dagli austriaci, vennero tragicamente coinvolte anche
le popolazioni civili dei territori prossimi alle zone d'operazioni
FU CAPORETTO
PER OGNI FAMIGLIA
DEL VENETO
Il libro di Camillo Pavan è molto ricco di documenti e fotografie |
di IGOR PRINCIPE
"Sì: anche se ormai gli echi della grande guerra tacevano da tempo e anche se l'erba ricopriva le trincee, noi continuavamo a subire i danni di quel conflitto. Limitare il concetto di "vittime di guerra" ai soli morti e feriti non esaurisce la lista effettiva delle perdite subite da una società. Quante distruzioni nella cultura, quanta devastazione nella nostra consapevolezza, quanto impoverimento, quanto sciupio nella nostra vita intellettuale! E questo per generazioni e generazioni, per anni e anni". Un grido disperato.
Ad ascoltarlo con orecchio attento, sembra provenire dalla voce di uno dei soldati che spesero i loro giorni migliori nelle trincee che solcarono l'Europa durante il conflitto del 1914-18. E' invece il pensiero - dettato dal ricordo - di un grande giornalista, ultimo esponente con pochissimi altri di quella generazione di cronisti di guerra che ha provato l'amaro ma suadente sapore della prima linea, che ha consumato le suole di centinaia di scarpe e i tasti delle macchine da scrivere portatili.
Parliamo del polacco Ryszard Kapuscinszky, le cui parole, annotate in un taccuino di appunti, non si riferiscono a quei quattro anni di tragedie passati alla storia con il nome di "Grande Guerra", bensì all'altro e ben più tragico conflitto, la Seconda Guerra Mondiale, che lo scrittore ha vissuto e osservato con gli occhi di un bambino di sette anni. Pure, sembrano tagliate a misura per gli scenari della guerra precedente, che nella storia d'Italia può essere sintetizzata con due nomi: Caporetto, ovvero la disfatta e Piave, l'inizio della rinascita. Al primo di quei due capitoli è dedicato il libro di cui ci occupiamo in questo articolo.
Lo ha scritto il giornalista Camillo Pavan, che al pari del citato collega polacco ha camminato, nell'arco di quattro anni, per chilometri e chilometri nei luoghi che furono teatro di quella tragedia, ha compulsato documenti ufficiali, ha sentito la viva voce di uomini e donne che vissero quel cruciale episodio pur senza indossare l'uniforme dei fanti. Da questo lavoro è nato Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari, (pp. 472, L.60.000. Camillo Pavan editore, Treviso, 1997). Un testo che, oltre ad essere una miniera di informazioni e di immagini (ben 374), è fondamentale per comprendere i molteplici scenari legati a una guerra. Scenari che non si limitano ai soli campi di battaglia ma si estendono alla vita quotidiana, stravolta dalla tipica schizofrenia dei momenti bellici. Un tema spesso dimenticato dalle cronache degli inviati e dai libri degli storici, concentrati rispettivamente sul serrato incedere degli eventi e sulle cause politiche ed economiche dei conflitti. Un tema tuttavia fondamentale, che racconta una storia parallela a quella "ufficiale" ma non meno importante né meno bella.
Pavan, s'è detto, ha concentrato la sua indagine sulle popolazioni civili che abitavano paesi e città dislocati sul fronte austro-italiano, che con quello franco-tedesco è stato il palcoscenico principale della Grande Guerra. Popoli che, pur non avendo tutti ascoltato da vicino il sibilo delle pallottole o il tuono delle granate, ne hanno provato gli effetti sulla vita di
tutti i giorni. Primo tra tutti, la modifica - chiamiamola così - del proprio status sociale: da civili, cittadini di una nazione si sono scoperti, nel volgere di poche ore, profughi e apolidi. Quel conflitto, insomma, ha dato il "la" ad un drammatico fenomeno che tuttora permane e di cui l'Italia ha forse, tra i Paesi europei, la maggior percezione.
Oggi vediamo approdare sulle nostre coste gommoni gravidi di disperati, in fuga da zone in cui fino a poco tempo addietro ha imperversato una guerra e dove, adesso, se ne subiscono gli strascichi. Allora - e durante i conflitti che sono seguiti a quello cominciato nel 1914 - non erano spietati scafisti a condurre i profughi lontano dalle loro case, ma carretti di legno trainati a mano o da qualche animale. O, più semplicemente, le malandate scarpe di quegli sfortunati. Il Novecento è stato molte cose: il secolo breve, quello dei totalitarismi, quello della bomba atomica, quello dell'uomo sulla luna.
