venerdì 5 aprile 2013

Antonio Sema, 1997 - Presentazione "Caporetto" di C. Pavan


Trieste, Libreria internazionale Borsatti, Giovedì 27 novembre 1997

(Trascrizione integrale)


Antonio Sema durante la presentazione




Buona sera. Io direi che per parlare di questo libro vanno prima di tutto citate due cifre. E sono due cifre strane: diecimila e duecentoottantaquattro. Diecimila, mi diceva poco fa l'amico Pavan, i chilometri che ha fatto per vendere il libro; duecentoottantaquattro, le copie vendute. 
E beh, secondo me bisogna partire da questo! Dalla serietà di un artigiano, che contemporaneamente però, proprio perché artigiano, ha avuto il gusto di andare sul campo di battaglia, di girarsi intorno e di fare una scoperta che prima di lui la storiografia militare e politica italiana, fatto curioso (tanto quella di destra tanto quella, virgolette, di sinistra) non aveva mai fatto. Cioè: 1°, Caporetto si trova in territorio sloveno; 2°, questo fatto ha una serie di conseguenze, conseguenze che impongono una riflessione, una riflessione sul territorio, sulle persone che ci abitavano per vedere se, eventualmente, tra queste persone si è conservata una memoria.
E qui abbiamo testimonianze. Sono testimonianze che secondo me vanno prese con molta cautela, perché il più giovane dei testimoni all'epoca di Caporetto aveva tre o quattro anni, il più anziano arrivava sugli undici-dodici; quindi vanno prese con la dovuta cautela, ma, appunto per questo sono importanti. E lavorando sul posto, con il gusto di scoprire, e quindi con il piacere di comunicare, uscendo dagli schemi, Camillo Pavan ha messo insieme una serie di elementi che, secondo me, fanno di questo suo lavoro una sorta di enciclopedia, più che un libro di storia. Perché usare altri termini sarebbe sbagliato: è un'enciclopedia su Caporetto.
Cosa significa questo? Significa che il lettore curioso può entrare dentro in questo libro da qualunque pagina, trovando prima di tutto sempre elementi nuovi e originali. Ne citerò due soli: uno per gli studiosi, diciamo, di storia politica e uno per gli studiosi di storia militare.
Quello per gli studiosi di storia politica è il testo (lui pubblica addirittura la riproduzione fotografica) del famoso manifesto, sempre citato, ma mai riprodotto del Comando italiano che a Udine nei giorni della ritirata garantiva la popolazione: «State tranquilli perché non succede nulla». Ventiquattro ore prima della fuga, della ritirata accelerata da Udine; sempre poi, ovviamente riproposto come una accusa fondamentale di trascuratezza nei confronti del Comando italiano. Sarebbe interessante fare la raccolta delle ordinanze dei sindaci francesi nel '40 che proibivano all'Armèe Francaise in ritirata di passare per i villaggi. Poi vedremo se si è comportato meglio il Comando italiano della prima guerra mondiale o il Comando francese della seconda guerra mondiale. Cioè, questi sono elementi retorici su cui si è costruito un castello, castello che peraltro prosegue tenace a tutt'oggi.
La seconda testimonianza, poi giustamente viene rimarcato, è la documentazione anni 1980 degli effetti di una granata fumogena, fumogena… carica cioè di gas, probabilmente fosgene, recuperata e — con, secondo me, assoluta incoscienza, ma anche con altrettanta originalità, da due appassionati sloveni, aperta —, per vedere cosa succedeva. Invito a leggere attentamente i risultati di questa esperienza, prima di tutto per la metodologia assolutamente originale… Hanno messo questa granata a gas in uno spiazzo in cui secondo loro non ci passava nessuno e poi, a distanza, hanno sparato ed è uscito quindi il gas. Poi hanno fatto una prova, dopo un certo periodo, andando nell'area contaminata e sentendo di persona l'effetto. Quindi… complimenti al merito, ma insomma, ovviamente, cose da non fare. Però è testimonianza importante. Perché? Perché con questo gas, queste granate, hanno aperto la strada alle fanterie tedesche.
