Presentazione del libro Sile. La piarda di Casier a bordo della motonave Silis della Stefanato Navigazione, nel corso di una minicrociera sul fiume - 16 novembre 2005
[Poi] la professoressa Laura Martinello, che qualcuno di voi conoscerà, che ancora una volta mi ha incoraggiato, mi ha seguito, mi ha corretto ahimè con quei segni, “via questo che non va bene” … ma alla fine, insomma, il libro, in qualche maniera si presenta accettabile. Molto merito è proprio di Laura Martinello, che fra l’altro è mia moglie.
Diciamo che mi segue da vent’anni, come mi segue da vent’anni la tipografia Cooperativa Servizi Culturali Santa Lucia di Piave.
Ecco, io ho un rapporto di amicizia con loro, oltre che di lavoro, e posso dire che attraverso loro ho visto anche l’evoluzione dell’arte della stampa. Perché quando la prima volta mi sono presentato, nel 1985-86, con la prima edizione di Drio el Sil, si usava ancora la Linotype. Loro l’avevano appena smessa, ma era lì ancora in bella vista. Io avevo scritto con la macchina da scrivere e loro, per la verità, utilizzarono un’altra macchina che si chiamava fotocompositrice, una roba molto grande in blu, non so se qualcuno l’abbia vista, con uno schermo piccolo piccolo, da cui uscivano queste strisce di carta che poi bisognava ritagliare e poi incollare su un tavolo luminoso. Ho perso tre mesi per incollare — per risparmiare, ovviamente, siccome ero editore — il primo libro. Tre mesi di lavoro, e dieci chili di peso, che mi farebbe bene anche adesso, perderli, ma pazienza. Questo era il 1986. Un po’ alla volta la tipografia si è evoluta, usa adesso tecniche molto più veloci, molto più rapide, e-mail, programmi di composizione, anche nella stampa sembra di essere nella sala comando di un aereo. Qui c’è [Dino] Gandin, lo ringrazio moltissimo per essere venuto, perché sotto Natale, nel periodo maggiore di lavoro, quando tutti chiedono libri, stampe, pubblicazioni, ha avuto la voglia di farmi questo piacere, di partecipare a questa presentazione. Lo ringrazio molto per essere venuto. Dino è lì, e se avete bisogno di una tipografia, credetemi che la Tipografia Servizi Culturali, di Santa Lucia di Piave vi tratterà molto bene.
Poi, a proposito di Gandin, che prima mi sono confuso, devo ringraziare ovviamente Bruno Gandin, che mi ha dato, messo a disposizione con molta generosità, la sua notevole collezione di materiale fotografico, iconografico, libri, pubblicazioni varie sul Sile. Lui abita proprio a Silea, è quindi il fiume che dà il nome al suo paese; lo ringrazio molto, Bruno Gandin.
Adesso ricordo i testimoni e li cito nell’ordine con cui appaiono nel libro, non ordine alfabetico e neanche di importanza.
Cito per prim[i] Bertilla e Bepi De Pieri, li conoscete certamente, abitano qui, a Ca’ Barbaro. Sono nati - e mi hanno raccontato le loro testimonianze - nella draga di Rizzetto, praticamente. Il loro padre era Fascio, sopranome Fascio, De Pieri detti Fasci e il loro padre era capodraga della [cava] Rizzetto. E a proposito di questi scavi, di questi ritrovamenti archeologici di cui parlava il prof. Sartor, loro erano proprio… mi hanno raccontato di come trovassero spade, di come trovassero cocci vari, ma anche alberi, alberi che purtroppo nessuno pensava … all’epoca di fare il famoso Carbonio 14, per vedere di che età fossero, anche per il semplice fatto che dovevano fare carbone, legna per la stufa, li bruciavano. E così sono andate pers[e] testimonianze che è facile immaginare quale importanza avrebbero avuto se fossero state studiate con le tecnologie che ci sono adesso.