"E' stato anche - scrive Pavan - il secolo dei profughi". Il fenomeno delle migrazioni forzate, vecchio quanto l'uomo, ha conosciuto con la Prima Guerra Mondiale una decisiva accelerazione. Con la mirabile precisione di un contabile, l'autore riporta i dati che seguono. Sul fronte occidentale, un milione di persone devono abbandonare il Belgio, in seguito all'avanzata dell'esercito tedesco nell'agosto del 1914, per dirigersi in Olanda e in Francia. L'inarrestabile avanzata tedesca costringe però anche i francesi ad abbandonare le loro case per cercare riparo altrove.
Il 2 settembre dello stesso anno il governo lascia Parigi - ormai assediata dalle truppe del Kaiser, giunte a 80 chilometri dalla capitale - e si trasferisce a Bordeaux. Con esso, due milioni tra parigini e francesi del nord si trasferiscono forzatamente in luoghi del Paese non interessati - meglio, non ancora - dal conflitto. Non dissimile il quadro sul fronte orientale. L'esercito russo costringe alla fuga circa settecentomila galiziani e un imprecisato numero di prussiani dell'est. Nei Balcani, prima migliaia di Serbi, quindi altrettanti Romeni cedono il passo agli avanzanti eserciti degli Imperi Centrali.
E ancora: due milioni di Armeni sono l'obiettivo di una colossale deportazione che il governo dell'Impero Ottomano ha in animo di effettuare per risolvere definitivamente l'annosa questione con quel popolo. Un quarto del quale riesce a fuggire; la maggioranza, invece, viene "trasferita" in Siria e in Mesopotamia, luoghi che circa un milione di Armeni non riuscirà a raggiungere, terminato da sevizie e da malattie. Il fronte austro-italiano è invece teatro di un'escalation che dalle centosettantamila unità, che gli scontri iniziali tra i due eserciti spingono verso le zone interne dei rispettivi paesi, arriverà al mezzo milione di fuggiaschi coinvolti nella tragica rotta di Caporetto. Risultato: cinque milioni di civili, di "non combattenti" lasciano le loro case, e il cuore della loro esistenza, grazie ad una guerra che ha interessato complessivamente cinquanta milioni di soldati. Le ragioni dell'accelerazione dei fenomeni migratori sono da individuare nel mutamento della filosofia bellica strettamente correlato al conflitto in discorso. A differenza del passato, quando una singola battaglia era in grado di risolvere una guerra, in quella del 1914-18 si affermano nelle menti degli strateghi la tecnica dello sfondamento prima, e quella del logoramento poi. Il comando concentra le forze in un preciso settore del fronte, spreme l'artiglieria fino all'ultima risorsa, manda all'assalto la fanteria facendo uccidere migliaia di soldati. Col risultato di non sfondare alcunché.
Si passa quindi alla seconda tecnica: sottoporre il nemico a continui getti di fuoco e aggressioni umane, sì da logorarne la capacità di resistere. La carneficina di Verdun ha insegnato che azioni di questo tipo logorano chi le mette in atto. Ma lasciando da parte le
considerazioni strategiche, va sottolineato che l'impiego prolungato degli eserciti nelle zone di guerra costringe inevitabilmente chi quelle zone abita a lasciarle in balìa di chi si fronteggia. Che, inoltre, lo fa utilizzando un arsenale ben più distruttivo di quelli in uso nelle guerre combattute sino alla fine dell'Ottocento.
Cannoni molto più potenti, granate, mitragliatrici, carri armati, bombardamenti aerei: le armi della Grande Guerra non uccidono più soltanto chi sta sul campo di battaglia, ma anche le persone che abitano nelle sue adiacenze. Che, per salvarsi la vita, abbracciano la tremenda condizione di profughi. La vicenda dei quali "si risolse in una storia di iniquità sociali e, in conseguenza del loro innesto innaturale in un contesto straniero, anche in una vicenda di disparità etniche culturali e linguistiche - scrive Pavan -.
