. Tra le imprecisioni che dovrebbero essere emendate nelle prossime edizioni, proprio per non far torto a questo bel libro, c’è l’etimologia non propriamente esatta del dialettale “conpare” - colui che è “con il padre”. C’è inoltre da chiarire un passaggio oscuro, nel quale sembra che fra le cause di morte infantile sia anche il battesimo (?). Un’ultima osservazione, concernente le scelte riguardanti il dialetto. Le risposte in dialetto degli intervistati sono difficili da leggere, anche per chi il dialetto lo conosce. Il testo risulterebbe molto alleggerito, a nostro sommesso avviso, se tali risposte fossero date direttamente in italiano, con le sole parole chiave in trevisano. Crediamo infine che non abbia giustificazione alcuna scrivere il dialetto “come si parla”. Per esempio, ci pare molto brutto scrivere “paeù” invece di “palù” – da palus, latino, palude – come corregge anche il professor Bernardi, con molto più tatto e signorilità di chi scrive. Quella lì non è una e, ma una elle che si pronuncia (quasi) e, e come elle va mantenuta, scrivendo. Non possiamo confondere le idee a coloro che studieranno queste cose in futuro, sviandoli con una scrittura trasandata – erroneamente considerata come fedeltà al “parlato”, come fiero attaccamento alla pronuncia autentica e popolare. Cosa, questa, che rimane tutta da dimostrare, ed è anzi assolutamente falsa, per un orecchio attento - dalla corretta etimologia. Come l’inglese, come il francese, come l’italiano – proprio come l’italiano, ragazzi! – anche il dialetto, qualche volta si scrive in un modo e si pronuncia in un altro. Stesso discorso vale per il brutto “s’ciopetin” invece di “sciopetin”. In veneto il suono italiano sc di scena non esiste, quindi, quando si trova un digramma sc in uno scritto dialettale, lo si pronunci, senza timori e tremori, esse più ci di ciocco. Come “sciopo”, come “scioco”! Camillo Pavan ci perdoni queste osservazioni, dietro le quali non è alcuna ostilità, ma il condiviso amore per il dialetto, che ha una sua dignità, anche letteraria, e quindi non solo non va scritto “come si parla” – che poi non è vero - ma nemmeno con sistemi e segni ostrogotici come quelli mutuati dall'alfabeto fonetico internazionale. Ne renderebbero, in definitiva, più difficile l’approccio. Respingerebbero il lettore, recando un pessimo servizio all'idioma natio. Per il resto, un gran bel libro, il suo, senza dubbio. Soprattutto piacevole da leggere. Che, quindi va letto subito, o giovani!
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NdC (21 ottobre 2014) - Non sono riuscito a recuperare le date dei testi di Toffolo e Pettoello, pubblicati nell'archivio di Sandonàdomani online. Sito web non più disponibile.
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