Danilo Gasparini, Presentazione del libro Raici di C. Pavan
- In navigazione sul fiume Sile, il 25 novembre 1992 -
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Camillo Pavan e Danilo Gasparini. |
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Il salone della motonave Silis durante la presentazione. |
«Questo libro è (…) notevole sotto diversi punti di vista. È una storia globale (…) quasi totale, perché, attraverso il radicchio, attraverso questa particolare lettura, ci offre uno spaccato di un secolo di vita contadina, e non solo.
(…) Il radicchio è in prima pagina; sullo sfondo ci passano tutti i grandi avvenimenti di questa storia. È una storia di una coltura; è una storia di una cultura; oltretutto, una storia di uomini, di tecniche, di tecniche anche inventate, come lo è spesso quando i contadini diventano anche inventori. È la storia anche di un patrimonio linguistico, con questo continuo confronto (…) tra il linguaggio usato da chi ci lavora, nel radicchio, e invece il linguaggio forbito e tecnico degli agronomi. Curar raici diventa per gli agronomi la toelettatura: è il radicchio che si fa bello. (…)
Un’altra cosa, e questo è un merito che va riconosciuto a Camillo, è che lui usa in maniera molto abile e competente le fonti orali. Da quando ha incominciato con il Sile, i primi lavori sul Sile, c’è stata sempre questa sua preoccupazione continua di raccogliere le testimonianze di chi ha lavorato, di chi ha vissuto, e di fonderle assieme alla documentazione archivistica, di fonderle assieme alla documentazione bibliografica. (…)
Una delle cose più belle dei suoi libri [è] proprio questa sua attitudine umana a rendere partecipi, nei suoi lavori, nei suoi libri, chi intervista, i protagonisti. In questo caso intere famiglie e generazioni di contadini che hanno lavorato.
È questa una capacità unica (…) spero che tutte queste registrazioni siano dentro a un archivio perché penso che diventino, (…) saranno senz’altro, un grande patrimonio…»
Trascrizione integrale
(In attesa di superare la chiusa di Silea)
Vi rubo poco tempo, perché penso che valga la pena di uscire anche da questa chiusa per vedere poi le meraviglie di questo [fiume].
Quando Camillo mi ha proposto di presentare questa sua ultima fatica, io ho accettato più da amico che da storico, come lui mi considera. E quindi parlerò in questi termini.
Io lo conosco da anni, me lo ricordo nelle sue prime timide apparizioni in archivio di stato, portato per mano da Mauro Pitteri.
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Mauro Pitteri all'archivio di Stato di Treviso nel 1983. |
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Allora era quasi schivo nell'affrontare le fonti, come lo siamo tutti quando entriamo per la prima volta in un archivio, e me lo ritrovo oggi invece, dopo alcune fatiche che noi conosciamo già, come un consumato artigiano. Perché penso che questo aspetto dell’essere uno che si costruisce i libri, si fa la ricerca, se li vende e si fa tutto, penso che sia una caratteristica unica.
L’altra cosa che mi ha piacevolmente sorpreso è che l’avevo quasi intuito che prima o dopo sarebbe arrivato a fare una storia del radicchio. L’autobiografia ci ha abituato a tanti oggetti. Vale la pena quindi, anche di dedicare alcune pagine a questo oggetto particolare che è il radicchio.
La fatica che Camillo ha concluso con questo libro direi che è notevole sotto diversi punti di vista. È una storia globale, se vogliamo dire, quasi totale, perché, attraverso il radicchio, attraverso questa particolare lettura, lui ci offre uno spaccato di un secolo di vita contadina, e non solo.
Praticamente il radicchio è in prima pagina; sullo sfondo ci passano tutti i grandi avvenimenti di questa storia. È una storia di una coltura; è una storia di una cultura; oltretutto, una storia di uomini, di tecniche, di tecniche anche inventate come lo è spesso quando i contadini diventano anche inventori. È la storia anche di un patrimonio linguistico, con questo continuo confronto che lui fa tra il linguaggio usato da chi ci lavora nel radicchio e invece il linguaggio forbito e tecnico degli agronomi. “Curar raici” diventa per gli agronomi la “toelettatura”: è il radicchio che si fa bello. Quindi c’è tutto questo…
Un’altra cosa, e questo è un merito che va riconosciuto a Camillo, è che lui usa in maniera molto abile e competente le fonti orali. Da quando ha incominciato con il Sile, i primi lavori sul Sile, c’è stata sempre questa sua preoccupazione continua di raccogliere le testimonianze di chi ha lavorato, di chi ha vissuto, e di fonderle assieme alla documentazione archivistica, di fonderle assieme alla documentazione bibliografica. È questa una capacità unica, sua. Registra e trascrive. Spero che tutte queste registrazioni siano dentro a un archivio perché penso che diventino ad un certo punto, saranno senz’altro, un grande patrimonio.
Detto questo [...] veniamo al lavoro su questo radicchio trevigiano.
