Trieste, Libreria internazionale Borsatti, Giovedì 27 novembre 1997
(Trascrizione integrale) ASCOLTA l'AUDIO
Grazie di essere venuti a questa presentazione. Come sapete si parla del volume di Camillo Pavan: “Caporetto, Storia, Testimonianze, Itinerari”, ulteriore testo su un argomento che sembrava ormai sviscerato in tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi dettagli, ma che continua a riservare sorprese. Continuano a uscire libri, non solo recuperi e ristampe di testi classici o dimenticati o emarginati per ragioni politiche e ideologiche come è accaduto con quelli pubblicati dall'editore Gaspari di Udine, che vedete esposti anche lì, testi degli anni Trenta, ma anche libri completamente nuovi, che cercano di collocare in una nuova luce la vicenda di Caporetto.
E quindi, dopo aver parlato una decina di giorni fa dei testi di Gaspari e in futuro in altra occasione e sede parleremo anche di altri lavori, quelli dell'amico e collega Antonio Sema, oggi abbiamo il piacere di parlare di questo volume di Camillo Pavan.
Per il quale a livello generale si possono tranquillamente ripetere alcune considerazioni che avevamo già fatto parlando dei testi di Gaspari. Testi di Gaspari non solo in quanto da lui editi ma anche perché in larga parte suoi, poiché questo autore-editore ha anche scritto dei saggi introduttivi o postfazioni a questi recuperi di testi degli anni Trenta, come quelli di Cesco Tomaselli e di Roberto Bencivenga. Vale a dire che, in un momento in cui le grandi case editrici, a proposito di Caporetto, si sono limitate a ristampare vecchi libri o tutt'al più a fare qualche lieve ritocco - aggiornamento a testi che erano comparsi negli anni Sessanta (all'altezza del 1967-68, in occasione del cinquantesimo anniversario della battaglia di Caporetto), sono stati dei piccoli editori locali, regionali (Gaspari a Udine, Ossola con l'Editrice Goriziana a Gorizia e Pavan, anche lui autore e editore in proprio, in Veneto) a pubblicare alcune delle cose più nuove, più originali e più significative. E anche questo deve fare riflettere sul valore, sul significato da attribuire a certe parole come quella di editore minore. Editori minori forse da un punto di vista quantitativo, non potendo certo competere con quegli imperi editoriali - commerciali che sono la Mondadori, Il Mulino, Einaudi, quelle grandi sigle storiche dell'editoria italiana, ma minori certamente non sul piano qualitativo perché molto spesso sono quelli che pubblicano le cose migliori, più originali, rischiano in proprio pubblicando dei testi fortemente innovativi, di rottura, di critica radicale rispetto a quelle tradizioni storiografiche consolidate. Come quella di Caporetto, appunto, pagina vergognosa della storia dell'onore militare italiano, disfatta assoluta, tanto è vero che la parola ormai viene utilizzata come sinonimo di disastro, di onta, di vergogna. “Caporetto” diventa una sconfitta della squadra nazionale di calcio con un'avversario, “Caporetto” una sconfitta della squadra cittadina di calcio, “Caporetto” sono tante cose, comunque tutte collegate a connotazioni fortemente negative.