I profughi vissero sospesi in una continua incertezza tra passato e futuro, assillati con continuamente dall'ansia, dalla speranza e dal pensiero costantemente rivolto per un verso al periodo prebellico e per un altro all'ignoto che solo la fine della guerra avrebbe svelato. I profughi - prosegue l'autore - dovettero adattarsi alle esigenze imposte dalla "nuova vita", furono costretti perciò ad ogni genere di privazioni. La loro vita era dominata dalla pazienza e dal coraggio, dalla coesistenza in condizioni di vita ardue, da una lotta che ebbe per unico obiettivo la mera sopravvivenza".
Così, interi paesi vengono privati - prima ancora che delle loro bellezze architettoniche e artistiche - dei loro cittadini, e cioè della loro anima. A Gorizia nel 1910 abitano trentamila persone; nel 1916, un decimo di esse attende l'arrivo delle truppe italiane, e l'anno successivo un centinaio di civili rimane nelle loro case mentre giunge in città l'esercito austro-tedesco. A Trieste, che sempre nel '10 conta duecentotrentamila abitanti, la guerra dimezza la popolazione.
Fredde cifre, che però fanno luce su quel che la Grande Guerra ha significato per chi abitava nei pressi della frontiera orientale tra Italia e Impero asburgico. La loro fuga è dapprincipio disordinata: si cerca rifugio presso parenti, amici, semplici conoscenti; si fa di tutto, in particolare, per non allontanarsi dalla propria casa, dai poderi, dalle proprietà che si è dovuti lasciare su ordine delle autorità militari.
Il loro esodo si rivela però di intralcio alla truppe dirette al fronte: i fienili, per esempio, che devono essere lasciati a disposizione dell'esercito, sono invece occupati da civili in fuga. Questo e altri numerosi inconvenienti determinano la decisione dei comandi militari di spostare i fuggiaschi all'interno e del territorio dell'Impero e di quello italiano. C'è chi non fa troppi chilometri, fermandosi in Carniola, in Stiria e in Carinzia. Ma c'è anche chi è costretto a salire su un treno ed è mandato a costruirsi una nuova vita in regioni fisicamente, e soprattutto spiritualmente, lontane da quelle natie.
Migliaia di austriaci di confine e di sloveni si ritrovano catapultati in Boemia, in Moravia, a Vienna, in Ungheria; migliaia di giuliani devono ripartire daccapo a Torino, Livorno, Firenze, Napoli, addirittura a Ventotene, l'isola pontina che durante il Ventennio ospiterà illustri dissidenti e perseguitati politici. Tuttavia si cercano soluzioni diverse, che il governo austriaco trova costruendo le cosiddette "città di legno", primo esempio nella storia di quello che siamo soliti chiamare "campo profughi". Agglomerati di baracche sorgono un po' dovunque arrivino civili provenienti da zone di guerra, affinché questi vi possano trovare un minimo riparo. Minimo davvero: vi si patisce la fame e la propensione ad ammalarsi sale a livelli esponenziali, decimando indifferentemente migliaia di adulti e bambini.
"Perciò la gente accettava molto malvolentieri di esservi mandata - racconta l'autore - e, se era costretta a viverci, nascondeva i propri cari ai medici, perché non si fidava di essi. Il ricordo di questi duri tempi e delle morti così frequenti nei campi profughi è tuttora vivo
nella tradizione orale di tutti i paesi lungo il confine italo-sloveno dai quali i profughi provenivano". La Grande Guerra, inoltre, ha partorito un embrione di quegli orribili fenomeni che, pochi decenni più tardi, passeranno alla storia con il nome di lager e di gulag. Si ha notizia, infatti, che gli invisi al potere politico di Vienna, definiti "sospettati politici", siano stati destinati a due "campi profughi" scelti, quello di austriaco di Katzenau e quello ungherese di Tapiosuly.
In quest'ultimo, in particolare, sono stati rinchiusi alcuni italiani irredentisti, membri della società segreta Giovane Fiume. Cosa vi sia accaduto e come essi siano stati trattati, tuttavia, non è dato sapere; certo, è facile immaginarlo. Non c'è bisogno di immaginazione, invece, nel leggere le testimonianze che - come s'è anticipato - Pavan ha raccolto da ex profughi. Sono racconti toccanti, che costituiscono il cuore del suo lavoro e che con la forza devastante del racconto spiegano cosa abbia significato abbandonare tutto per scappare dalla guerra. Maria Leban, classe 1910, di Gabrje, narra dell'arrivo di un uomo che fa squillare una tromba e intima la fuga a lei a ai suoi familiari: "Noi non ci siamo portati via niente, siamo partiti così come eravamo vestiti.