Il lavoro — voi lo avete già per mano — è ben organizzato, nella sua struttura. È ben organizzato ed è diviso in sezioni che raccontano grosso modo la storia di questa coltura, sia dal punto di vista storico, sia dal punto di vista bibliografico, commerciale, con tutta l’ampia rassegna data alle mostre, sia poi — alla fine — con un’appendice di tipo gastronomico e letteraria. Quindi c’è dentro tutto.
La storia. La storia di questa pianta è molto simile a tante altre storie di piante e di colture che accompagnano la storia nostra, la storia contadina e la storia della nostra cucina, anche. Il prima, il chi l’abbia portato, chi l’abbia seminato, chi l’abbia piantato per primo. Qui, come sempre, le ipotesi sono varie. E lui le cita tutte. In maniera molto filologica, parla di tutte le attribuzioni possibili e immaginabili. Mi pare che a pagina 28 c’è, grossomodo, la tesi sua; che è una tesi che possiamo tranquillamente fare nostra. «È evidente - scrive Camillo alla fine di tutta la rassegna che lui fa - che si tratta di una pianta endemica, o comunque naturalizzata in loco ormai da secoli». A me vengono in mente i proclami vari che i podestà di Treviso facevano quando dovevano garantire il rifornimento della città e i contadini arrivavano al mattino da tutto il circondario della città con le loro carriole cariche di erbaggi, cariche di prodotti dell’orto e in mezzo ci sarà stata anche quella cicoria, molto probabilmente.
Poi come, da questa comune cicoria si sia passati al radicchio rosso, ecco, questa è una storia molto recente, ci dice Camillo. Lui passa in rassegna un po’ tutte le fonti: dai testi degli agronomi, dei nostri agronomi trevigiani, da Agostinetti a Santo Benetti a Ortensio Lando che, nel suo giro gastronomico per tutta l’Italia, per Treviso cita giustamente i gamberi e le trippe. Consulta il Fappani, consulta gli Atti preparatori del Catasto Austriaco, si prende la briga di andare a vedere i registri di contabilità del monastero di San Nicolò. Perché? Perché San Nicolò aveva una “possessione” a Dosson e Dosson sembra essere — dalle sue pagine mi pare che lo è — la patria [del radicchio].
Con tutte le informazioni che ci dà sulla leggenda, su questo campanile fatto a forma di cesto, con le testimonianze orali della famiglia De Pieri - però giustamente una sua intervistata dice del ramo dei Fasci, non quello… -
E poi questa storia che incrocia nel suo percorso Van den Borre e l’attribuzione quindi ai suoi vivai di questa coltura, di questa estensione di questa coltura, fino ad arrivare al 1862. Il 1862 è un anno, diciamo, possiamo fissarlo come anno di prima testimonianza chiara, mi pare di capire. Ne L’Agricolo, almanacco per il 1862, quando si fa l’elenco di lavori stagionali, a un certo punto si parla… che in questa stagione… appunto, «… s’imbiancano nella terra coperta di foglie secche i radichi bianchi e rossi». E da qui il percorso comincia a diventare abbastanza facile.
Dicevo, parlando con lui l’altra sera quando è venuto a portarmi su il libro, che la storia di questi progressi improvvisi, di queste nascite di colture nuove, è un po’ legata a quella che è la profonda psicologia del contadino, che ha una forte attitudine sperimentale. [attitudine sperimentale del contadino]
Cioè una forte attitudine a tentare e a trovare (…)
[Interviene Glauco (Bruno) Stefanato, comandante del Silis e parla del “cimitero dei barconi” che si sta costeggiando]
Riprende a parlare Gasparini.
E poi segue, praticamente, la storia di questo radicchio dal 1870 con l’istituzione dei “Comizi”, con l’inchiesta Jacini, con la relazione di Vettorussi e, il 19 dicembre del 1900, data della prima mostra del radicchio. Inizia per il radicchio di Treviso la storia del suo marketing, diciamo, della sua commercializzazione, della sua promozione. I primi viaggi all’estero già nell’84, mi pare.
Ecco, nel suo libro poi, quando lui ci racconta le diverse edizioni delle mostre, oltre a darci l’elenco dettagliato, importantissimo, dei vincitori di queste mostre, ne approfitta per farci scorrere sullo sfondo i grandi avvenimenti.
Così abbiamo le lotte contadine, abbiamo la Grande Guerra, abbiamo il fascismo e le “sanzioni”. A proposito delle “sanzioni” mi è piaciuto, nel ’35 quando tu citi alcuni proverbi… eccolo qua… «No gavemo paura de sanzion – co sti radici, e un quarto de capon», oppure «Che le sanzion no riva a farne dani – lo dise anca i radici Trevisani», quindi c’è una sorta di uso [politico] del radicchio.
Poi il dopoguerra, l’interruzione, e la stagione di ripresa, a partire soprattutto dagli anni ‘80.
