[…] c’erano chiacchiere in giro per la città: «I tedeschi hanno rotto la linea». Le autorità, forse per calmare, avevano mosso fuori dei manifesti, dicendo di non star sentire le chiacchiere, che non è vero niente, e intanto se la filavano come ha fatto il re tanti anni dopo, ci han piantati lì ( p.74).
La sconfitta di Caporetto, culminata il 24 ottobre 1917, ebbe gravissime ripercussioni sia sul piano militare che sulle condizioni della popolazione civile. Gli abitanti di una vasta zona al confine, dalle valli del Natisone alla Carnia, dal Canal del Ferro al Friuli orientale, furono letteralmente travolti dagli avvenimenti. Il Comando Supremo Italiano, colto di sorpresa, non emanò alcuna direttiva per quanto riguardava il destino dei civili; le autorità militari non organizzarono l’evacuazione, non diedero istruzioni precise, i provvedimenti furono improvvisati. Talora, per facilitare il deflusso delle truppe, la popolazione civile fu addirittura ingannata. Donne, vecchi e bambini che vivevano nelle retrovie improvvisamente si ritrovarono in prima linea. I soldati italiani fuggivano, le truppe nemiche avanzavano e i civili si trovarono di fronte ad un primo lacerante dilemma: affrontare l’occupazione o il destino di «profughi»? Partire o restare? Mentre migliaia di profughi si riversarono nelle città della penisola, non sempre accolti benevolmente, chi rimase subì i saccheggi, le requisizioni, la fame, la prigionia, le violenze. Infatti, dopo che le retroguardie dell’esercito italiano ebbero fatto saltare i ponti sul Piave, il territorio veneto-friulano si trovò in balia dei soldati austriaci e tedeschi che vi entrarono da saccheggiatori, uomini affamati, logorati e induriti da un due anni e mezzo di vita di trincea. Né si deve dimenticare che anche la popolazione austriaca attraversò un momento estremamente difficile; molti infatti furono costretti ad allontanarsi dalle zone da cui era stata sferrata l’offensiva e a spostarsi in zone più sicure (Cernilogar 1998, pp.211-220).
La narrazione storica ha a lungo ignorato il vissuto di donne, vecchi e bambini travolti dall’occupazione, da una guerra totale che sconvolse la loro vita.
Solo negli ultimi anni l’attenzione della storiografia si è rivolta alle ripercussioni della disfatta sulla vita della popolazione civile. Agli studi di Corni (1988; 1998), se ne sono aggiunti numerosi altri, tra i quali ricordo quello di Lucio Fabi e Giacomo Viola (1993), quello a cura di Franco Cecotti (2001), di Enrico Folisi (2003) e Daniele Ceschin (2004). I lavori di Camillo Pavan arricchiscono il panorama degli studi e offrono al lettore e allo studioso un’amplissima raccolta di testimonianze della gente comune, i bambini di allora; si tratta di 150 testimonianze raccolte tra il 1984 ed il 1999 e trascritte per la maggior parte in dialetto veneto, mentre per il dialetto friulano e lo sloveno l’autore spiega di aver ritenuto necessario tradurre in italiano. Sono fonti indispensabili per comprendere l’ultimo anno di guerra così come è stato vissuto dalle popolazioni al confine, quell’anno di vita «randagia» per quasi un milione di persone.
La ricerca di Camillo Pavan ha preso l’avvio dal racconto di Francesco Daniel, incontrato sull’argine del Piave a Negrisia, durante una passeggiata. Dalla viva voce di Daniel ascoltò il racconto dell’avanzata dei «tedeschi» e della fuga della popolazione, un racconto che fece sorgere il desiderio di raccogliere quante più testimonianze possibile, iniziando lungo la linea del Piave e risalendo le valli fino oltre il confine. Da questa ricerca è nato un primo volume: Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari (1997) cui ha fatto seguito nel 2001I prigionieri italiani dopo Caporetto e nel 2004 In fuga dai tedeschi. L’invasione del 1917 nel racconto dei testimoni. Altri numerosi stralci di interviste sono state infine raccolte nel volume: L’ultimo anno della prima guerra. Il 1918 nel racconto dei testimoni friulani e veneti.