E il libro è zeppo di queste notazioni apparentemente insignificanti. Notazioni apparentemente insignificanti sulle quali però si può ricostruire un'altra delle tante storie di Caporetto. Dico un'altra delle tante storie, perché una vicenda che coinvolse due armate italiane e, l'equivalente di venti divisioni, cioè altre due armate austro-germaniche, per un totale di quattro armate, diciamo quasi un milione, un milione e mezzo di soldati, più i civili, evidentemente è una vicenda ricchissima di elementi, che non è possibile riassumere con quattro parole o con un giudizio sprezzante sull'italiano che non si batte o su altre invenzioni di questo tipo.
Ci sono una serie di vicende, e Camillo Pavan esamina alcune di queste vicende. Le esamina sotto il profilo militare, fornendo tutta una serie di elementi. Diciamo, è la parte convenzionale, necessaria in un testo del genere, che poi presenta una serie di soluzioni tipiche, ad esempio di alcune collane fotostoriografiche anglosassoni, il titolo è After the battle, cioè dopo la battaglia. Lui mostra in alcuni casi la fotografia del tempo di guerra e poi, più o meno dalla medesima angolazione, riprende la situazione odierna. Questo è anche un punto di visto così, diciamo, di curiosità e abbastanza interessante.
Ci dice che sostanzialmente i materiali vi sono da lungo tempo… difatti dalle testimonianze risulta che la popolazione andava a raccogliere direttamente o tramite grossisti o altri; fino al '30- '32, continuava la raccolta di questo materiale. Per esempio il padre di uno di questi testimoni, cioè lo sperimentatore della granata a gas, lui sapeva questo perché suo padre aveva trovato l'intero apparato dei lanciagranate a gas, e aveva ricavato metallo a volontà per almeno dieci o quindici anni. Quindi, questo vi dice la similitudine innanzi tutto fra le due parti della frontiera. Per decenni, anche gli italiani hanno fatto la medesima cosa lungo i seicento chilometri di fronte (in realtà tutti gli europei hanno fatto più o meno la stessa cosa).
Questo è l'elemento comune, e questo elemento comune, ci porta a un altro elemento apparentemente comune, e che stupisce. E qui entriamo più specificatamente nella dinamica scientifica. Ed è il ruolo della popolazione. Qui prima di tutto va segnalato il contributo (e poi avrei anche il piacere, visto che la dottoressa è presente, avrei piacere di sentirla) di Petra Svoljšak se ho pronunciato correttamente, la quale ha fatto una interessantissima analisi della situazione della popolazione civile da due punti di vista. Dal mio punto di vista, quello più importante è l'aspetto amministrativo, cioè l'estrema flessibilità del sistema amministrativo italiano, l'obbligo di rispettare leggi internazionali e contemporaneamente di affermare la propria autorità sul posto.
Il recupero di un fatto assolutamente poco noto come la decimazione, io direi la rappresaglia, di Idrsko, in cui vengono fucilati sei abitanti locali sospettati di spionaggio. Che è una procedura del tutto lecita in tempo di guerra, e non stupisce affatto che sia stata fatta a Idrsko, perché la stessa cosa è stata fatta a Villesse. Solo che queste due esperienze, Idrsko e Villesse messe assieme non raggiungono le quindici persone, rispetto a un esercito austroungarico che aveva fatto in Serbia centinaia e centinaia di serbi fucilati, ma evidentemente i serbi si possono fucilare, o l'esercito tedesco, che aveva fatto la stessa cosa, ma in ordine di grandezza superiore, in Belgio. Beh, lì è andata male perché la propaganda britannica ha inventato subito la leggenda delle mani tagliate con le quali ha distrutto la reputazione e la moralità dell'esercito del Kaiser.