Ora, questa serie di libri che è appena uscita in questi ultimi mesi compreso il libro di cui parliamo oggi rimette in discussione questo stereotipo che si è creato subito dopo la battaglia — per così dire — e che per diverse varie ragioni si è consolidato nei decenni successivi e ha avuto tutti i crismi dell'ufficialità da parte di una certa storiografia negli anni Cinquanta, ma ancora più Sessanta e Settanta. Perché la vicenda è stata analizzata in sè stessa, ci si è lasciati condizionare da una serie di documenti ufficiali come gli atti della Commissione d'Inchiesta del Regno subito dopo la stessa vicenda di Caporetto, perché ci si è lasciati condizionare da una serie di giudizi condizionati da pregiudiziali di tipo ideologico circolate più o meno subito dopo la sconfitta di Caporetto. Senza tener conto (richiudendo il discorso solo sulla dimensione puramente nazionale e locale, dimenticando quella che è una delle buone, sane e normali regole di metodo storico: quella del discorso comparativo, del confronto, della comparazione), che sconfitte altrettanto catastrofiche e disastrose le hanno avute anche gli eserciti alleati dell'Italia durante la prima guerra mondiale. Gli inglesi e i francesi, ancora nella primavera del '18, parecchi mesi dopo Caporetto, dopo la sorpresa di Caporetto, cadono per così dire nella stessa trappola organizzata dalle armate tedesche sul fronte occidentale e subiscono sconfitte durissime che mettono in crisi tutto il sistema alleato, che si salva soltanto per l'intervento e l'appoggio degli americani che incominciano ad affluire in forze da oltre Atlantico. Eppure in Francia nessuno, né sul versante inglese, né sul versante francese ha mai pensato di considerare delle disfatte, delle onte per i rispettivi eserciti nazionali, quelle sconfitte durissime subite in Piccardìa, nell'Artois, in tutte le zone oggetto delle ultime grandi offensive di Hindenburg e Ludendorff, nonostante che inglesi e francesi avessero perso migliaia di cannoni, decine di migliaia di mitragliatrici, centinaia di migliaia di uomini (uccisi o fatti prigionieri o comunque messi fuori combattimento per periodi più o meno lunghi), si fossero aperti varchi enormi, i tedeschi avessero conquistato posizioni che era da quattro anni che cercavano invano di prendere, avessero addirittura separato i due fronti, quello inglese da quello francese e costretto gli alleati a un arretramento di decine di chilometri. Eppure nessuno ha mai parlato di queste pur durissime sconfitte franco-inglesi come di “Caporetto” degli inglesi e rispettivamente dei francesi. Per non parlare poi del modo in cui gli inglesi hanno saputo presentare nella seconda guerra mondiale quello che è stato il disastro di Dunkerque, presentandolo in realtà come una grande vittoria, per essere riusciti a salvare gli uomini e le truppe, seppur lasciando in mano ai tedeschi carri armati, automezzi, armamenti pesanti.
Quindi il discorso di Caporetto è ancora un discorso in larghissima parte, a ottant'anni dallo svolgimento di quelle vicende, da fare, perlomeno da riscrivere, all'interno di quel discorso di continua revisione che gli storici seri non possono non fare.
Si parla, si discute tanto di revisionismo. Si è attaccato De Felice e tanti altri illustri storici, come Furet e Nolte perché revisionisti di certe letture, di certe interpretazioni o modi di leggere la storia passata, la rivoluzione francese, il fascismo, il nazionalsocialismo, senza pensare che in realtà il vero storico è sempre un revisionista, che rimette in discussione costantemente le acquisizioni di quelli che lo hanno preceduto alla luce di nuovi documenti, di nuovi dati, di nuovi strumenti metodologici che consentono di affrontare da altri punti di vista, da nuove angolature temi … che attraversano tutte le generazioni e che si pongono in una luce sempre nuova a chi si occupa di storia e cerca di capire onestamente, fuori da condizionamenti di tipo ideologico, il passato.
E quindi anche rispetto a quella che era ormai la vulgata tradizionale su Caporetto “onta e disastro dell'esercito italiano”, che avrebbe rivelato le debolezze del carattere italiano sono usciti una serie di libri indipendentemente l'uno dall'altro. Gli autori Gaspari, Sema e Pavan non erano minimamente collegati fra di loro, non facevano parte di una medesima scuola, hanno tradizioni intellettuali alle loro spalle completamente diverse. Eppure, lavorando onestamente, seriamente, affrontando i documenti, guardando le carte geografiche, cosa che gli storici tendono a fare sempre di meno, sono giunti ad alcune conclusioni che possono parere sorprendenti ma che in realtà, se si guardano obiettivamente e freddamente le cose, non sono assolutamente sorprendenti.