Poi ringrazio ancora Bruno Carraro, che non so se ci sia, Bruno Carraro Munaréto. Lui era uno scavatorista, cioè preparava il terreno allo scavo vero e proprio della ghiaia, metteva a nudo il giacimento, perchè di vero e proprio giacimento si può parlare, della ghiaia del Sile. Infatti parlo del Sile, ad un certo punto, “come una miniera”. Anche perchè chi ha analizzato a fondo queste ghiaie nel 1943 era proprio il direttore delle cave, delle miniere di Predil, a cui il Magistrato alle Acque ha dato l’incarico di vedere da dove venisse fuori questa benedetta ghiaia. Ho riportato qui il suo studio, ed effettivamente usava proprio i termini mineralogici (…) quindi è giusto, secondo me, parlare di Sile “come una miniera”, almeno per l’uso che ne hanno fatto queste draghe per oltre un secolo e mezzo, la cui conseguenza principale è stata l’impossibilità di navigare fino al centro della città di Treviso, come era sempre avvenuto dall’epoca di Altino, si può dire, dall’epoca romana fino alla metà dell’Ottocento. A un certo punto non è più stato possibile navigare in città, perché? Perché il pelo d’acqua si era abbassato, la corrente era diventata vorticosa … e addirittura c’erano dei problemi statici in città a Treviso, hanno dovuto fare delle briglie, per fermare questa vorticosa corrente del Sile. Poi la navigazione si è interrotta. Questa è stata la conseguenza principale e prima degli scavi di ghiaia. Ovviamente gli scavi andavano fatti, ma non sempre — lo dicevano gli stessi scavatori con cui ho parlato a suo tempo, ancora con l’altro libro — non sempre i Disciplinari, che pure c’erano, sono stati rispettati. Questa è una prassi abbastanza normale, purtroppo, perché diceva proprio uno di loro, Dino Milanesi, ben conosciuto… “sémo in Italia”, e questo si commenta da solo.
Poi volevo ringraziare Giancarlo Pasin, che non mi sembra di aver visto. Noto ristoratore, io l’ho conosciuto come ristoratore, quando ero editore — sia pure tra virgolette, ero editore — mi ha fatto quel bellissimo libro Cento facili ricette con il radicchio, che è stata un po’ la mia fortuna, che mi ha permesso di sopravvivere mentre facevo le ricerche assolutamente in perdita sulla Prima guerra mondiale, che nessuno compra, perché ormai nessuno se ne interessa di questo fatto, men che meno gli enti pubblici a cui avevo proposto l’acquisto, per dire, di copie — ci sarebbe un lungo florilegio di contenzioso fra me e gli enti pubblici, lascio perdere, non è questa l’occasione. Comunque, insomma, Giancarlo Pasin mi ha scritto questo libro e lo ringrazio molto e anche per la bellissima testimonianza che mi ha dato, e che qui ritroverete nel libro.
Poi Mario Vezzà, che è un mio amico di vecchia data e che qui ho trovato come ultimo erede della famiglia di squeraròli, squerariòi come si dice in dialetto, dei Vezzà. Venuti qui dal Livenza nell’immediato primo dopoguerra. È stato il primo squero proprio qui, dove siamo?, proprio qui di fronte, esattamente lì. Era in territorio di Silea, però il deposito di legname lo avevano di qua e quindi erano un po’ a Silea e un po’ a Casier, e soprattutto venivano a lavorare da Motta di Livenza e dintorni in bicicletta al lunedì e poi ritornavano al sabato e così è andato avanti per anni. Quindi Mario Vezzà mi ha dato bellissime testimonianze di come lavorava suo padre che era stato proprio squeraròlo effettivo, da cui lui ha imparato l’arte, tanto è vero che poi, in prima persona, pur essendo professore di lettere, si è messo a costruire una barchetta, sia pure piccola ovviamente, ma di quelle che non si vedono più tanto facilmente nel Sile, costruite in legno, costruite con tutte le regole d’arte, piegando il legno con l’acqua e il fogo come fanno i veri squeraròli, ed è una barca che è un vero, piccolo capolavoro. Ringrazio molto Mario Vezzà.
Ovviamente parlando di squeraròli, di gente che ha lavorato nello squero, non posso che parlare di Franco Passerella, che è un vero professionista, che ha lavorato praticamente… non so quanti anni abbia lavorato, ma tanti di sicuro [presso lo squero Crosera di Portegrandi] e mi ha raccontato molti segreti. Era bello sentire parlare lui perché sentivi una lingua antica, era la lingua degli stessi personaggi richiestissimi, l’aristocrazia degli artigiani della Repubblica di Venezia, quelli che lavoravano nell’Arsenale di Venezia. Erano una categoria a parte, gli squeraròli, i maestri d’ascia. Adesso sono si può dire scomparsi, ce ne sono pochissimi. Ci sono carpentieri navali, ottimo lavoro, per carità, il tempo cambia, non possiamo pensare che sempre si fermi, e mi levo il cappello di fronte ai cantieri navali che esistono anche qui sul Sile, e hanno dato anche lustro — non so citarli adesso, eventualmente Glauco li cita — ma Franco Passerella è ancora uno di quelle persone che sarebbe in grado, partendo da un piccolo progetto, di costruire, chiavi in mano, un burcio; un burcio come quelli di duemila anni fa. Onore quindi a Franco Passerella.
Ovviamente i due personaggi che, per forze di cose mi hanno dato maggiori informazioni, li sono Renato Papparotto [e ...] Glauco Stefanato.