La prima notte da profughi l'abbiamo passata nel bosco: poi siamo arrivati in un paese su nella montagna, sopra Tolmino (…). Vi siamo rimasti un mese e anche di più, finché abbiamo dovuto lasciare anche quel posto e siamo andati a prendere il treno a Podbrdo, camminando a piedi attraverso la montagna". E sempre a Tolmino è nata, nel 1907, Amalia Kanalec, che ricorda la madre ammalata di tifo: "(…) venne dapprima portata all'ospedale di Gorizia, poi, siccome anche lì c'era il pericolo perché era vicino al fronte, venne trasportata in un ospedale della Cecoslovacchia, non so in che città. Rimase via per un anno e mezzo e noi non sapevamo nulla di nostra madre, non sapevamo nemmeno dove fosse quest'ospedale".
Il passaggio dei tedeschi, ancora a Tolmino, è fissato indelebile nella memoria di Ivan Leban, classe 1906: "La nostra casa era completamente rovinata, non potevamo neanche entrarci dentro; c'era solo una trave al suo posto. I soldati avevano portato via e bruciato tutto, quindi mio padre ha dovuto trovare il legname per ricostruire tutto di nuovo. Dapprima preparavamo una stanza e appena quella era finita vi andavamo dentro, e così abbiamo fatto con tutta la casa, finché abbiamo potuto chiamare tutto il resto della famiglia". Emozionanti fotografie di una faccia dimenticata, s'è detto, del poliedro Grande Guerra. Che, in quanto evento bellico, avrebbe dovuto essere una breve parentesi, un'eccezione tra le normali regole della vita quotidiana.
Un'eccezione che, tuttavia, è durata tre anni e ha coinvolto le popolazioni civili come mai era accaduto prima. I contadini innanzitutto, che hanno rappresentato il novanta percento dei caduti in battaglia. Sradicati dai loro campi e mandati al fronte, hanno lasciato a casa le mogli ad occuparsi non più soltanto dei figli ma anche degli anziani e dei terreni, da mandare avanti con il duro lavoro fisico. E poi gli operai, mobilitati a pieno ritmo nell'industria bellica, sottoposti a orari di fabbrica insostenibili e privi, in ragione dello stato di emergenza, di ogni tutela sindacale. L'intera società europea, insomma, è immersa in una guerra pervasiva e totale, che raggiunge anche coloro che non assistono in prima persona al passaggio delle colonne di soldati dirette al fronte. Ma chi li ha visti passare, in molti casi, ha come dovuto seguirli in un viaggio talvolta senza fine, in battaglie sui generis contro la fame e l'ostilità di genti straniere. Una guerra da combattere lontano da casa, per tentare a tutti i costi di farvi ritorno.
Ad ascoltarlo con orecchio attento, sembra provenire dalla voce di uno dei soldati che spesero i loro giorni migliori nelle trincee che solcarono l'Europa durante il conflitto del 1914-18. E' invece il pensiero - dettato dal ricordo - di un grande giornalista, ultimo esponente con pochissimi altri di quella generazione di cronisti di guerra che ha provato l'amaro ma suadente sapore della prima linea, che ha consumato le suole di centinaia di scarpe e i tasti delle macchine da scrivere portatili.
Parliamo del polacco Ryszard Kapuscinszky, le cui parole, annotate in un taccuino di appunti, non si riferiscono a quei quattro anni di tragedie passati alla storia con il nome di "Grande Guerra", bensì all'altro e ben più tragico conflitto, la Seconda Guerra Mondiale, che lo scrittore ha vissuto e osservato con gli occhi di un bambino di sette anni. Pure, sembrano tagliate a misura per gli scenari della guerra precedente, che nella storia d'Italia può essere sintetizzata con due nomi: Caporetto, ovvero la disfatta e Piave, l'inizio della rinascita. Al primo di quei due capitoli è dedicato il libro di cui ci occupiamo in questo articolo.