Gli intervistati erano allora bambini o ragazzi sotto i 20 anni, e naturalmente non mancano ingenuità, imprecisioni o esagerazioni, talvolta i racconti non rispecchiano la «realtà dei fatti», la loro verità è la verità esistenziale, che nessuna narrazione storica può ignorare. I sentimenti, le impressioni, il modo di pensare della popolazione rurale, attaccata alla terra, alla casa, alla vita religiosa che scandiva i giorni ed i mesi, sono sempre in primo piano
L’autore riporta con minuzia di particolari brani di interviste seguendo una linea tematica. Il volume In fuga dai tedeschi ripercorre le fasi del dopo Caporetto, prendendo le mosse dalla ritirata dall’Isonzo al Piave, momento cruciale durante il quale la guerra entrò in casa.
Il cielo era tutto una fiamma, tutto una fiamma, pareva che scoppiasse il mondo; tutto il cielo era un grande fuoco. Per fortuna quella sera c’era tanta pioggia, un diluvio di pioggia era. Per fortuna, perché…aspetti che le dico una parola ancora su quella sera del cielo di fuoco. L’indomani le strade erano gialle di gas, tutte gialle. Se non ci fosse stata la pioggia si sarebbe morti, con tutti quei gas ( p.11).
Ed il cielo di fuoco sotto una pioggia scrosciante è un ricordo comune a tutti coloro che furono spettatori della caotica ritirata di soldati ed alleati. Il caporalmaggiore Antonio Faccin ricorda:
La ritirata è iniziata così…sa com’è l’italiano: che quando hanno detto: «Ritirati!», tutti a correre, uno sopra l’altro ( p.13).
Accanto allo sguardo dei soldati Camillo Pavan ci restituisce quello dei bambini che vissero la ritirata sotto la pioggia, le granate, il rumore delle mitragliatrici, ma che ebbero anche il tempo di stupirsi e ricordare episodi particolari.
Io avevo cinque anni, quando è successo, e poi mi è rimasto impresso…tutta la strada piena di militari, durante la ritirata, con le donne che facevano una polenta e la mettevano sulla finestra e questi disgraziati, poveretti, venivano a prendersi la polenta bollente, con le mani ( p. .22).
Io ero bambina ed ero là con il mio amico Berto e…non abbiamo visto i bersaglieri con due ruote in bicicletta? E io: «Berto, Berto…i càsca!» (cadono), perché era la prima volta che vedevo una bicicletta aspettiamo e… non vediamo gli Alpini! Uno, che deve essere stato il capo, una bella piuma bianca ( p. .23).
Il volume focalizza poi l’attenzione sul dilemma che assalì la popolazione in quel momento: partire o restare? La paura dei «tedeschi» e dell’invasione spingevano alla fuga, mentre il timore di perdere ogni cosa induceva a rimanere. Si partì mossi da un impulso a seguire la folla, per paura della guerra e dei tedeschi, perché secondo le voci che si erano diffuse fin dal 1914, dal tempo dell’invasione del Belgio e della Francia, si pensava che «avrebbero tagliato loro mani e piedi». Talvolta si partì perché allontanati dai militari in ritirata. Ma l’attaccamento alla casa ed al paese indusse molti a restare per difendere le proprie cose; non uno dei testimoni dimentica di raccontare degli animali lasciati o portati via attaccati al carro.
Noi siamo partiti, noi, ma…dopo mia madre aveva la vacca, aveva più passione della vacca che di noialtri! Aveva la capra, aveva il maialino (…) intanto che era lì e dava da mangiare al maiale, scoppia la polveriera e vien giù un pezzo di soffitto…questo maiale che scappa, la capra che gli corre dietro( p.40).
Tra chi decise di partire e chi non poté farlo o scelse di restare si scatenarono i conflitti; i primi accusarono i rimasti di collaborazionismo, di furto o di viltà. Ma chi rimase conobbe l’occupazione, la morte per fame, crepacuore, avvilimento.
Al momento dell’arrivo dei «germanici» i testimoni ricordano lo sgomento dei genitori, mentre loro erano affascinati da quei soldati «bianchi e rosa», «bei tosati», a cavallo e con l’elmo. Dopodiché furono solo bandiere bianche e atteggiamenti remissivi a scandire la vita quotidiana.
Ci avevano detto di mettere fuori le lenzuola per fare un evviva e invece quando sono arrivati, sono entrati dentro la cantina, hanno aperto le botti e si sono messi a bere il vino con i cappelli di ferro. Era stato il prete in chiesa a dirci di mettere fuori le lenzuola, per fare un evviva, perché non ci facessero niente, ma quando sono venuti dentro i a fàt (hanno fatto) un demonio (p..53).