Nel caso specifico di Pavan, in particolare, la prima considerazione — ma su questi aspetti poi si soffermerà più a lungo Antonio Sema — è quella che la località che noi conosciamo come Caporetto in realtà non è nient'altro che l'italianizzazione di un nome sloveno Kobarid, perché questa località si trova in territorio per così dire da sempre — per lo meno dall'Alto Medioevo — costantemente e compattamente abitato da sloveni. E ricorda quindi una cosa molto importante che tanti storici non hanno mai ricordato o sottolineato, dandola forse per scontata, ma scontata assolutamente non è. Vale a dire che per larghissima parte la guerra italiana, durante il primo conflitto mondiale, si è svolta su territorio — perlomeno per quello che è il fronte orientale, il cosiddetto fronte isontino — si è svolta in territorio abitato in larghissima misura (perlomeno nella parte dell'Alto Isonzo e del Vipacco fino a Gorizia) da sloveni, e che dietro a quella fascia confinaria c'era la Slovenia, c'era tutta la componente per così dire genericamente slava della monarchia asburgica, che quindi giocava un ruolo fondamentale anche nella conduzione della guerra. Quello che ha fatto tra l'altro nei suoi primi tomi Antonio Sema, quando ha messo in rilievo la componente etnica delle truppe asburgiche schierate sul fronte isontino. Scelte appunto tra quelle etnie, nazionalità dell'impero — tra quelle sedici nazionalità dell'impero — che si sapeva più fidate in quanto più risolutamente anti-italiane, che avevano un valido motivo per non disertare, per difendere con le unghie e con i denti, metro per metro quel territorio (che era non tanto il territorio della monarchia, quanto il territorio nazionale loro) dall'attacco di quello che era sentito come un nemico, l'Italia; all'interno di un discorso che rimandava a tensioni nazionali che non nascono con la fine della prima guerra mondiale ma vengono da molto più lontano, perlomeno dal 1848 in poi, accentuandosi dopo il 1866, via via attraverso i decenni.
Quindi, già questo induce a riflettere sia sulla collocazione storica da dare a Caporetto sia sul modo per molti aspetti approssimativo, schematico e superficiale con cui la vicenda della grande guerra è stata analizzata da certa storiografia, che non ha guardato tanto all'aspetto fattuale reale della guerra come è stata condotta: il teatro delle operazioni, chi effettivamente lì ci viveva in prima linea o nelle retrovie, ma ha guardato per così dire gli aspetti di secondo piano, di secondo livello della guerra, cioè la dimensione se volete propagandistica, psicologica, ideologica, tante altre cose, ma dimenticando il fattore primo, fondamentale: che la guerra si fa su un certo fronte, che corre in un certo territorio, che passa anche sulla testa di certe popolazioni civili all'interno di un contesto spaziale geografico nel quale si sono accumulate nel tempo tutta una serie di tensioni, di attriti, di varietà di rapporti tra le popolazioni locali. Nel caso specifico: italiani, sloveni e in una misura minore anche l'elemento austriaco o tedesco che dir si voglia.
Per quanto riguarda la struttura poi del libro di Pavan va sottolineato un altro merito: vale a dire che insieme con Pavan hanno lavorato tutta una serie di studiosi/e sloveni. Quindi un primo rapporto costruttivo di collaborazione tra studiosi dall'una e dall'altra parte del confine per analizzare una vicenda che ha riguardato, seppure in un'ottica diversa, entrambi i popoli. E a questo proposito va detto che è interessante appunto quest'apertura, questo dialogo con studiosi anche sloveni, perché la storiografia slovena, dopo il 1991 è venuta sviluppandosi in maniera interessante e significativa, anche se qui in Italia ancora se ne sa poco. E' merito dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di aver pubblicato recentemente alcuni saggi di studiosi sloveni tradotti in italiano su quelli che sono gli orientamenti e le tendenze della storiografia slovena sulla storia contemporanea. Nel prossimo numero della rivista della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia uscirà un contributo di un amico e collega di Nuova Gorizia il prof. Marušič su la storiografia slovena (non solo contemporaneistica) oggi, i suoi nuovi orientamenti e prospettive. L'Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione è da tempo che sulla sua rivista accoglie anche studi di colleghi sloveni. Quindi perlomeno da questo punto di vista le principali istituzioni storiche regionali stanno svolgendo quello che è il loro compito di raccordo tra culture diverse in un'area di frontiera.
