sabato 1 settembre 2012

Vittorio Stefanato, una vita da barcaro (1910-1990)

Storia della navigazione fluviale - interna in Italia
Vittorio Stefanato (1910-1990), alla guida del Silis


L'iniziazione

L’anno scolastico stava per terminare. Vittorio Stefanato in un banco della pluriclasse seconda e terza della scuola elementare di Corbolone più che la lezione della maestra seguiva, come al solito, i suoi pensieri, con i quali scorazzava nei campi e nei canali del suo paese. «La vissìn ghe ièra un campo che noantri ciamàimo el Martinuss e dove ghe ièra tanti residuati. Mi gavéa coràio de ndàr tor na granata e dopo me metéa sol mureto de sora l’arsere dea Livensa a bàtarla. Tac, tac, tac col martèo torno à a spoéta». (Lì vicino c’era un campo che noi chiamavamo el Martinuss dove c’erano tanti residuati bellici. Io avevo il coraggio di andar a prendere una granata e dopo mi mettevo sul muretto sopra l’argine della Livenza a batterla. Tac, tac, tac, col martello attorno alla spoletta ...).
Vittorio continuava il gioco finché non riusciva a togliere il piombo che c’era dentro e a levare le bacchette cariche di polvere (e paréa dei bìgoi grossi - sembravano dei grossi spaghetti) che, una volta accese, scoppiettavano e facevano scintille simili a dei fuochi d’artificio. Era un gioco pericoloso. In tanti morirono, disintegrati dallo scoppio dell’ordigno. In tanti rimasero mutilati. A lui andò sempre bene.
Quando non era a recuperare residuati andava in acqua, a noàr.  Sempre in acqua, nel Fosson, nel Malghèr, nella Livenza. A nuotare, a pescare o a far gare di resistenza sott’acqua. «Resistéo anca un minuto e mèso, sóto - resistevo anche un minuto e mezzo, sotto». 
Decisamente la scuola non gli piaceva. «No che sia sta mona, però» precisa. Infatti «da mìitar so passà caporal, sergente, sergente magior e, par motivi speciài, pasàva maresiàl  ma invesse ‘sé sta l’Oto Setembre».  (Non che sia stato stupido, però. Infatti da militare sono diventato caporale, sergente, sergente maggiore e, per motivi speciali, sarei passato maresciallo, ma invece c’è stato l’Otto Settembre).
Il fatto è che gli interessi di Vittorio non coincidevano con quanto previsto dai programmi ministeriali. E poi lui  aveva le sue idee, che si era formato in casa, a contatto con i barcari amici di suo padre. Perché negli anni infuocati del primo dopoguerra a Corbolone e negli altri paesi della Bassa fra Piave e Livenza la parola “rivoluzione” veniva pronunciata spesso, ed erano in molti a sperare che anche da loro succedesse come in Russia.
La famiglia di Vittorio era saldamente socialista. E ne andava fiera. Il figlio maggiore, Carlo, «el faséa amor a na tosa che ièra sartora»  (aveva una fidanzata che faceva la sarta) la quale nei momenti liberi preparava per il moroso e i suoi compagni camicie, fazzoletti, berretti ed altri drappi rigorosamente in rosso, in modo che risultasse subito chiaro da che parte stavano.
La maestra Elisa Maschietto invece non aveva dubbi. Vittorio Stefanato, i suoi familiari e i suoi amici, erano sovversivi ed andavano isolati. Lei veniva da Venezia, da una buona famiglia ed era ammiratrice dell’ex direttore dell’Avanti!. Preferiva il colore nero al rosso. Quella mattina del 21 maggio 1921 distribuì a ciascun scolaro un nastro tricolore. Poi iniziò la lezione di storia, parlando della Patria e della prossima data del 24 maggio, che per l’Italia aveva segnato l’inizio della Grande Guerra.