Questo per dire che emergono fatti nuovi, ma ciò che importa è il modo in cui questi fatti vengono presentati. Grazie a Camillo Pavan, possiamo recuperare la memoria di queste vicende nella popolazione del posto, ma la memoria odierna di queste vicende, cioè come si è depositata attraverso tre o quattro generazioni. E questo ci riporta alla comunanza delle due parti del confine. Perché se noi andiamo a prendere i testi già citati di Medeot o di Bozzi per l'area isontina, il ruolo dei preti, ecc., risulta una cosa strana: tanto questi autori (curiosamente sono cattolici) quanto i testimoni di parte slovena e gli stessi studiosi sloveni, negano risolutamente che vi sia stato dello spionaggio.
Il fatto stupisce, perché? Perché il responsabile del servizio di spionaggio Max Longhi già negli anni Trenta aveva segnalato anche il numero delle spie che erano state dislocate, inserite nel territorio. Quindi, qui c'è un fatto molto curioso. E lo dico senza un approccio polemico, ma da un punto di vista scientifico. Perché mai la memoria locale della popolazione non rivendica la partecipazione, evidente, nel suo supporto alle operazioni non convenzionali dell'esercito austro-ungarico? E' un quesito.
Rimangono delle tracce. Delle tracce anche apparentemente insospettabili. Ad esempio in uno dei primi numeri di Qualestoria c'è un testo di Rino Sala da cui emerge una ricostruzione dei fatti di Villesse sulla base delle testimonianze di alcune persone anziane che ricordano quello che avevano visto. Ovviamente, come era ovvio, l'estrema crudeltà degli italiani; che poi il sugo della faccenda è questo: gli italiani, o hanno la sindrome delle spie, quindi sono eccitabili, oppure sono violenti. Una curiosa raffigurazione dell'italiano in divisa. Bene, però da questa testimonianza raccolta da Rino Sala risultava un fatto: risultava cioè che a sparare a Villesse sulle truppe italiane erano civili con la fascia giallo-nera, civili. Testimonianze del genere non emergono da parte slovena [Pavan: «Da quelli intervistati da me»]. Però voi prendete il testo di Rommel. Quando Rommel è entrato nel paese di Jevšček  i suoi uomini hanno dormito nel paese, hanno mangiato la colazione, cita anche i materiali… sono stati rifocillati dagli abitanti, e hanno catturato gli italiani, facendosi ovviamente guidare dalla popolazione locale. Lo stesso è avvenuto a Bergogna, l'attuale Breginj.
Probabilmente, in parte, qualcosa del genere è avvenuto anche a Caporetto. E lì, volendo, si potrebbero ricostruire le vicende della notte e del giorno di Caporetto, relativamente alla città. E ci sono dei fatti particolari. Alle due di notte un testimone ricorda di essere stato svegliato con tutta la famiglia, perché l'ufficiale italiano… (guarda caso si trovavano in una casa adibita a comando). Ricordo anche che due dei primi fucilati di Caporetto, Anton Knec e suo suocero, sono stati fucilati perché, abitando nella sede del nono battaglione bersaglieri, curiosamente il Knec stava sopra e gli italiani, cattivi, hanno detto che lui ascoltava quello che dicevano. Peccato che il signore fosse, prima di essere… prima era stato un soldato, poi un gendarme. E la funzione della gendarmeria austriaca, austroungarica, era esattamente nelle stazioni di confine quella di curare lo spionaggio della parte, usando i contrabbandieri e tutto il normale servizio di polizia.