E questo libro è uno dei primi risultati, direi, di questo nuovo rapporto, non più solo per quello che è stato il campo privilegiato di collaborazione tra studiosi italiani e sloveni in questo secondo dopoguerra: la resistenza, il fascismo e tutto quello che è accaduto di qua e di là dal confine, dal '18 al '47 almeno, ma anche sul periodo precedente, in particolare Caporetto che qui può essere assunto emblematicamente come termine per richiamare l'attenzione su tutta la guerra sul fronte isontino dal '15 al '18. Questo quindi è il primo elemento importante da sottolineare.
Secondo elemento, che in tutta la serie di testimonianze e documenti raccolti a costituire questo corposo primo dei tre previsti volumi, che dovrebbero poi coprire il periodo successivo fino alla conclusione della guerra, ci sono anche documenti e testimonianze orali di parte slovena.
Qualche cosa per la verità era stato fatto già relativamente al Goriziano, a Gorizia in particolare, dal maestro Camillo Medeot, con una serie di libri pionieristici comparsi alla fine degli anni Settanta e che hanno segnato un po' una svolta, sia perché davano voce anche ai civili, sia perché in qualche misura davano voce anche ai militari austriaci e comunque dell'armata imperiale, sia perché cercavano di rivalutare, di recuperare, all'interno di un certo discorso abbastanza complesso ma interessante e molto onestamente e correttamente condotto dal maestro Medeot, anche il ruolo dei cattolici del Goriziano. Ma questo è un altro discorso, che esula da questa sede e che potrà essere semmai ripreso in altra occasione. Comunque Medeot aveva già segnalato l'importanza sia della memoria individuale, dell'utilità di raccogliere queste testimonianze di chi allora bambino o ragazzino aveva vissuto le vicende belliche, o comunque di utilizzare i diari, gli epistolari, anche i compiti scolastici che in qualche modo potevano servire per capire come la popolazione locale avesse vissuto quelle vicende, nel caso specifico a Gorizia. E da quella volta, sulla scia di Medeot, onestamente e correttamente citato anche nel volume in più luoghi, anche se non ricordato nella bibliografia finale, si è operato anche all'interno di questo volume, dando in particolare spazio alle testimonianze di parte slovena, che viveva concretamente in questo territorio, dietro le linee austriache o nei territori occupati dagli italiani, con tutta una serie di problemi poi di amministrazione civile italiana nei territori occupati, di rapporti con la popolazione locale, di timori e preoccupazioni da parte delle autorità italiane di avere alle proprie spalle popolazione e elementi infidi che potevano servire anche all'Austria per infiltrare le proprie spie, i propri informatori, osservatori. Ma di questo parlerà Antonio Sema.
Altro elemento importante è che, con un discorso metodologicamente molto interessante, si dà voce per così dire non solo a una campana, quella italiana, ma anche all'altra. Cioè si mettono a confronto le notizie date negli stessi giorni, a proposito della stessa vicenda, cioè i giorni della sconfitta di Caporetto. Come questa vicenda veniva presentata dal Corriere della Sera, che era il principale quotidiano italiano, che in quel periodo (è giusto e corretto anche dare il dato: vendeva un milione e mezzo di copie al giorno), era il mass media per eccellenza in una popolazione molto meno alfabetizzata di quanto non sia quella italiana di oggi e con strumenti di informazione molto minori (non c'era la radio o era appena agli inizi, comunque non come strumento di massa e non c'era la televisione), e dall'altro lato il principale quotidiano sloveno, lo Slovenec. Quindi, da un lato la fonte ufficiale italiana, dall'altro per così dire il giornale più autorevole sloveno, con citazione però poi anche di tanti altri giornali, maggiori e minori, per esempio l'Eco del Litorale, organo del partito cattolico popolare del Goriziano, quindi del territorio asburgico, per mostrare come appunto viene vista la vicenda di Caporetto, dall'una e dall'altra parte: la sconfitta o rispettivamente la gloriosa vittoria; da un lato la perdita, dall'altro la riconquista dei territori appunto in contestazione dall'inizio della guerra, dal maggio del 1915. Può parere una cosa da poco ma finora, onestamente, nessuno l'aveva fatto e quindi emergono tutta una serie di dati, di notizie, di informazioni, estremamente interessanti e significative.