Vittorio Stefanato l’ascoltava distratto. Della guerra appena finita ricordava soprattutto la fuga nella notte assieme con gli altri abitanti del suo paese e la vita da profugo in Abruzzo. Così, un po’ per sfida e un po’ per gioco, iniziò a scrivere in bei caratteri maiuscoli le lettereV e S (le iniziali del suo nome e cognome) sulla parte bianca del nastro tricolore. Non l’avesse mai fatto. La maestra se ne accorse. Lo chiamò vicino a sè, a fianco della cattedra e di fronte a tutti lo accusò di voler disonorare la Patria, di aver scritto V e S che voleva dire “Viva il Socialismo”. E lo mise in castigo, dietro la lavagna, con i sassetti sotto le ginocchia. Vittorio per un po’ restò tranquillo. Ma pian piano, sentì crescere dentro, incontenibile, l’ira per quella che considerava una punizione ingiusta e spropositata. Per vedersi trattare così lui che ormai aveva undici anni e si sentiva un uomo. Ad un certo punto non ce la fece più a resistere.  Si alzò in piedi, andò al suo banco, prese la sachéta con i libri e la scagliò contro la maestra.
Saldato il conto con la scuola, finalmente libero e in pace con sè stesso, si diresse verso l’argine della Livenza. Camminò per venti chilometri, fino a Torre di Mosto dove sapeva che avrebbe trovato la barca di suo padre, al quale si presentò spiegando l’accaduto.
Il vecchio Leodamante non volle interferire nel comportamento del figlio. Non lo picchiò né lo punì. Gli disse solo: «Vàrdea puìto sta barca. Parché no te va pì casa. E da chéa volta»  ricorda Vittorio,«so resta in barca». (Guardala bene questa barca. Perché non vai più a casa. E da quella volta sono rimasto in barca).
In barca Vittorio, il bambino ribelle, si placò. «Da cussì, son diventà cussì», ricorda. Quanto prima, a scuola, era distratto, assente e irrequieto, tanto ora, in barca, era buono, ubbidiente, desideroso di imparare e dimostrare che anche lui sapeva fare la sua parte. Sotto la guida del padre, del padrino Jijo Armeìn e del fratello maggiore Bruno, nelle cui barche, a seconda del tipo e della difficoltà del lavoro, si alternava, «gò scomissià a imparar el mistier. Scomissià, parché nol ‘sé impara mai bastansa el mistier del barcaro. Parché no a ‘sé mai a stessa  manovra. Desso, coi motori ‘sé fassie, ma na volta, co ndàimo a véo, un jorno ièra na maniera, un jorno ièra che altra ... ». (Ho cominciato a imparare il mestiere. Cominciato, perché non s’impara mai abbastanza il mestiere del barcaro. Perché non è mai la stessa manovra. Adesso, con i motori è facile, ma una volta, quando andavamo a vela, un giorno era una maniera, un giorno un’altra ... ). Il mestiere del barcaro insomma era simile a un’arte, non conosceva il gesto ripetitivo, presentava sempre aspetti nuovi, richiedeva impegno e partecipazione costanti.
Il primo lavoro per un figlio di  barcaro era tegnér el timon: a Vittorio toccò per la prima volta sul Sile, con la barca  del sàntolo (padrino). Ma tenere il timone era un onore che non capitava spesso. Bisognava che il tratto di fiume fosse facile da navigare e senza particolari pericoli. Non si poteva ad esempio affidare il timone ad un cèo (ragazzino) appena staccati da riva, perché in quel caso ci voleva grande abilità. «Péna moeà e corde», infatti, «finamente che a barca no camina più de l’aqua, el timon no governa». (Appena mollati gli ormeggi, finché la barca non corre più dell’acqua, il timone non risponde ai comandi).
In barca comunque il lavoro per un ragazzino, el morè, non mancava. Qualsiasi cosa andava bene per lui, tutto aiutava a inparar el mistier.  Non doveva tirarsi indietro se c’era dascoàr, da lavar i piati, lucidar i pironi e i cuciàri, iutàr a far da magnar. Alla mattina el morè doveva portare il caffè a letto al capobarca (el paronàto), ovviamente dopo aver acceso il fuoco. (Ma guai spaccare la legna al mattino, perché si sarebbe fatto rumore e si sarebbe svegliato il capobarca; la legna bisognava averla già preparata alla sera).  E poi ancora lucidare i “ferri” : «e s’cione, e pastèche, el brocon, e stadére», che un capobarca che si rispettasse aveva l’anbission di voler sempre lustre e pulite. Inoltre bisognava imparare a vogar col remo, riparare le vele, «far e piombaùre, i gropi. Tuto bisognàa far».