Tra le righe, se noi leggiamo alcune testimonianze si intuisce che i primi giorni dell'avanzata non sono stati propriamente lineari, che è successo qualcosa. E quel qualcosa lo si ritrova anche, ad esempio, all'origine dei fatti di Idrsko e della conseguente decimazione. Intanto decimazione è un termine tecnico: semplicemente sono stati presi tot ostaggi e fucilati. [Dal pubblico: uno ogni dieci]. Questo dell'uno ogni dieci direi è una pratica, non vedo perché… [ Dal pubblico: dopo nove, il decimo…]  (…) questo è discutibile, in base al principio che l'intera avanzata, per storicizzare, l'intera avanzata austroungarica in Serbia appunto prevedeva la cattura di ostaggi, fino a che le truppe fossero sfilate attraverso un villaggio; nel caso qualcuno avesse sparato, pagavano gli ostaggi e veniva bruciato anche il villaggio. Idrsko ad esempio non è stato bruciato. Quindi, voglio dire, stiamo molto attenti a leggere in maniera isolata simili vicende. Fatta questa precisazione è curioso che la storiografia italiana non abbia mai citato i fatti di Idrsko. E per questo è importante il libro di Pavan, perché ci riporta, ci fa pensare, anche a quel fatto.
Ed è attraverso questo continuo rimando tra la memoria dei sopravvissuti, che è una memoria molto variata, vi sono coloro i quali — uno di questi ad esempio, ha servito come carabiniere. Anche questo è curioso, uno sloveno che poi ha fatto tutta la carriera come carabiniere e adesso ha una dignitosa pensione, ecc. — Altri che invece hanno seguito strade opposte. E attraverso queste memorie che vogliono lanciare lo stesso messaggio… E qui bisognerebbe essere in grado di distinguere…… (fine lato A della cassetta)

(Lato B)

… ora quello che è stato ripensato dopo tante e tante vicende e tante e tante guerre e alla fine si perdono le ragioni concrete degli eventi materiali di tre o quattro anni di guerra ed emerge il desiderio della popolazione locale o di quelli che sono rimasti lì di dire: ma sì, noi stavamo bene (in effetti si intuisce che queste persone stavano mediamente bene) e siamo passati attraverso la guerra. Il problema è: come sono passati? Ma anche qui, andando a leggere le testimonianze, risulta che poi, tutto sommato economicamente non se la sono passata mica male. E anche questo è un fatto estremamente curioso. C'è una popolazione che contemporaneamente viene mantenuta sul posto, oppure viene spostata, ma di poco. Una parte viene mandata in Italia, ma non tutta. Quindi è evidente una confusione amministrativa, che apre varchi enormi a quella che invece è la sostanza. E la sostanza è la presenza di un'area di guerra speciale, strutturata per consentire qualsiasi tipo di infiltrazione, garantita dall'interscambio continuo civili-militari, uomini-donne, la presenza di moltissimi uomini, o perché erano sordi, o perché non vedevano, altri comunque in età militare che però non andavano a fare il militare e che, visti dagli italiani, lasciavano quanto meno dei dubbi.
Emerge un altro fatto: la molteplicità degli esodi che accompagnano la Grande Guerra sul fronte dell'Isonzo. Non c'è solo l'esodo da Caporetto o il movimento degli esodi del maggio-giugno del '15. Un altro esodo si verifica nell'agosto del '16 in occasione della conquista di Gorizia e un altro esodo ancora si verifica nell'agosto del '17 in occasione della battaglia della Bainsizza. Allora si capiscono meglio gli italiani che in ambedue le battaglie documentano con un certo stupore la presenza di civili sulla linea del fuoco. Ancora una volta non solo donne, non solo anziani, ma curiosamente anche giovani. Sono curiosi, voglio dire, questi giovani, che si fanno pigliare, un po' sprovveduti, da questi italiani che avanzano. Ne consentirete che ci può essere un po' di malizia in tutto questo. Bisogna avere, secondo me, la freddezza necessaria per esaminare, per distinguere il piano soggettivo, quando è in buona fede, del testimone il quale svolge la semplice funzione già prevista da Mao Tse Tung nella splendida metafora del partigiano come il pesce nell'acqua. Ecco, le testimonianze di questi cittadini sloveni, sono le testimonianze dell'acqua. Questa era l'acqua nella quale si muovevano i pesci. I pesci che hanno raccolto i dati e che hanno eseguito determinate operazioni, senza le quali ciò che è accaduto a Caporetto non sarebbe avvenuto. O non sarebbe avvenuto in quei termini. Con questo, con questi elementi, interpolando la ricostruzione di Camillo Pavan, la ricostruzione della dottoressa Svoljšak i materiali portati dall'amico Drago Sedmak (mi dispiace che non sia qui presente) che ha, tra l'altro (questo studioso sloveno) un altro merito: un paio d'anni fa ha pubblicato e ha ricostruito la vicenda dei paesi a preponderanza slovena sotto l'Hermada. Anche in quel caso ha utilizzato, ha fatto un attento spoglio dello Slovenec, ma anche di altri giornali quotidiani o anche testate con cadenza diversa, da cui emerge un'altra storia. Partendo da questo elemento rimane lo stupore.