Quindi la valorizzazione delle testimonianze, della memoria storica, che però non è che venga privilegiata in assoluto (come tende a fare con troppa faciloneria certa storiografia oggi: esaltare al massimo la memoria), ma cerca di collocarla, di storicizzarla, di metterla a confronto con passi tratti per esempio dalle opere dei principali studiosi ed esperti di storia militare. Viene citata la Storia politica della Grande Guerra di Piero Melograni, vengono citati i lavori fondamentali… e anche questo è notevole, che Pavan ricordi il libro di metà anni Cinquanta di Monticone su La Battaglia di Caporetto. Libro che fra l'altro verrà recuperato e ripubblicato da Gaspari, facendo un'operazione utilissima, perché il libro è ampiamente esaurito e irreperibile e resta un testo fondamentale per capire la vicenda di Caporetto dal punto di vista anche strettamente militare oltre che nelle sue implicazioni in politica, cosa che Monticone — allora giovane studioso — ha saputo fare in maniera egregia. E Monticone è lo stesso che poi avrebbe curato e pubblicato Il diario di Angelo Gatti, lo storico per così dire ufficiale di Cadorna (che recentemente Il Mulino ha ripubblicato tale e quale, senza aggiornamenti sostanziali) e anche altre cose importanti: Monticone e Forcella, Plotone d'esecuzione su altri aspetti della prima guerra mondiale fino allora trascurati.
Quindi, dicevo, c'è sì la testimonianza, c'è la memoria orale, ci sono le memorie scritte, ma c'è anche il richiamo costante alla storiografia ufficiale più seria, più accreditata, anche accademica. I lavori anche di Isnenghi e di tanti altri e la memorialistica anche di parte austriaca. Non solo i libri di Fritz Weber ma per esempio il libro di Rommel, che ormai viene ricordato da tutti e andrebbe tranquillamente ristampato e rimesso in circolazione, perché irreperibile Fanterie all'attacco, pubblicato da Longanesi nel '72. E' un libro che è l'esperienza diretta di Rommel su questo fronte, visto che Rommel, giovane tenente era stato a capo di una di quelle unità speciali che avevano gettato nel panico l'esercito italiano con la nuova tecnica d'attacco, di cui si parlerà appunto tra poco.
Quindi questo libro è costruito su tutto questo impianto scientifico notevolissimo, che dimostra piena conoscenza e padronanza della storiografia italiana e anche straniera tradotta in italiano, e anche di quello che hanno fatto gli studiosi sloveni (non dimentichiamo che a Caporetto/Kobarid esiste un museo della battaglia di Caporetto che è tra i migliori e che ha avuto anche una serie di riconoscimenti e che ha un certo significato, ovviamente, all'interno della rilettura anche nazionale data dalla storiografia slovena di questa vicenda). Quindi il libro presenta tutta una serie di voci, si fonda sul sano e giusto principio storiografico dell'audiatur et altera pars. Lavoro che del resto era stato fatto anni fa anche in una bella collana di Arcana: Giulio Primicerj, generale triestino, studioso di storia militare, per esempio, che aveva pubblicato tutta una serie di documenti, di studi ufficiali di parte austriaca sulle operazioni su questo fronte e su quello trentino, molto belle e molto interessanti. Quindi il libro è un contributo prezioso che ci dà tutta una serie di spunti di riflessione. Anche, per esempio, le considerazioni sulle famose tavole di Beltrame che illustrano le pubblicazioni ufficiali italiane, che sono occasione per un discorso sulla propaganda e sul modo in cui la guerra viene presentata dai grandi mezzi d'informazione. L'immagine rassicurante, per così dire, di una guerra pulita, senza nulla di sporco, di sanguinoso, che deve rassicurare, confortare chi è nelle retrovie, al fronte interno, in casa. Non dimentichiamo tra l'altro che la fotografia di guerra è nata esattamente con questo scopo: Guerra di Crimea, critiche al modo in cui lo stato maggiore di sua maestà conduceva la guerra, le condizioni disastrose in cui vivevano le truppe inglesi in Crimea, e allora ecco che si mandano i fotografi a mostrare come invece i soldati di sua maestà Vittoria fossero allegri, vivessero nel migliore degli accampamenti e delle organizzazioni possibili, non gli mancasse niente, stessero benissimo, in questa piacevole scampagnata attorno alle fortezze di Sebastopoli, condividendo i piaceri della vita militare con il conte Tolstoj che era dall'altra parte del fronte. Quindi la foto di guerra, apparentemente l'obiettività in assoluto, nasce come operazione di mistificazione totale, come ulteriore elemento di lotta, sia pure non armata. Le considerazioni su Beltrame e su altre fotografie che compaiono sul volume aprono uno squarcio anche in questa direzione.
