Era il 22 agosto 1993, festa di S. Romano. Mi trovavo sull'argine del Piave a Negrisia a vendere dei miei libri in occasione della sagra locale. Era un tardo pomeriggio, afoso. Mi si avvicinò un vecchio del luogo, Francesco Daniel, classe 1905.
«Avresti dovuto sentire, in questo posto, quando sono venuti i tedeschi, le pallottole come fischiavano! Noi avevamo scavato una trincea vicino alla casa e ci eravamo rifugiati dentro per tre giorni e per tre notti. Poi una granata colpì in pieno la casa, mandando all'aria tutto il granoturco che c'era nel granaio e ferendo con una scheggia il maiale che ormai pesava quasi due quintali. Allora mio padre, che era tornato dal fronte ferito a una gamba proprio il giorno prima che facessero saltare i ponti sul Piave, si rassegnò ad abbandonare tutto.
"Non si può più restare, bisogna partire!", disse. Uscimmo dalla trincea, e ce ne andammo senza niente, senza mettere piede in casa, lasciando il maiale che urlava dal dolore e le mucche in stalla che muggivano dalla paura e perché da tre giorni nessuno le mungeva. Ci avviammo verso Roncadelle, camminando curvi alla base dell'argine per non farci prendere dalle pallottole e andammo profughi a Vernasso, dopo Cividale, nel primo paese degli slavi, sulle case lasciate vuote dalla gente scappata dopo Caporetto».
La sera ormai stava calando, lo stand gastronomico iniziava ad animarsi, le onbre di cabernet giravano allegramente, era già stato acceso il fuoco e dalle griglie giungeva profumo di braciole e salsicce.
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Mi sembrava di essere tornato bambino, quando mio padre mi perseguitava con i suoi racconti di guerra che per un verso o per l'altro facevano sempre la loro comparsa a pranzo o a cena.
E io per un po' ascoltavo, per un altro po' fantasticavo e poi finivo per annoiarmi a sentir parlare di quei luoghi, di quei nomi, di quegli avvenimenti così lontani. Che poi erano sempre gli stessi: Scutari e l'Albania, raggiunta dopo una lunga traversata, coi soldati che vomitavano per il mal di mare; la Jugoslavia e i "ribelli" che avevano attaccato una notte in mezzo alle montagne il treno con cui stava tornando a casa in licenza; la Sicilia e Cefalù, dove lui che era del genio aveva costruito dei bunker con tanto di quel cemento…
Erano i racconti dell'ultima guerra, che mio padre, classe 1909, aveva fatto da richiamato. Racconti che raggiungevano il loro culmine i giorno in cui il suo amico e commilitone Vittorio Artuso veniva a casa nostra ad ammazzare il maiale. Era d'inverno e per l'occasione in cucina il fuoco restava sempre acceso. Alla sera dopo cena si beveva il vin brulè, e allora i ricordi fluivano liberi, per lunghe ore.
Per me erano come una fiaba, qualcosa di irreale.
E adesso, lì sull'argine del Piave, mi ritrovai immerso nella stessa atmosfera, con la differenza che Francesco Daniel non mi parlava dell'ultima, bensì della prima guerra.
D'un tratto mi resi conto dell'eccezionalità del fatto. Avevo davanti a me un testimone diretto di avvenimenti dei quali mi era arrivata solo qualche lontana eco nel racconto dei miei vecchi, da bambino; di cui poi avevo solo letto sui libri e che consideravo ormai come qualcosa di affidato definitivamente alla storia.
Il sig. Francesco quella sera era in compagnia del figlio di una nipote, ora abitante a Vercelli. C'era festa in casa e doveva tornare per cena. Lo salutai, ma prima mi feci dare il suo indirizzo, avvertendolo che sarei tornato il giorno dopo a trovarlo, per farmi raccontare con calma tutta la sua storia. Non potevo lasciar perdere una simile opportunità. Troppo importanti erano quei racconti dal vivo di una guerra studiata a scuola, poco e male.
Così, quattro anni fa sull'argine del Piave, ebbe origine questo libro.
Decisi di cercare altri testimoni, di ascoltare e registrare i loro ricordi sui giorni dell'arrivo dei "tedeschi", della fuga da casa, dell'esilio in Italia (per i più fortunati) o nelle province invase, dove invece regnava la fame.
Il materiale cresceva e contemporaneamente cresceva la necessità di contestualizzarlo. Perché i racconti dei testimoni erano avvincenti, ma non volevo che rimanessero solo delle belle storie del tempo di guerra. Per me infatti quelle testimonianze, sia pure di gente assolutamente comune, erano prima di tutto delle fonti e come tali andavano trattate, cercando di confrontarle con altre fonti, con quanto scritto nei libri, con quanto conservato negli archivi e sempre tenendo presenti le contemporanee operazioni militari.
Perciò non potevo scrivere della fuga dei civili dal Piave senza prima conoscere l'evento che l'aveva provocata, cioè la rotta di Caporetto.
Mi recai allora a Caporetto, in Slovenia, dove incontrai altri testimoni che ricordavano ancora l'arrivo degli italiani, cioè dei nemici, nei primi giorni della guerra.
Quello che doveva essere un volume di testimonianze da finire in breve tempo, veniva ad assumere, giorno dopo giorno, un aspetto diverso e sempre più complesso. Decisi pertanto di dividere il lavoro in tre volumi.
Il primo è questo, dedicato a Caporetto e limitato per la parte militare alla sola battaglia. Del secondo (ritirata dall'Isonzo al Piave) e del terzo (guerra sul Piave) sto raccogliendo testimonianze e documenti.
Speriamo di non metterci altri quattro anni ciascuno.
Treviso, 22 agosto 1997
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lunedì 18 giugno 2012
Libro su Caporetto, 1917 - Premessa dell'autore
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