Io vorrei chiudere su questa osservazione. E' curioso che nel Nordest italiano, anzi nell'estremo Nordest italiano, di Caporetto escano in continuazione testi. Qui c'è il dott. Orio di Brazzano anche lui autore di un testo su Caporetto, una storia militare uscita non da molto. C'è Camillo Pavan, ci sono anch'io, eccetera. Tre testi che escono in un anno. A livello nazionale, la produzione scientifica deve recuperare un lieve ritardo. Deve recuperare un lieve ritardo perché negli anni Sessanta su Caporetto, su una certa lettura di Caporetto si sono costruite intere carriere universitarie. E la tesi era che Caporetto prefigurava una rivoluzione. Una rivoluzione peraltro molto strana, perché le testimonianze dicevano che a un certo punto nella ritirata, nel bel mezzo dei soldati, si è trovata la macchina in cui c'era sua maestà il re e anche il generale Cadorna. Ovverosia  il cuore dello stato. Non era il “palazzo d'inverno”; questa era, diciamo, la “carrozza d'inverno” in cui però c'erano tutti lì. E i soldati, questi presunti rivoluzionari, li vedevano, si mettevano sull'attenti, li salutavano (chi riusciva a riconoscerli). Salutavano rispettosamente i rispettivi comandanti: il supremo comandante e il capo militare senza che nessuno dicesse assolutamente nulla. Difficile sarebbe stato dire qualcosa a Cadorna, ma comunque, nessuno diceva assolutamente nulla. Pur essendo armati. Sarei stato curioso di vedere, mi sarebbe piaciuto di vedere il viaggio di Nicola 2° assieme a Kerenskij, diciamo nell'agosto del '17 nella ritirata delle truppe russe. Non credo che trovandosi in mezzo ai soldati russi né Kerenskij né tantomeno Nicola 2° sarebbero usciti vivi. Eppure la storiografia accademica italiana, che non ha mai scritto che Caporetto è Kobarid, e che a dir il vero non ha mai segnato, da nessuna parte in nessun testo la notazione di una presenza della popolazione slovena alle spalle e in prima linea (da qui, emerge): la prima linea era cinquecento metri dalle trincee, cioè niente. Tanto è vero che una testimonianza, racconta di un genitore che aveva i campi e che quando c'era un po' di nebbia o altro — lui era dalla parte austriaca — andava a raccogliere il suo materiale. Ci sono continue testimonianze di questi contadini che andavano a lavorare i campi. E volete che se la gente va a lavorare i campi non va a fare anche altre cose? Suvvia, cerchiamo di essere realisti. Ed è questo il livello di lettura che secondo me emerge da questo lavoro.
Ma il dato più importante, ripeto, è la passione che ha guidato Camillo Pavan, e l'incredibile quantità di materiale che lui ha messo insieme. Per cui dicevo “enciclopedia su Caporetto”; se c'è una miniera, è questa. C'è una miniera di elementi. Fotografie, documenti e traduzioni. Le traduzioni sono importantissime, perché sono le prime traduzioni dello Slovenec, integrali. Secondo me anzi, sarebbe il caso, discutevamo con l'amico Spazzali, di ipotizzare una silloge, ma addirittura qualcosa di più, di questo importante quotidiano, almeno relativamente al conflitto, tenendo poi conto che questo quotidiano va avanti per i successivi vent'anni e lo si ritrova anche nella seconda guerra mondiale. E quindi è una fonte di straordinaria utilità. Ed è merito appunto di Camillo Pavan di aver portato questo e anche altri elementi per consentirci di capire meglio questa realtà bellica.