Lo ha scritto il giornalista Camillo Pavan, che al pari del citato collega polacco ha camminato, nell'arco di quattro anni, per chilometri e chilometri nei luoghi che furono teatro di quella tragedia, ha compulsato documenti ufficiali, ha sentito la viva voce di uomini e donne che vissero quel cruciale episodio pur senza indossare l'uniforme dei fanti. Da questo lavoro è nato Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari, (pp. 472, L.60.000. Camillo Pavan editore, Treviso, 1997). Un testo che, oltre ad essere una miniera di informazioni e di immagini (ben 374), è fondamentale per comprendere i molteplici scenari legati a una guerra. Scenari che non si limitano ai soli campi di battaglia ma si estendono alla vita quotidiana, stravolta dalla tipica schizofrenia dei momenti bellici. Un tema spesso dimenticato dalle cronache degli inviati e dai libri degli storici, concentrati rispettivamente sul serrato incedere degli eventi e sulle cause politiche ed economiche dei conflitti. Un tema tuttavia fondamentale, che racconta una storia parallela a quella "ufficiale" ma non meno importante né meno bella.
Pavan, s'è detto, ha concentrato la sua indagine sulle popolazioni civili che abitavano paesi e città dislocati sul fronte austro-italiano, che con quello franco-tedesco è stato il palcoscenico principale della Grande Guerra. Popoli che, pur non avendo tutti ascoltato da vicino il sibilo delle pallottole o il tuono delle granate, ne hanno provato gli effetti sulla vita di
Una colonna di profughi in fuga dopo l'invasione delle truppe austro-ungariche |
Oggi vediamo approdare sulle nostre coste gommoni gravidi di disperati, in fuga da zone in cui fino a poco tempo addietro ha imperversato una guerra e dove, adesso, se ne subiscono gli strascichi. Allora - e durante i conflitti che sono seguiti a quello cominciato nel 1914 - non erano spietati scafisti a condurre i profughi lontano dalle loro case, ma carretti di legno trainati a mano o da qualche animale. O, più semplicemente, le malandate scarpe di quegli sfortunati. Il Novecento è stato molte cose: il secolo breve, quello dei totalitarismi, quello della bomba atomica, quello dell'uomo sulla luna.
"E' stato anche - scrive Pavan - il secolo dei profughi". Il fenomeno delle migrazioni forzate, vecchio quanto l'uomo, ha conosciuto con la Prima Guerra Mondiale una decisiva accelerazione. Con la mirabile precisione di un contabile, l'autore riporta i dati che seguono. Sul fronte occidentale, un milione di persone devono abbandonare il Belgio, in seguito all'avanzata dell'esercito tedesco nell'agosto del 1914, per dirigersi in Olanda e in Francia. L'inarrestabile avanzata tedesca costringe però anche i francesi ad abbandonare le loro case per cercare riparo altrove.
Il 2 settembre dello stesso anno il governo lascia Parigi - ormai assediata dalle truppe del Kaiser, giunte a 80 chilometri dalla capitale - e si trasferisce a Bordeaux. Con esso, due milioni tra parigini e francesi del nord si trasferiscono forzatamente in luoghi del Paese non interessati - meglio, non ancora - dal conflitto. Non dissimile il quadro sul fronte orientale. L'esercito russo costringe alla fuga circa settecentomila galiziani e un imprecisato numero di prussiani dell'est. Nei Balcani, prima migliaia di Serbi, quindi altrettanti Romeni cedono il passo agli avanzanti eserciti degli Imperi Centrali.
E ancora: due milioni di Armeni sono l'obiettivo di una colossale deportazione che il governo dell'Impero Ottomano ha in animo di effettuare per risolvere definitivamente l'annosa questione con quel popolo. Un quarto del quale riesce a fuggire; la maggioranza, invece, viene "trasferita" in Siria e in Mesopotamia, luoghi che circa un milione di Armeni non riuscirà a raggiungere, terminato da sevizie e da malattie. Il fronte austro-italiano è invece teatro di un'escalation che dalle centosettantamila unità, che gli scontri iniziali tra i due eserciti spingono verso le zone interne dei rispettivi paesi, arriverà al mezzo milione di fuggiaschi coinvolti nella tragica rotta di Caporetto. Risultato: cinque milioni di civili, di "non combattenti" lasciano le loro case, e il cuore della loro esistenza, grazie ad una guerra che ha interessato complessivamente cinquanta milioni di soldati. Le ragioni dell'accelerazione dei fenomeni migratori sono da individuare nel mutamento della filosofia bellica strettamente correlato al conflitto in discorso. A differenza del passato, quando una singola battaglia era in grado di risolvere una guerra, in quella del 1914-18 si affermano nelle menti degli strateghi la tecnica dello sfondamento prima, e quella del logoramento poi. Il comando concentra le forze in un preciso settore del fronte, spreme l'artiglieria fino all'ultima risorsa, manda all'assalto la fanteria facendo uccidere migliaia di soldati. Col risultato di non sfondare alcunché.