Un bel giorno sento questo benedetto Glauco che alle nove di mattina, ora per me antelucana, mi dice: «Camilo, varda che qua bisogna far un libro». E io gli dico, va ben (avevo appena finito l’ultimo lavoro sulla guerra mondiale) … se lo dici tu, in qualche maniera vediamo… perché si dà il caso che io, “soto paron”, come suol dirsi, non lavoro mai. Ma con un paron come Glauco non potevo dire di no. E quindi ho accettato di lavorare per lui, ed è stata un’esperienza molto, molto interessante. È stato un lavoro, questo qui, abbastanza veloce, e quindi ha molte pecche, anche se il professore non le ha sottolineate, le dico io. Manca soprattutto un lavoro di archivio. Manca un lavoro di archivio anche perché, a essere sinceri, quando a luglio avevo intenzione di iniziare questo lavoro, stavo per iniziare, vengo qui a Casier, e non so se ci sia l’assessore; chiedo di consultare l’archivio, ahimé l’archivio non era consultabile perché il personale era in ferie. E ho detto: «Vengo io a darvi una mano»… «No, perché… », sta di fatto che l’archivio non ho potuto consultarlo. E questa è una grave pecca del libro, purtroppo. E questa è una pecca […] Questa è una scusa, perché se avessi veramente voluto, in qualche maniera, insistendo, l’avrei potuto consultare… però, insomma, io sono andato avanti lo stesso perché potevo contare su Renato Papparotto, il quale è un archivio vivente, il quale mi ha parlato dalla a alla zeta, della vita nel paese di Casier, come si viveva da bambini, come si giocava, come si lavorava, soprattutto. Come lui a tredici anni abbia iniziato a lavorare nei Cantieri del Levante, una grossa entità industriale di oltre duecento operai, qui, in questo paesetto, durante l’ultimo periodo della guerra. E lui ha lavorato dentro. E siccome era piccolo, gli dicevano «cèo va xó ti» (piccolo, vai giù tu) e così doveva fare i lavori più faticosi, a volte, come sempre succede, purtroppo. All’inizio, l’esordiente, lo trattano così. Poi, passata la guerra, ha fatto altri lavori, lavori di pubblica utilità, “a sollievo della disoccupazione” erano chiamati, ha ristrutturato la strada che una volta passava per il centro di Casier, hanno fatto il taglio, la Nuova Trevigiana che va a Casale e poi, soprattutto, ha iniziato assieme a suo fratello il lavoro di officina. L’officina di Casier era ben nota a tutti barcari perché è stata la prima, almeno qui nella zona, a provvedere alla motorizzazione dei burci. Una motorizzazione … molto avventurosa, con residui di altri motori, che bisognava recuperare in qualche maniera. Famoso lo Skoda di un carro armato che ha utilizzato il Ticino, che era proprio di Vittorio [Stefanato] e siccome non voleva andare in moto, ecco che ci hanno messo un motore ausiliario, il motore di una Balilla. Mettevano in moto la Balilla che metteva in moto il motore Skoda e così il barcone partiva. Quindi pensate anche l’ingegnosità di questi personaggi, di questi artigiani. Mi ha raccontato tutte queste cose, Renato Papparotto… ma per chiudere con lui, volevo dire la meraviglia che ha suscitato in me quando mi ha chiamato giù nel suo laboratorio, e ho visto che era lì che trafficava con estrema capacità su DVD, CD, computer. Ma come? Dicono sempre che in questo settore sono i figli che insegnano ai padri, ma qui è tutto il contrario… è lui che potrebbe insegnare ai figli. Perché tutto il suo archivio lo sta digitalizzando. È una cosa veramente meravigliosa, e di questo vorrei fargli proprio i complimenti… e spero che il Comune, o comunque un ente pubblico qualsiasi si degni di prendere sotto tutela questo patrimonio iconografico che Papparotto sta mettendo in ordine, per le future generazioni, è il caso di dirlo, con date, nomi, e tutto. Questo è un lavoro proprio molto prezioso che sta facendo.
… Ecco è arrivato il momento di parlare di Glauco [poco, parché i ga fame, a xente , interviene Stefanato]. Il suo racconto di vita,l’autobiografia di un barcaro, l’ho trascritto in una maniera un po’ particolare, che qualcuno mi ha anche contestato, giustamente. Però il fatto è che, parlava Stefanato e io sentivo dietro di lui il respiro della storia. Scusate se uso termini un po’ retorici. Era sì Stefanato, ma io dietro di lui vedevo generazioni di barcaioli che parlavano. Perché sentivi l’amore per la navigazione, l’amore per il fiume, sentivi che si considerava l’erede di una generazione di barcari e quindi, dentro di me dicevo, quando riascoltavo le interviste e quando dovevo decidere come scriverle: «Quale diritto ho di intervenire, di scrivere in maniera diversa, di mettere del mio, e scrivere della loro storia. Lui la sa, molto meglio di me. Allora ho messo in ordine, ho montato il racconto, l’ho messo in ordine cronologico, però l’ho lasciato con le sue parole. E a questo riguardo volevo proprio citare una pagina (ho quasi finito) e vedrete … se avevo ragione o no.
