giovedì 21 giugno 2012

Mario Blasoni - Recensione "I prigionieri italiani dopo Caporetto", C. Pavan 2001

Prigionieri della Grande guerra - Soldati italiani nei campi di prigionia dell'Austria, Ungheria, Germania, Cecoslovacchia - Prima guerra mondiale
Un volume sulle traversie degli italiani deportati
Il dramma della prigionia

Già poche ore dopo l'inizio della battaglia, centinaia di soldati italiani si riversarono nella conca di Caporetto, senza ufficiali, parte allegri e parte frastornati, agitando fazzoletti bianchi al grido di «Evviva la Germania!».
Con queste annotazioni poco edificanti sul nostro esercito si apre I prigionieri italiani dopo Caporetto, un crudo e realistico documento frutto d'una ricerca del trevigiano Camillo Pavan, che ne è anche l’editore. Ma si sa che la rapidità e le dimensioni del crollo dell'armata grigioverde furono tali da lasciare stupito lo stesso nemico. E generarono nella truppa allo sbando un’euforia, un senso di liberazione: «La guerra per noi è finita, la pelle è salva!». Seguì, però, un brusco risveglio con le massacranti marce verso i campi di concentramento del Centro Europa e, una volta arrivati, con privazioni e sofferenze indicibili davanti a un nemico ben più implacabile e spietato: la fame.
Ma quanti furono i prigionieri dopo Caporetto? 276.500 secondo i bollettini ufficiali austro-tedeschi e italiani. Dai primi 10 mila del 25 ottobre ai 40 mila del 28, agli 80 mila fra il 31 ottobre e il 3 novembre. La rotta del 1917 causò, insomma, quasi la metà dei prigionieri di tutta la guerra 1915-'18, che furono 600 mila. E a questi vanno aggiunti i 16 mila civili deportati dagli invasori (ne morirono 3 mila).
Naturalmente ci furono anche i valorosi che si arresero solo dopo aver strenuamente combattuto, perché l'offensiva austro-tedesca fu tutt'altro che una passeggiata: «Alla fine di novembre, quando si conclusero anche le ultime operazioni conseguenti allo sfondamento del fronte e all'inseguimento dell'esercito italiano, le perdite delle forze armate degli Imperi centrali furono valutate intorno a 70 mila uomini, mentre i caduti furono circa 12-15 mila». Il libro riporta, tra gli altri, l'episodio del colonnello Spinucci, morto a Flambro alla testa dei suoi granatieri, raccontato da uno dei superstiti, Giuseppe Giuriati di Treviso. A rendere avvincente questo libro del dopo-Caporetto, è proprio l'incrociarsi dei resoconti autobiografici. L'autore ha attinto, fior da fiore, da una serie di diari di guerra di autori illustri come Curzio Malaparte e Carlo Emilio Gadda, ma sopratutto di umili soldati, scritti anche qualche decennio dopo gli eventi.
La prigionia diventa drammatica quando cominciano le marce verso l'interno: decine di migliaia di soldati sospinti come mandrie, sorvegliati da pochissime sentinelle e mitragliati e bombardati dalle nostre artiglierie (il “fuoco amico”, come fu chiamato per definire, tra l'ironico e il cinico, l'atteggiamento verso “i vigliacchi che si sono arresi”). Prima tappa il campo di concentramento di Cividale, poi i viaggi interminabili con le tradotte in Austria, Germania, Cecoslovacchia. Anche cinque giorni senza un cucchiaio di rancio... I nostri prigionieri furono decimati dalla fame e ciò non deve stupire se si pensa che anche le popolazioni locali, pur in qualche caso generose con gli italiani vinti, erano in grandi ristrettezze alimentari. E lo stesso esercito austro-ungarico non era in grado di scialare. Alessandro Pennasilico rievoca lo scambio d'un orologio d'oro con una scatoletta di carne a Loqua, sulla Bainsizza, mentre il friulano Francesco Isola, prigioniero in Westfalia, racconta che gli alleati francesi e inglesi ricevevano pacchi alimentari da casa. Gli italiani invece no, il Comando supremo si oppose a questi invii anche allo scopo di “porre un freno alla diserzione”. Solo nell’agosto 1918, in seguito alle crescenti proteste internazionali e alla campagna di stampa dell'Avanti!, fu deciso un “esperimento” di spedizione di gallette da parte del governo italiano. Quaranta vagoni giunsero in Austria tra fine settembre e ottobre, altri 15 arrivarono in Germania solo a guerra finita!
La grande protagonista del libro di Camillo Pavan è, dunque, la fame, «la continua, orrenda fame». L'aspirante ufficiale torinese Attico Dadone, ragazzo del ’99, racconta del compagno di sventura Augusto Perosimo di Torino, sottotenente d'artiglieria, che nel campo di Crossen sull'Oder si era specializzato nella cattura dei topi di fogna: «Scuoiati alla meglio, li arrostiva sulla stufa e se li mangiava fra la riprovazione quasi universale. Diceva che erano ottimi». Tristissimo e toccante è il racconto Natale 1917, del già citato Dadone, sulla squallida realtà di quel «pranzo di festa». Ma ci fu anche chi riuscì a trovare qualche momento d'ironia, come lo scrittore milanese Carlo Salsa che tradusse Krigsgefangelager (campo dei prigionieri di guerra) in Cristchefamdelader (Cristo, che fame ladra!).
Mario Blasoni
Il Messaggero Veneto, Udine - Giovedì 1 novembre 2001
  

Nessun commento:

Posta un commento