Ecco, alla fine, voi troverete nel volume … che dentro ha dei protagonisti eccellenti, Giuseppe Benzi, Caccianiga, tutti questi personaggi che hanno lavorato per lo sviluppo dell’agricoltura trevigiana … alla fine troverete un’antologia delle principali monografie dedicate al radicchio rosso trevigiano. Sono molte, dal 1879, quella del Vettorussi, all’ultima, del ’91, di Corrazzin. C’è un’antologia molto dettagliata di tutto questo.
Alcuni testi letterari tratti da Maffioli e da Zanotto, poi anche Boccazzi … e alla fine ci sono queste ricette di Giancarlo Pasin che vi invitano senz’altro a provarle.
Ecco, io non voglio rubarvi altro tempo … per gustare anche il panorama. Diciamo che è una fatica la tua, Camillo, che agli storici insegna molto. Insegna molto perché è un momento in cui la riflessione storica arriva fino al presente. E un’altra cosa importante è la tua grande capacità, lo sottolineo, di saper usare fonti di diverso tipo, di metter[l]e assieme, e di far parlare soprattutto i protagonisti.
Una delle cose più belle dei suoi libri sono proprio questa sua attitudine umana a rendere partecipi - nei suoi lavori, nei suoi libri - chi intervista, i protagonisti. In questo caso intere famiglie e generazioni di contadini che hanno lavorato. E un’altra cosa che mi è piaciuta moltissimo, e qui il gioco sulle parole è anche scontato ... questo naturalmente è il libro delle tue radici, se vogliamo giocare con le parole, e questo omaggio che tu fai alla figura di tuo padre che muore proprio andando a raccogliere il radicchio è il miglior omaggio che tu potevi fare e penso senz’altro che se fosse qui sarebbe orgoglioso di questo omaggio.
Ti ringrazio per avermi reso partecipe di questa occasione e auguro un successo a questa tua ultima fatica. Grazie.
Intervento di Camillo Pavan
Non dovevi citare, proprio alla fine, questo fatto di mio padre, comunque ti ringrazio soprattutto perché, di solito, quando qualcuno fa una presentazione, non legge il libro; cioè dà un’occhiata, e così, a occhio, dice qualcosa, mentre tu dimostri proprio di aver letto approfonditamente il libro. E di questo ti ringrazio.
Io non dico nient’altro, perché hai già detto bene, tutto, e anche perché abbiamo la concorrenza spietata del Sile … e i radicchi continuano per forza a passare in secondo piano. È troppo bello il Sile in questa stagione, è veramente una meraviglia.
Volevo solo cogliere l’occasione per ringraziare i fratelli Stefanato che, ancora una volta, hanno messo a disposizione [con] la signorilità che li contraddistingue, questo battello. È già la seconda volta. Ormai posso dire di essere loro amico, e li ringrazio veramente perché hanno fatto non una sponsorizzazione, [ma] qualcosa di più, proprio un gesto di amicizia.
Volevo anche ringraziare le due persone, i due cuochi, i due gastronomi, che poi ci faranno assaggiare le loro squisitezze. Qui sono un po’ in imbarazzo, perché sono in due e non so chi citare prima.
Non me ne voglia Bruno Secco, se prima di tutti cito Giancarlo Pasin. Perché? Perché fino alle nove di ieri sera era a Mosca. È un cuoco che ho chiamato l’ambasciatore della cucina trevigiana. Alle due, adesso, dovrà prendere l’aereo per Zurigo. Nel frattempo ha detto: «Camillo, non preoccuparti, starò su anche di notte, ma ti preparerò qualcosa». Quindi, mi sembra giusto ricordarlo e ringraziarlo prima di tutti: Giancarlo Pasin.
Con questo non voglio mettere in secondo piano, ovviamente, Bruno Secco, il quale ha lavorato veramente con impegno, con passione e con fantasia e ha saputo valorizzare questo vecchio, questo antico prodotto della terra di Treviso, proprio dando qualcosa di nuovo nelle sue ricette. Sempre tenendo presente le sue origini. Anche [per] lui, è il caso di dirlo, si può parlare di “radici”. Perché sua madre aveva un’osteria proprio alle sorgenti del Sile e guarda caso, oggi ci troviamo qui, nel medio corso del Sile, e Bruno Secco potrà presentarci le sue invenzioni gastronomiche, che certamente sapremo apprezzare …
Detto questo, godiamoci il Sile, ricordando però il caso specifico del mio libro che — come giustamente diceva Danilo — è un lavoro artigianale. Ormai non ho un gran feeling, diciamo così, con politici e gente del genere. Non che gli voglia male — sono stato anche un anno consigliere comunale, ho fatto il mio dovere; fin che ho potuto son rimasto lì — però i loro tempi non coincidono con i miei. Ti promettono, dicono: «Sì, forse ti daremo i soldi, vedremo, fra un anno, fra due, fra tre. Nel frattempo, io, il libro faccio a tempo … a non farlo». L’ho fatto ancora una volta da solo. Mi auguro che questo giro promozionale abbia poi anche dei frutti pratici. Scusatemi se dico queste cose: sono un lavoratore, non mi vergogno se non ci rimetto ... e vorrei anche guadagnare qualcosa!
Detto questo, buon divertimento!
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