Si passa quindi alla seconda tecnica: sottoporre il nemico a continui getti di fuoco e aggressioni umane, sì da logorarne la capacità di resistere. La carneficina di Verdun ha insegnato che azioni di questo tipo logorano chi le mette in atto. Ma lasciando da parte le
Un rifugio per profughi improvvisato dall'esercito italiano nei pressi di Pordenone |
Cannoni molto più potenti, granate, mitragliatrici, carri armati, bombardamenti aerei: le armi della Grande Guerra non uccidono più soltanto chi sta sul campo di battaglia, ma anche le persone che abitano nelle sue adiacenze. Che, per salvarsi la vita, abbracciano la tremenda condizione di profughi. La vicenda dei quali "si risolse in una storia di iniquità sociali e, in conseguenza del loro innesto innaturale in un contesto straniero, anche in una vicenda di disparità etniche culturali e linguistiche - scrive Pavan -.
I profughi vissero sospesi in una continua incertezza tra passato e futuro, assillati con continuamente dall'ansia, dalla speranza e dal pensiero costantemente rivolto per un verso al periodo prebellico e per un altro all'ignoto che solo la fine della guerra avrebbe svelato. I profughi - prosegue l'autore - dovettero adattarsi alle esigenze imposte dalla "nuova vita", furono costretti perciò ad ogni genere di privazioni. La loro vita era dominata dalla pazienza e dal coraggio, dalla coesistenza in condizioni di vita ardue, da una lotta che ebbe per unico obiettivo la mera sopravvivenza".
Così, interi paesi vengono privati - prima ancora che delle loro bellezze architettoniche e artistiche - dei loro cittadini, e cioè della loro anima. A Gorizia nel 1910 abitano trentamila persone; nel 1916, un decimo di esse attende l'arrivo delle truppe italiane, e l'anno successivo un centinaio di civili rimane nelle loro case mentre giunge in città l'esercito austro-tedesco. A Trieste, che sempre nel '10 conta duecentotrentamila abitanti, la guerra dimezza la popolazione.
Fredde cifre, che però fanno luce su quel che la Grande Guerra ha significato per chi abitava nei pressi della frontiera orientale tra Italia e Impero asburgico. La loro fuga è dapprincipio disordinata: si cerca rifugio presso parenti, amici, semplici conoscenti; si fa di tutto, in particolare, per non allontanarsi dalla propria casa, dai poderi, dalle proprietà che si è dovuti lasciare su ordine delle autorità militari.
Il loro esodo si rivela però di intralcio alla truppe dirette al fronte: i fienili, per esempio, che devono essere lasciati a disposizione dell'esercito, sono invece occupati da civili in fuga. Questo e altri numerosi inconvenienti determinano la decisione dei comandi militari di spostare i fuggiaschi all'interno e del territorio dell'Impero e di quello italiano. C'è chi non fa troppi chilometri, fermandosi in Carniola, in Stiria e in Carinzia. Ma c'è anche chi è costretto a salire su un treno ed è mandato a costruirsi una nuova vita in regioni fisicamente, e soprattutto spiritualmente, lontane da quelle natie.
Migliaia di austriaci di confine e di sloveni si ritrovano catapultati in Boemia, in Moravia, a Vienna, in Ungheria; migliaia di giuliani devono ripartire daccapo a Torino, Livorno, Firenze, Napoli, addirittura a Ventotene, l'isola pontina che durante il Ventennio ospiterà illustri dissidenti e perseguitati politici. Tuttavia si cercano soluzioni diverse, che il governo austriaco trova costruendo le cosiddette "città di legno", primo esempio nella storia di quello che siamo soliti chiamare "campo profughi". Agglomerati di baracche sorgono un po' dovunque arrivino civili provenienti da zone di guerra, affinché questi vi possano trovare un minimo riparo. Minimo davvero: vi si patisce la fame e la propensione ad ammalarsi sale a livelli esponenziali, decimando indifferentemente migliaia di adulti e bambini.