A prima poenta

Anche fra tutte queste occupazioni c’era comunque una graduatoria, e un morè, un aspirante barcaro, poteva sperare di essere tenuto veramente in considerazione solo quando avesse dimostrato di essere capace di fare la polenta. Da solo. Perché per i barcari, come per i contadini, come per tutti quelli che lavoravano manualmente, la polenta e non certo il pane regnava sovrana  sulla tavola. Bisognava saperla far bene, senza grumi, ben mescolata, cotta al punto giusto e con la dovuta consistenza in modo che una volta rovesciato il paiolo (a calièra) la polenta si staccasse senza sbavature e finisse sul tajèr con la sua bella forma rotonda e con il fumo che si spandeva sóto pròa stuzzicando appetiti mai sazi. Per questo nessun barcaro dimentica  il giorno in cui ha preparato la prima polenta.
Era di febbraio e Vittorio, suo fratello più vecchio Carlo e Bàghe, il fratello maggiore della sua futura moglie, navigavano in laguna. Erano a bordo della Maria Risorta, un grosso burcio di Barina, carico di milleseicento quintali di ghiaia proveniente dalle cave di Casier.
«Me ricordo che ièrimo a Buran. Ièra un ciàro de ùna ... , frédo, lebécio; ciapàr el remo mi no ièra bon. E ora i ga dito: ‘Sé mèjo che te vai far a poenta». (Mi ricordo ch’eravamo a Burano. Era un chiaro di luna ... , freddo, libeccio; prendere il remo non ero capace. Allora hanno detto: “E’ meglio che tu vada a far la polenta”). 
Era l’ultimo giorno di carnevale del 1923, e non aveva ancora compiuto tredici anni.

Ghiaccio in laguna

Il giovane Vittorio, barcaiolo vigoroso, forte e con una stazza decisamente superiore alla norma, apprese in breve tempo i rudimenti dell’arte della navigazione. Aveva poco più di quindici anni quando da morè diventò marinèr, fu promosso cioè da semplice mozzo a marinaio, barcaro nel vero senso del termine pur se ancora alle dipendenze di un capobarca.
Sul finire del 1927 una grave malattia mise in pericolo la sua  forte fibra: venne infatti colpito dall’epidemia di tifo che si era diffusa in quell’anno, provocando anche una decina di morti fra i barcari e gli abitanti delle zone di Silea  e di Casier. Le autorità  sanitarie misero sotto accusa le cave di ghiaia di Barina e Rizzetto che avevano sconvolto il corso del fiume, rallentando e rendendo stagnante l’acqua. E chiusero per oltre un anno l’attività di scavo, permettendola di nuovo solo quando le ditte escavatrici s’impegnarono a seguire le norme di un preciso disciplinare.
Il morbo colpì Vittorio in maniera virulenta. «I me ga dà anca i oji santi», racconta. Riuscì comunque a sopravvivere, ma la malattia lo lasciò completamente spossato. «Ièra come paraisà; no ièra pì bon de caminar». Rimase così per molti mesi, irriconoscibile. Allora suo padre, visto che ogni medicina era inutile, la convalescenza era interminabile e il ragazzo non faceva che vegetare, ricorse a una drastica terapia. Lo portò con sè sulla Gigeta in un viaggio con un carico di ghiaia diretto al forte di S. Andrea, dove si stava preparando una gara internazionale di aeromotorismo. Vittorio, ritornato nel suo ambiente, in barca, a prendere il sole, a nuotare, in breve tempo fu più sano e più forte di prima. Era l’estate del 1928. Un’estate secca, arida, che precedette il terribile inverno del Ventinove, con il suo carico di neve e ghiaccio e con le sue lunghe interminabili giornate sferzate dal vento gelido di tramontana, con la temperatura costantemente sotto zero fino a tutto il mese di febbraio.
Fu proprio nei primi mesi del Ventinove che succedette un episodio che Vittorio non può certo dimenticare. Era febbraio ed il ghiaccio, dopo aver indurito la scorza della campagna, aveva iniziato a stringere nella sua morsa anche la laguna. Vittorio era in viaggio con Bepi Mori, a bordo della Gigeta, e stava dirigendosi a Venezia con un carico di ghiaia. Navigava nei pressi di Burano quando, mentre dal canale dei Borgognoni stava per immettersi, compiendo un’ampia curva, nel Ma’sórbon, il timoniere si accorse che la barca non rispondeva più. Grossi lastroni di ghiaccio, provenienti da Tessera, la stavano spingendo fuori rotta. «El giasso me trascinava dove ch’el voéva iù» (Il ghiaccio mi trascinava dove voleva lui).  Il pericolo era di rimanere in secca, con la barca piegata su un fianco, destinata sicuramente ad affondare con il cambio della marea.
Bisognava prendere una decisione drastica e rapida. «E ora cossa go fato? Vanta el scandàjo in boca, e butame in aqua, come che ièra, vestìo». (E allora cosa ho fatto? Presi el scandàjo [corda] in bocca e mi tuffai in acqua; così com’ero, vestito). A nuoto raggiunse la briccola, vi legò la corda e riuscì in tal modo ad ormeggiare la barca, salvandola. Dopo l’imprevista nuotata salì a bordo, aiutato da Bepi Mori e «no go fato tempo gnanca de cavar i vestiti che se ga ingiassà tuto». Il freddo era talmente intenso che la stoffa si indurì appena Vittorio emerse dall’acqua.