I ricordi del passaggio di questi soldati non sono dunque sempre positivi; «erano pieni di fame» ricordano molti, mangiavano i maiali, la carne cruda, entravano nelle case e mandavano la gente a dormire nelle stalle e nei fienili, bevevano vino, si ubriacavano, uccidevano chi tentava di difendere quel poco che restava.
Una parte consistente del volume è poi dedicata ai profughi, alla partenza, al viaggio, ai loro disagi, alle loro vicissitudini. Camillo Pavan segue il percorso dei profughi passo per passo.
Siamo andati via con le mani in mano, con quel poco che eravamo vestiti. Perso tutto! ( p..42).
Molti ricordano la partenza sotto un «diluvio universale», una fiumana di persone, con gli animali attaccati ai carri, mucche, muli, tacchini, oche, tutti in colonna sotto la pioggia, e sopra al carro qualche materasso, i bambini, le provviste, il vino. Chi, dopo qualche giorno tornò a casa non trovò più nulla; gli animali furono i primi a sparire.
L’esodo fu affrontato senza un piano preciso e i disagi furono enormi: i treni sovraccarichi e sporchi, i viaggi interminabili. La popolazione che li accolse talvolta fu benevola, talvolta curiosa, talvolta insofferente.
Completa il volume una parte dedicata ai sacerdoti che, in assenza della classe dirigente, divennero il punto di riferimento essenziale, benché in seguito tacciati di collaborazionismo (Corni, 1998).
L’ultimo anno della prima guerra ripercorre in parte gli stessi temi, ma si sofferma anche su altri aspetti. L’autore parla dell’incontro tra la popolazione al fronte e quanto restava dell’esercito italiano, manipoli di sbandati, disertori, e prigionieri. La gente li nascondeva nelle stalle, in anfratti nelle vicinanze delle case, davano loro da mangiare, li difendevano dalle truppe di occupazione.
Mio padre aveva nella stalla un posto in cui teneva le foglie e gli stocchi del granoturco e nascondeva là i disertori, quando venivano i tedeschi a cercarli con la baionetta in canna perché qualcuno aveva fatto la spia ( p.1)
E mi raccontava mia mamma che in quella caverna c’erano molti disertori italiani e le donne del posto a mezzanotte gli portavano da mangiare. I tedeschi venivano a cercare nelle nostre stanze, ma non li hanno mai trovati (p.1)
Si crea così tra i soldati italiani e la popolazione un legame solidale di solidarietà e di aiuto, di condivisione dello stesso destino, dello stesso senso di incertezza. I soldati mettevano a disposizione le loro abilità di mestiere, la gente dava loro quel che poteva, e se non cibo, per lo meno rifugio e protezione dai «tedeschi».
Gli si dava da mangiare, anche se ce n’era poco anche per noi. Ma loro non stavano senza far niente, facevano un gerlo, dei rastrelli per tirare il foraggio, quello che sapevano fare ( p.1)
Avevo anche un paio di scarpe di quelle di una volta con il tacco basso e lui ha voluto farmi i tacchi all’americana, che non sembravano più le scarpe di prima. Si chiamava Vincenzo Parisi e faceva il calzolaio ( p.2)
Colpisce come in momenti di difficoltà ci si stringa tutti assieme, ci si protegga a vicenda, si mantengano rapporti di lealtà, di bontà. Colpisce la giustificazione che davano i civili dei soldati disertori.
Non erano armati, stavano solo nascosti. Non li si chiamava proprio disertori, perché erano rimasti indietro quando ci fu la ritirata, e hanno dovuto nascondersi qua… Erano «rimasti indietro». Non l’hanno fatto apposta: non hanno fatto in tempo…e per non farsi prendere dai tedeschi hanno buttato via tutte le divise italiane e si sono vestiti da borghesi (p.1)
«Erano poveretti come noi» spiega un testimone, che racconta come di notte dovessero fare la guardia perché i disertori che si nascondevano nelle grotte, scendevano a rubare patate dagli orti.
Non avevamo paura, perché erano soldati di niente, erano con le scarpe rotte anche loro, dormivano come le galline ( p.2).
Anche questo volumetto si sofferma sulle vicende dei profughi giunti un po’ ovunque. Nelle retrovie erano i profughi ad essere curati dai soldati, dormivano nelle stalle e nel paièr (pagliaio), mangiavano cibo donato dalle truppe. Abitavano in case di contadini, dormivano sulla paglia in cambio del sussidio; comune è il ricordo di quando ci si doveva svegliare all’alba per «governare le bestie».