"Perciò la gente accettava molto malvolentieri di esservi mandata - racconta l'autore - e, se era costretta a viverci, nascondeva i propri cari ai medici, perché non si fidava di essi. Il ricordo di questi duri tempi e delle morti così frequenti nei campi profughi è tuttora vivo
Tolmino (provincia di Gorizia) dopo la dodicesima battaglia dell'Isonzo |
In quest'ultimo, in particolare, sono stati rinchiusi alcuni italiani irredentisti, membri della società segreta Giovane Fiume. Cosa vi sia accaduto e come essi siano stati trattati, tuttavia, non è dato sapere; certo, è facile immaginarlo. Non c'è bisogno di immaginazione, invece, nel leggere le testimonianze che - come s'è anticipato - Pavan ha raccolto da ex profughi. Sono racconti toccanti, che costituiscono il cuore del suo lavoro e che con la forza devastante del racconto spiegano cosa abbia significato abbandonare tutto per scappare dalla guerra. Maria Leban, classe 1910, di Gabrje, narra dell'arrivo di un uomo che fa squillare una tromba e intima la fuga a lei a ai suoi familiari: "Noi non ci siamo portati via niente, siamo partiti così come eravamo vestiti.
La prima notte da profughi l'abbiamo passata nel bosco: poi siamo arrivati in un paese su nella montagna, sopra Tolmino (…). Vi siamo rimasti un mese e anche di più, finché abbiamo dovuto lasciare anche quel posto e siamo andati a prendere il treno a Podbrdo, camminando a piedi attraverso la montagna". E sempre a Tolmino è nata, nel 1907, Amalia Kanalec, che ricorda la madre ammalata di tifo: "(…) venne dapprima portata all'ospedale di Gorizia, poi, siccome anche lì c'era il pericolo perché era vicino al fronte, venne trasportata in un ospedale della Cecoslovacchia, non so in che città. Rimase via per un anno e mezzo e noi non sapevamo nulla di nostra madre, non sapevamo nemmeno dove fosse quest'ospedale".
Il passaggio dei tedeschi, ancora a Tolmino, è fissato indelebile nella memoria di Ivan Leban, classe 1906: "La nostra casa era completamente rovinata, non potevamo neanche entrarci dentro; c'era solo una trave al suo posto. I soldati avevano portato via e bruciato tutto, quindi mio padre ha dovuto trovare il legname per ricostruire tutto di nuovo. Dapprima preparavamo una stanza e appena quella era finita vi andavamo dentro, e così abbiamo fatto con tutta la casa, finché abbiamo potuto chiamare tutto il resto della famiglia". Emozionanti fotografie di una faccia dimenticata, s'è detto, del poliedro Grande Guerra. Che, in quanto evento bellico, avrebbe dovuto essere una breve parentesi, un'eccezione tra le normali regole della vita quotidiana.
Un'eccezione che, tuttavia, è durata tre anni e ha coinvolto le popolazioni civili come mai era accaduto prima. I contadini innanzitutto, che hanno rappresentato il novanta percento dei caduti in battaglia. Sradicati dai loro campi e mandati al fronte, hanno lasciato a casa le mogli ad occuparsi non più soltanto dei figli ma anche degli anziani e dei terreni, da mandare avanti con il duro lavoro fisico. E poi gli operai, mobilitati a pieno ritmo nell'industria bellica, sottoposti a orari di fabbrica insostenibili e privi, in ragione dello stato di emergenza, di ogni tutela sindacale. L'intera società europea, insomma, è immersa in una guerra pervasiva e totale, che raggiunge anche coloro che non assistono in prima persona al passaggio delle colonne di soldati dirette al fronte. Ma chi li ha visti passare, in molti casi, ha come dovuto seguirli in un viaggio talvolta senza fine, in battaglie sui generis contro la fame e l'ostilità di genti straniere. Una guerra da combattere lontano da casa, per tentare a tutti i costi di farvi ritorno.
Recensione pubblicata sul n. 51 - gennaio 2001 della rivista online
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