Sentite come parla delle sue prime esperienze, quand’era piccolo e andava in barca con suo papà. «Durante le vacanze era bello andar via con la barca, perché ovunque andassimo mio papà era conosciuto. Erano amicizie che risalivano nel tempo, vecchie di generazioni, perché mio papà mi portava in viaggio con sé come suo papà aveva fatto con lui e gli altri barcari avevano fatto con i loro figli». Sentite proprio il senso della storia, il senso della continuità generazionale. È una cosa rara, secondo me, fatta da questo ragazzo della prima metà del secolo scorso, anche lui, ormai… come me… che ha fatto la quinta elementare… aver un senso della continuità storica, oltre che un senso della poesia, che l’avete sentito come prima rrecitava le poesie.
Anche un altro brano è molto bello, e secondo me è indicativo del personaggio Glauco Stefanato, qui… quando racconta della metà degli anni Sessanta, quando c’è stata la crisi della navigazione, che ad esempio nel libro Canali e burci è molto ben descritta, proprio si vede una tabella … come nel 1962 la navigazione sia improvvisamente cessata [a Battaglia Terme]. Qui invece è continuata perché c’era la Chiari & Forti, c’era[no] poi altre attività… in qualche maniera. Ma a metà degli anni Sessanta, Glauco è andato a terra, è andato a lavorare e lì ha trovato anche la morosa, Luisa, che qui vediamo, non so dove sia, ma c’è…
E Luisa raccontava del suo lavoro, che era in vetreria, non so se mi spiego, la vetreria Perziano, un lavoro difficilissimo… «Io lavoravo alle mole, ero sempre in mezzo all’acqua (…) era un lavoro faticoso, arrivavo a casa bónba fino a qua, non occorre che traduca… [ma = inzuppata] , c’era la pialla e compagnia bella… e poi andavamo in una stanza più grande dove ci saranno stati venti fuochi. Un caldo. Là veniva colata la cera che andava su questi piatti… poi si andava fuori all’aria aperta, sotto una tettoietta dove c’erano delle vasche con dell’acido. Noi dovevamo tirar via la colla dal vetro… immergendole dentro l’acido con dei cestini. Se non ci siamo ammalati i polmoni noialtri, chi vuoi che si ammali più!», mi diceva.
E Glauco invece risponde. Ho riportato il dialogo: «Il mio invece non era un lavoro faticoso… ma io ero abituato a vedere il sole, vedere la luna, sentire il profumo della nebbia al mattino presto, farmi da mangiare. Io sono nato libero. Così mi sono licenziato e sono tornato in barca». (Applausi)
Pensate al coraggio che ci voleva: nel momento di crisi maggiore della navigazione, è ritornato in barca. E infatti in una pagina di diario, una delle tante [ma] ne ho riportato una sola, di qualche anno più tardi dice — era lunedì 28 gennaio 1974 — «Alzato alle quattro e andato a bordo della Roberta [barca]. Partito e arrivato a Malcontenta ore otto. Caricato. Venuto via e restato fermo ai pali di Venezia per nebbia».
Io penso che queste quattro righe siano come un trattato di storia della navigazione fluviale. Uno si rende conto proprio delle difficoltà, non c’erano orari, c’era la nebbia e con il motore era già fortunato… suo padre, quando andava via con le vele erano mesi a volte… Ho sentito un’intervista, che purtroppo non ho potuto riportare [Interviene Stefanato: qua ci sono i figli di Picenèi, Vettore]… che raccontava di mesi, di viaggi che duravano… appunto per questi imprevisti, che succedevano, della nebbia.
Questo, praticamente è Glauco, quinta elementare, sottolineo per ricordare come non sia il titolo di studio a qualificare una persona, [per] ricordare proprio il suo senso poetico, il suo senso di amore per la storia, il suo senso di amore per il fiume… e l’amico Glauco io lo ringrazio moltissimo per l’opportunità che mi ha dato.
Prima di concludere però vorrei ricordare anche un bambino, che vediamo qui presente, che è Nicolas [Cortese], che è il nipotino…
È saltata una generazione, diciamo, dell’antica dinastia di barcari degli Stefanato, i suoi due figli hanno preso altre direzioni, non hanno avuto l’occasione di stare qui in barca, ma si dà il caso che Nìcolas, lui abbia una passione proprio, e l’avete visto prima che armeggiava [col timone]: proprio si vede che è figlio, nipote d’arte!
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