Il viaggio più lungo

Se gran parte del lavoro per un barcaro del Sile si svolgeva nella direttrice storica Treviso-Venezia, era tutt’altro che infrequente che capitasse di far viaggi anche molto e molto più lunghi. Come quella volta nel Trentanove che, con il Gildo, un burcio di 1200 quintali di portata e di cui era proprietario Vittorio Massimo da Fiera, Stefanato arrivò fino a Borgoforte, vicino a Guastalla (sul Po), dopo essere stato a Portogruaro e a Cervignano del Friuli.
Quell’anno la primavera aveva avuto un inizio ben strano. La vigilia di San Giuseppe a Venezia cadde la neve, mentre venti da nordest soffiavano a settanta chilometri all’ora. Vittorio e la moglie Virginia erano in Marittima, all’ancora col Gildo, in attesa di un carico. La bufera li colse così alla sprovvista che Virginia ricorda di aver perso el mastèl dea ìssia(che aveva legato con una cordicella alla barca e lasciato in acqua), trascinato chissà dove dal vento forte e dal moto ondoso. Dopo l’inusitata burrasca il tempo si ristabilì e Stefanato stivò il barcone con oltre mille quintali di terra e sabbia fosfatiche provenienti dai monti dell’Atlante in Tunisia.

Da Venezia a Portogruaro

Completato il carico Stefanato diresse il burcio verso la prima destinazione: Portogruaro. A bordo erano in cinque: il capobarca Vittorio, sua moglie Virginia con il figlioletto Leo di non ancora dieci mesi, il morè Giuseppe Rizzato, il marinèr Danilo Fasan.
Per accelerare i tempi la parte iniziale del viaggio venne effettuata a rimorchio de un vapor, fino a Portegrandi. Da qui, superata la conca, il burcio scese lungo il taglio del Sile a seconda, con la corrente favorevole. Entrato nella Piave Vecia e giunto a Jesolo, deviò per il Cavetta, arrivando a Cortellazzo. Attraverso il Canal di Revedoli e il Livenzuola giunse a Brian da dove s’immise nel Livenza che percorse in discesa per qualche centinaio di metri fino ad imboccare el canal dei Reoji proseguendo poi per il canal Saetta, il fiume Riello ed infine il Lemene. A questo punto si sarebbero potute scegliere due strade, o proseguire per il Lemene o prendere el Canaéon. Stefanato preferì il Lemene perché vi era più facile scendere a terra e trainare la barca con à sìngia, facendo le veci dei cavalli o dei buoi.
Dopo oltre una settimana il Gildo giunse a Portogruaro, dove in un giorno la squadra facchini di quel porto scaricò il barcone servendosi di silière, portantine simili a carriole senza ruote, sollevate da due uomini, uno davanti e uno dietro. Dalle silière la terra africana veniva trasportata su carri trainati da cavalli che la portavano alla definitiva destinazione: la fabbrica di concimi in cui sarebbe stata trasformata in perfosfato.

