Il racconto di chi c’era “ … quando il cielo era un grande fuoco”
Non è facile scrivere di storia. Convinzioni personali, condizionamenti culturali ed ambientali possono, anche inconsapevolmente, storpiare i fatti, ampliarli o ridurli, tradendo l’obiettività. Non succede così a Camillo Pavan che, continuando la sua ricerca, ha appena dato alle stampe “In fuga dai tedeschi, l’invasione del 1917 nel racconto dei testimoni”.
Riga dopo riga, pagina dopo pagina, avvalendosi di centinaia di interviste, di dati ufficiali e non, di tabelle recuperate in archivi polverosi ed ancora in attesa di una più convinta utilizzazione, riemerge la tragedia di quei giorni amari di Caporetto, termine che oggi ha la connotazione della catastrofe e “continua ad essere usato come sinonimo di una sconfitta senza pari”. Testimonianze, si diceva. Voci già spente dal correre stesso del tempo, ma ancora vive, animate da quella freschezza propria di chi parla liberamente, di chi rivive quei mesi di fame, di precarietà, di dubbi atroci, di chi ringrazia Dio di poterli ancora raccontare o di chi rivede in quella tragedia i volti nitidi di familiari, di amici, vittime innocenti di una violenza senza fine.
E la guerra entrava in casa…
Con Caporetto, in quel disgraziato 1917, la guerra entrava in casa e “quando il cielo era un grande fuoco” e “tutta Italia scappava, scappavano i feriti, gli ammalati, con carreggi, e senza carreggi”, quando “non c’era ordine, era un disordine enorme, come delle mosche che si gettano fuori, così”, cominciò il dramma di chi la guerra l’aveva condannata o invocata senza immaginarne la durezza e che adesso la subiva.
Riaffiorano, nel testo di Pavan le polemiche, le reciproche accuse o le motivate giustificazioni sulla ritirata, da qualcuno intesa come tradimento e da altri come necessaria strategia. Viene data voce a chi in quei giorni non sapeva se partire o meno; “Via, via, via, perché ci sono i tedeschi”. C’era questo “barba Bortolo” che doveva venir via anche lui e invece “Non vengo via via, non vengo via” ed è rimasto a casa. E appena arrivati i tedeschi è morto dal dispiacere perché avevano fatto della sua abitazione una casa di tolleranza. È morto, insomma, dall’avvilimento. “Mio nonno Giovanni, invece, ha voluto rimanere qui: «No, mi stae qua, ghe ténde a casa» … e me poro papà, me par de védarlo in janòcio, in cusina davanti ai carabinieri. El ga ito: «Copème qua, co i me fioi, ma mi via da qua no vào!»”
Viene data voce a chi era partito e poi tornato. “Noialtri si era scappati ma siamo ritornati dopo otto giorni, e quando siamo tornati era tutto per aria”; alla condanna di chi era rimasto per depredare le case rimaste incustodite; all’arrivo dei tedeschi e a chi li assimilava agli Unni di Attila. C’è anche il ricordo commosso di chi aveva trovato rifuggio lontano dal Veneto, ad Agrigento, a Caltanissetta, a Firenze, a Giarre, a Messina, a Napoli, dove la solidarietà fu immensa e incondizionata.
Preti e vescovi come vigili pastori…
Nell’interessante appendice Pavan riserva ampio spazio al ruolo dei preti e dei vescovi dopo Caporetto dando modo di conoscere gesti eroici, di preti e di pastori che rimasero in questi posti simili all’inferno, come vigili custodi del gregge affidato. Una sola parola d’ordine “Restare” accomunò i vescovi di Gorizia, di Bressanone, di Portogruaro, di Concordia, di Vittorio Veneto, ed ovviamente di Treviso. Tanti parroci dovettero assistere alla profanazione o alla distruzione della loro parrocchia, come avvenne a Negrisia o a Fontane di Villorba, dove il parroco scrive al vescovo che “la chiesa fu requisita ad uso magazzino” e “i registri dell’Archivio ed ogni altra cosa della chiesa: è tutto esposto alla rapina degli invasori”.
Impreziosiscono il lavoro di Pavan le tante documentazioni allegate — vere chicche quelle relative all’accusa di “austriacantismo clericale” rivolta da Mussolini al vescovo Longhin o quella dell’allora sindaco di Carbonera, Aurelio Bianchini, che “nella necessità di dover partire” affida a don Luigi Zangrando “la sua proprietà mobile e immobile sita nei comuni di Melma (Silea) e di Carbonera, ma anche il municipio e tutto il Comune di Carbonera”. Quasi a voler sottolineare che in quei giorni il clero svolse un ruolo anche politico.
Insomma le centosessanta fittissime pagine del lavoro di Pavan, sono una vera miniera per ricostruire momenti che nella loro sconosciuta drammaticità si inscrivono nel grande libro della storia. Perché di quegli anni possa restare memoria, un obbligo nei confronti delle generazioni future.
La Vita del Popolo, Settimanale della Diocesi di Treviso, 1 agosto 2004
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