Molti profughi rimasero nell’Italia settentrionale, o comunque nelle retrovie, dove intrecciarono rapporti di collaborazione con le truppe, altri, trovando rifugio di volta in volta in chiese, teatri o ville padronali, si spinsero nell’Italia centrale, dove trovarono lavoro con più facilità. Nonostante moltissimi ammettano di essere stati trattati bene non mancano i ricordi dell’ostilità dettata dal pregiudizio:
A Montecatini ai bambini quando non ubbidivano o facevano i capricci gli dicevano «Stai zitto sennò ti faccio mangiare da un profugo!»…non erano tanto per la quale, perché non sapevano neanche dov’era il Friuli e ci trattavano come i selvatici. Io parlo della popolazione: ci consideravano là come i servi, anche se eravamo in albergo. Non sapevano neanche dov’era il Friuli (p.6)
Non sono pochi a ricordare questo particolare; una donna rammenta:
Ad Arienzo (provincia di Caserta), ci dicevano: «Maledetti austriaci, siete venuti a mangiare il nostro pane!», ci dicevano. Eravamo bambini noi, e me lo ricordo lo stesso. Credevano che fossimo austriaci ( p.9).
In Italia centrale i bambini passavano le giornate chiedendo l’elemosina nelle campagne, altri più fortunati avevano genitori o fratelli che avevano trovato lavoro nelle fabbriche o come aiutanti nei negozi, nelle tenute in campagna. Del periodo trascorso al Sud, dove le ragazze del posto restavano stupite dell’emancipazione delle ragazze del nord che andavano «per strada da sole», i testimoni ricordano la diversità di abitudini e di modi di pensare.
E poi ancora la fame, le malattie, la fine della guerra e la partenza degli austriaci, il ritorno ad un’Italia martoriata. I ricordi non sono univoci, si intrecciano in un racconto collettivo in cui spicca, accanto alle sofferenze la consapevolezza che invasi e invasori erano ugualmente vittime della guerra, ugualmente degne di pietà.
Emblematica a questo proposito la storia del papa Cappellari: i tedeschi avevano demolito una chiesetta ed utilizzarono la statua di Papa Cappellari per le esercitazioni: la statua era il bersaglio da colpire dai mitraglieri. La popolazione era indignata e ammoniva i soldati. Questi, di contro, li deridevano. Durante una manovra uno dei soldati che si era esercitato con Papa Cappellari morì.
E cosa è successo? Che dopo la morte del mitragliere, il suo spirito continuava a farsi vedere. Alla sera, quando era una certa ora, i cani abbaiavano e qualcuno della nostra famiglia diceva: «Ah, vàrda lavìa: è el tedesco» (p.17).
Per alcuni anni lo spirito di questo soldato fu visto girare per la zona, tutti cercavano di andargli incontro per chiedere cosa volesse, incuriositi, impietositi o preoccupati dal suo continuo vagare nei boschi. Una donna pensò che volesse farsi dire una messa, così fecero e non lo videro più.
Riferimenti bibliografici
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Ceschin Daniele, Post res perditas. I profughi italiani nella grande guerra, tesi di dottorato in Storia della società europea dal medioevo all’età contemporanea, I ciclo, Università di Venezia, 2004.
Corni Gustavo, La popolazione e l’invasione austro-germanica del veneto 1917-1918, in «Protagonisti», IX, 1988, n. 33.
Corni Gustavo, La società Veneto-friulana durante l’occupazione militare austro-germanica 1917/1918, in Kobarid/Caporetto, 1917-1997, a cura di Z. Cimprič, atti di convegno, Ljubliana 1998, pp.221-251).
Fabi Lucio-Viola Giacomo, «Una vera Babilonia…». 1914-1918. Grande guerra ed invasione austro-tedesca nei diari dei parroci friulani, marano del Friuli, Edizioni della laguna, Gorizia, 1993.
Folisi Enrico (a cura di), Carnia invasa 1917-1918. Storia, documenti e fotografie dell’occupazione austro-tedesca della Carnia e del Friuli, Udine, Arti Grafiche Friulane, 2003.
Fortunat Cernilogar Damjana, Lo sfondamento di Caporetto e gli effetti della guerra sulla popolazione civile e sull’ambiente culturale, in, Kobarid/Caporetto, 1917-1997, a cura di Z. Cimprič, Ljubliana 1998.
* Per il testo originale recupera il PDF su
ISSN 1824 - 4483. Dep n. 2. Gennaio 2005. Ricerche. Bruna Bianchi, Il rapporto di Emily Hobhouse sui campi di concentramento in Sud. 188 pagine [Recensioni e schede]
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