Da Portogruaro a Cervignano

La discesa da Portogruaro fu priva di difficoltà: il burcio era vuoto e la corrente a favore. La destinazione era Cervignano, dove li attendeva un carico di mais. Il Gildo navigò a secondafino al Marango dove, invece di proseguire per San Gaetano, prese el Canaéon che li portò alla Brussa, vicino a Bibione, che a quel tempo era un posto desolato con solo qualche casone di pescatori. Proseguì per Porto Baseleghe, giungendo alla conca che  mette in comunicazione col Tagliamento da dove, attraverso un’altra conca, si entra in Val Paltani, all’inizio della laguna di Marano. Fu proprio in mezzo a questa laguna che Stefanato dovette rimanere fermo per mancanza di vento, con la barca legata ad una briccola. Dopo un po’ si esaurì anche l’acqua potabile. «El tosatèl céo sporcava e dovéa lavarghe a roba co l’aqua saeàa», ricorda Virginia. (Il bambino [Leo] sporcava ed ero costretta a lavargli i pannolini con l’acqua salata). 
Finalmente arrivò il vento. Allora, invece di proseguire per i canali ordinari, Vittorio tagliò per la palude e, sempre con il vento in poppa, giunse in breve a Cervignano. Nella cittadina friulana era arrivato da poco anche il fratello di Vittorio, Bruno, con l’Ercole, un burcio nuovo di duemila quintali, dipinto di verde, con due alberi e due belle vele bianche (a pì bèa barca dea navigassion) e per di più dotato di un motore Junker che avrebbe permesso il traino anche del Gildo. Virginia ricorda ancora quei caldi giorni di aprile del Trentanove. Leo, il primogenito, aveva giusto compiuto dieci mesi «col se gà moeà  (quando iniziò a camminare la prima volta) proprio a Cervignano, in barca».
Nel porto friulano erano intanto arrivati i carri dei contadini con  il granoturco che il mediatore Bernardi da Venezia aveva provveduto a comperare. Dai carri i facchini portarono a spalla i sacchi fino ai bordi della stiva lasciandovi poi scivolare dentro il loro contenuto, afferrando saldamente fra le braccia il sacco finché si svuotava. Quando la stiva fu quasi completamente riempita di mais i facchini provvidero a disporvi ai bordi tre file di sacchi, uno sopra l’altro, al fine d’innalzare le sponde ed aumentare così la capacità di carico. Nel frattempo Vittorio vigilava sulla quantità del cereale, pesando con la stalièra un sacco ogni dieci, in modo da stabilire il peso medio delle varie partite di mais. Perché poi, alla consegna, chi doveva rispondere sulla quantità della merce era lui, il capobarca.
Quando sia il Gildo sia l’Ercole ebbero completato il carico, i due burci partirono per la destinazione finale. Ma, prima di levare gli ormeggi, Vittorio dovette rinunciare ad un uomo del suo equipaggio: Giuseppe Rizzato, il morè, che si era ammalato di difterite. Giuseppe fu accompagnato alla stazione delle corriere e, da solo, con la gola in fiamme, si avviò verso casa.

Da Cervignano a Chioggia

Dal porto friulano a Chioggia il viaggio fu facile, perché effettuato a rimorchio del fratello. Il percorso fino alla laguna di Venezia fu lo stesso che all’andata e cioè: «Laguna de Maran, Val Paltani, Bibione, Porto Baséeghe, Brussa, Canaeon, Rièo, Saéta, Reòji, un tòco de Livensa, Livensiòea, Revédoi, Cavéta, ‘só pal Piave Vècio che sarìa el Sil finamente al Cavaìn, dove che ghe ‘sé a conca che va sul Casson, Cavaìn, Treporti, Ca’ Vio, Ca’ Savio, Por de Lio, Punta Sabioni, Lido». Qui si poteva scegliere: o per le Tère Perse opar fora. Loro presero questa seconda strada e proseguirono per Malamocco, Alberoni, S. Pietro di Pellestrina, Chioggia, dove arrivarono dopo tre giorni di navigazione.
A Chioggia il Gildo si staccò dall’Ercole, ormai giunto a destinazione, e si agganciò al rimorchiatore Adolfo, inviato dal-l’armatore Bernardi (parché ghe ièra premura pa i porsèi - c’era fretta per gli allevamenti di maiali della zona di Guastalla, che erano i destinatari ultimi del carico di granoturco).
Da Chioggia a Borgoforte il viaggio proseguì sempre al traino dell’Adolfo. «Dopo Ciòsa ghe ‘sé un tòco de laguna, Brondoeo, dopo te ndài sul Brenta, canàe dea Vàe, l’Adése, nàntra conca, nàntro tòco de canal co l’aqua del canal Bianco, canal Bianco e Volta Grimana». (Dopo Chioggia si trova un tratto di laguna, poi Brondolo, poi arrivavi sul Brenta, canale di Valle, l’Adige, un’altra conca, un altro pezzo di canale con l’acqua del canal Bianco, canal Bianco e Volta Grimana).