Chiudo con una osservazione: una realtà bellica che ci obbliga a due riflessioni. Proprio recuperando le testimonianze degli sloveni che Pavan ha recuperato, emerge che a un certo punto per passare il tempo gli abitanti di Caporetto quando erano tristi o altro cantavano in coro. E tra le canzoni, il testo di alcune di queste canzoni erano le poesie di Simon Gregorčič.
  Ora Caporetto ha appunto dato i natali a questo grande poeta, un prete, cattolico, il quale era un po' nazionalista. Mica niente di male, ma ci ricorda un fatto, senza il quale noi non capiremo nulla. Il male e il nazionalismo non è stato portato al confine italiano, al confine di Nordest dagli italiani. Se c'è un male, questo male era ben presente sul posto. Perché non c'era «il» nazionalismo italiano, c'erano «i» nazionalismi.
E a Caporetto, questi nazionalismi, hanno creato l'ambiente nel quale per trenta mesi l'esercito italiano si è sì insediato ma nel quale sono stati raccolti tutti gli elementi necessari per poi liquidarlo. A Caporetto ci hanno messo trenta mesi. Quando l'esercito austriaco, austroungarico, nell'agosto del 1914 è passato attraverso la Vojvodina per andare contro la Serbia sono bastate due settimane. In due settimane di passaggio i civili Serbi hanno assimilato tante di quelle notizie da consentire di trasmettere al comando serbo il piano integrale di battaglia del comando austroungarico e di portarli a una prima clamorosa sconfitta. Due settimane. In trenta mesi conoscevano, quando hanno attaccato, conoscevano tutto e di più. Questa è la realtà.
E' una guerra speciale, una guerra speciale che l'Italia ha subìto sulla sua pelle e poi ha avuto probabilmente difficoltà a esaltare o a far conoscere per un motivo molto semplice: perché prima di un anno, prima del novembre del '18 anche l'Italia era in grado di reagire, di reagire con estrema violenza, perché era già preparato un piano per favorire un'insurrezione nel Friuli, in base alla teoria, peraltro giustificata, che in presenza di tentativi di parte austriaca di far sorgere un localismo, una “piccola patria friulana”, era opportuno che il popolo friulano versasse del sangue per dimostrare il suo attaccamento alla patria. Il colonnello Smaniotto aveva preparato i piani. Nel settembre del '18 i piani erano pronti. La previsione era di farli scattare nel '19 perché non si era ancora certi di chiudere quell'anno. Del resto questo non stupisce, perché anche in Inghilterra, Churchill stesso lo dice, per fortuna che i piani previsti per il '19 non sono stati messi in esecuzione, perché altrimenti sarebbe stato un massacro.
Infatti non sono stati messi in esecuzione nel '19, sono stati messi in esecuzione dal '39 in avanti, e questo vale per tutti gli eserciti. E questo, si è verificato nello stesso modo, anche per l'esercito italiano. Altrimenti non sarebbe comprensibile, ad esempio, la politica seguita dagli italiani nei confronti degli Ustascia, di Pavelić quando sì ufficialmente trattavano con il Regno serbo-croato-sloveno, ma intanto favorivano una guerra speciale all'interno della Jugoslavia. E poiché non l'avevano fatto tra il 1915 e il 1917, è evidente che hanno appreso in quel momento le tecniche e poi nei decenni successivi le hanno applicate. Ma si impara così la guerra. Wellington ha imparato da Napoleone come si faceva la guerra, e poi, e poi gli ha reso la pariglia. Gli italiani l'hanno imparata fino al '17, dal '17 in avanti hanno reso anche loro la pariglia. Vi ringrazio.

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