E Pavan si colloca quindi all'interno di una tradizione anche di utilizzazione di memorialistica, di testimonianze di civili e militari che da noi in Italia ha gloriose tradizioni, perché andrebbe anche ricordato un nome che è stato fatto troppo poco in questi ultimi decenni, storico liberale, scomodo, quindi emarginato e dimenticato, Adolfo Omodeo, che è stato un grandissimo storico del risorgimento, è stato anche colui che, tra i primi, insieme con Gioacchino Volpe ha scritto un libro fondamentale: Momenti di vita di guerra, costruito tutto sulla memorialistica dei giovani ufficiali di complemento, diari e lettere, tra cui anche quelle dei fratelli Stuparich, quelle dei fratelli Galante Garrone, libro bellissimo, pubblicato a suo tempo da Einaudi, oggi quasi introvabile, ma che è stato un libro prezioso per tanti aspetti. Ha mostrato una pista, ha indicato delle fonti, ha mostrato come queste fonti possono essere lette e utilizzate; questo, non dopo la seconda guerra mondiale, negli anni della moda, della scoperta della memorialistica, della voce dal basso, ma negli anni Trenta, quando — secondo certo cliché — la storiografia italiana era attardata, era chiusa, era provinciale, dominata dall'egemonia crociana e soltanto dalla Francia veniva il verbo della nuova storiografia. La Francia avrà avuto tanti meriti in quegli anni, ma Omodeo — e Volpe su un altro versante — stavano comunque mantenendo grande la storiografia italiana anche su questo versante.
E non dimentichiamo che per quanto riguarda questo tipo di testimonianze, di documentazione raccolto da Pavan, che è documentazione che viene dal basso, si possono poi fare tanti altri usi, qui solo in qualche misura, di sfuggita, accennati, altrimenti il libro sarebbe diventato un'enciclopedia, non più un semplice volume: il lavoro che è stato fatto da un grande filologo austriaco, Spitz, che leggendo le lettere dei prigionieri di guerra italiani, ha scritto un testo fondamentale sull'italiano dialettale. Aveva prigionieri da tutta Italia, di cui censurava la posta, lui era un grande studioso e quindi ha sfruttato l'occasione per studiare la lingua, il parlato, lo scritto di questi cafoni prigionieri delle armate imperiali; in larga parte, per Spitz, Caporetto è stato utile anche per questo.
Ecco che libri come questo si prestano a una quantità di letture diverse, tutte una più stimolante dell'altra. E' comunque un merito, sul piano generale, di questo lavoro di Pavan (poi nello specifico ne parlerà adesso Antonio Sema) aver proposto tutta questa serie di nuovi e diversi materiali sapientemente collegati tra loro in modo da presentare uno spaccato di Caporetto assolutamente nuovo e inedito. E tra l'altro il merito direi che va particolarmente sottolineato è che Pavan, che non è un accademico, non appartiene all'università, non appartiene a nessun grande istituto di ricerca, ha fatto un lavoro che istituti ampiamente finanziati, che hanno collane, riviste che si occupano espressamente di storia novecentesca finora non hanno mai fatto o se l'hanno fatto, l'hanno fatto in misura molto limitata e riduttiva. Direi che questo è un merito notevolissimo che va rilevato, che va sottolineato, per riconoscere tutto quello che si deve all'autore.
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venerdì 5 aprile 2013
Fulvio Salimbeni (Università di Trieste), 1997 - Presentazione "Caporetto" di C. Pavan
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