Sul Po, verso Borgoforte

Passata Volta Grimana iniziò la risalita del Po. «Gaémo trovà tanta aqua nel Po. Ghe ièra sinque metri de aqua. Ghe ièra da vér paura, paura de robaltarse, parché l’aqua fa i vortici, nel Po. Ièra sempre all’erta e ghe go dito a éa: “Ti sta sempre pronta col tosatèl, che se ocóre saltemo drento in batèo”». (Abbiamo trovato tanta acqua nel Po. C’erano cinque metri di acqua [sopra il livello medio]. C’era d’aver paura, paura di rovesciarsi, perché l’acqua fa i vortici nel Po. Io ero sempre all’erta e ho detto alla moglie: “Tu stai sempre pronta col bambino, che se occorre saltiamo dentro al battello di soccorso”).
Ma andò tutto bene. Il capitano del vapore, Oddone Barina da Contarina, era uno in gamba, nato sul Po e del gran fiume conosceva ogni segreto, oltre che ogni osteria. Infatti alla sera, «magari el se fermàa un’ora prima, ma sempre dove che ghe ièra na ostaria», ricorda Vittorio.
A Borgoforte arrivarono dopo quattro giorni di navigazione e più di 150 chilometri col fiume in piena. Ormeggiarono praticamente sull’argine, tanto era alta l’acqua. E per quella sera fu festa grande all’osteria del  porto. Pur lontani, pur di altra provincia e regione, i barcari di Borgoforte erano tutti amici di Vittorio, perché già lo erano di suo padre. Conosciutisi nei punti obbligati della navigazione interna: Volta Grimana, Brondolo, Ciòsa, Venessia, Portegrande. Il giorno successivo le operazioni di scarico iniziarono di buon’ora, con la partecipazione di molti òmeni, e alla sera il burcio era vuoto.

Il ritorno

La discesa del Po avvenne a barca vuota fino a Bergantino. Se la salita a pieno carico era stata difficile e pericolosa, non da meno lo fu la discesa. Il gran fiume è ricco di curve, di anse. Bisogna conoscerlo, altrimenti è facile farsi trascinare dalla corrente e andarsi ad incagliare. Per questo Vittorio si affidò a un peòta, esperto navigatore del posto (sul Po chiamato anche meandro) , di nome Bastian. Vittorio assieme al peòta, salì sul battello piccolo, che normalmente è legato dietro al burcio; in questo caso però venne fatto navigare davanti, fungendo da rimorchiatore nei confronti del barcone, che vi era legato dietro. A prora del battelletto Vittorio e Bastian tenevano l’ancora pronta ad essere buttata in acqua se il barcone minacciava di andare a sbattere contro riva. «Me fioi no e sà ste robe qua» (i miei figli non le sanno queste cose qui), commenta con orgoglio Vittorio.
Tuttavia la discesa del Po, malgrado la presenza del peòta, si dimostrò più avventurosa del previsto. Infatti Bastian si sbagliò e fece fermare il Gildo due chilometri più a valle di Bergantino. «E gaémo dovùo ndàr in sérca de do cavài, pa vegner su - e dovemmo cercare due cavalli per tornare su». Risaliti a Bergantino si fermarono su una piarda del fiume, vicino ad un mulino natante e lì, legato il barcone, predisposero la passerella (el ponte), aspettando che i contadini della zona, già avvertiti dal mediatore, venissero a portare la loro merce: frumento questa volta. Terminato il carico di frumento, un altro peòta del posto, Nino, li accompagnò fino a Castelmassa, dove attesero due giorni l’arrivo di un rimorchiatore, perché in quel punto del fiume c’era da superare un ponte di barche, “e ghe vol fòrsa”; da solo il barcone non ce l’avrebbe fatta. Il rimorchiatore portò il burcio carico di frumento fino a Brondolo e qui Vittorio ritrovò il fratello Bruno che, con l’Ercole, lo trainò fino a Marghera.
Dopo oltre due mesi ebbe così finalmente termine il lungo viaggio. 

I figli di Vittorio

Leodamante, Renzo e Glauco Stefanato, i figli di Vittorio, sono cresciuti in barca, come loro padre.
Leodamante, detto Leo — l’abbiamo visto — ha letteralmente mosso i primi passi dentro un burcio e poi ha continuato a viverci.
Renzo, anche lui cresciuto da barcaro, quando «‘sé mancà el laóro - finita l’epoca della navigazione fluviale» iniziò l’attività di cuoco, girando mezzo mondo. Ma ora è tornato alla base, e lo si vede sempre più spesso navigare sulle motonavi dei fratelli.
Glauco, detto Brunetto, ricorda: «Gavéa péna finìo a quinta e so ndà caricar de fromento sul Basso Po, a Scardovari. E da chéa volta so sempre sta in barca». (Avevo appena terminato la quinta elementare e sono andato a caricare frumento sul Basso Po, a Scardovari. E da quella volta sono sempre rimasto in barca).
Negli anni Settanta diventava sempre più difficile vivere da barcari. Magari capitava di fare sei sette viaggi di seguito, ma poi si rimaneva fermi per due tre mesi senza far niente. «Eóra», ricorda Glauco, «ndàva far qualsiasi laóro - allora, andavo a fare qualsiasi lavoro» e, cosa che più lo tormentava, lui cresciuto in un barcone, «ndàva ciapàrme a giornàa anca a tèra» (andavo a guadagnarmi la giornata anche a terra).
Per non doversi chiudere definitivamente nella prigione delle otto ore al giorno di fabbrica Leo e Glauco presero una decisione del tutto originale (il padre era contrario, diceva: “el ‘sé un ris’cio - è un rischio”): «Gaémo comprà un vaporéto che na volta el ièra dell’Azienda e che se ciamàva Marte e gavémo scomissià el trasporto dei turisti». (Abbiamo comperato un vaporetto che una volta era dell’ACNIL e che si chiamava Marte ed abbiamo iniziato il trasporto dei turisti).
Già i primi viaggi dimostrarono che l’idea era quella giusta e ben presto la gita nel Sile, in laguna e fino a Venezia, iniziò a diventare una tradizione.
La testardaggine di questi barcari figli di barcari che non vollero abbandonare il Sile fu così premiata e, dopo pochi anni, il Marte divenne insufficiente. Ora fanno bella mostra di sè, ormeggiate al passo di Casale le due nuove motonavi Silis ed Altino, che consentono ad un numero sempre maggiore di persone di percorrere ogni anno l’antica via d’acqua lungo un itinerario che per qualche tempo aveva corso il rischio di essere cancellato anche dalla memoria storica delle nostre popolazioni.
E non c’è persona che abbia partecipato ad una crocera con la Silis e l’Altino che non ne sia scesa entusiasta. Per il servizio offerto dai fratelli Stefanato. Per l’arrivo a Venezia da quella che è la sua vera ed originaria porta d’ingresso: la laguna. Per l’incomparabile paesaggio offerto dal fiume immerso nella campagna. Per la sosta nelle isole lagunari che, come seppero un tempo offrire scampo agli abitanti della terraferma incalzati dalle torme di Attila, sanno ora con la loro dimensione irreale, emergenti come per incanto dall’acqua, offrire almeno per un giorno una tregua, un punto d’approdo a uomini del Duemila costretti a vivere, talvolta con sgomento, in un mondo e in una civiltà che sembrano sempre più sfuggire loro di mano.
Nella Silis e nell’Altino navigano con fierezza un po’ tutti i componenti della dinastia degli Stefanato. Dal vecchio Vittorio, che non sa rinunciare di mettersi al timone, al giovane Michele figlio di Leo. Ma, dice con orgoglio Glauco, mostrando il suo secondogenito Alioska, “anche questo un giorno sarà al timone”.
Tre generazioni di barcari, un libro aperto sulla storia del Sile e sulla millenaria stagione della navigazione fluviale.


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© 1989 Camillo Pavan, Dal libro Sile alla scoperta de fiume

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