mercoledì 27 giugno 2012

Alle Porte del Sile - (C. Pavan 1989)



Portegrandi 
di Camillo Pavan

Fino al 1683 Portegrandi non esisteva. Esisteva invece un’osteria in località Bocca di Valle, che vediamo raffigurata in un disegno del Sopraintendente alla diversione del Sile Moscatelli. Cosa ci facesse un’osteria in quel luogo è facilmente immaginabile, dato che la zona era  posta a cavallo fra le terre alte e la palude, fra i campi seminati e la valle: in “bocca” di valle, appunto.
A quei tempi l’osteria era qualcosa in più che un semplice spaccio di vino: era un punto di riferimento e di rifornimento alimentare per i barcari del fiume, i contadini delle campagne e i rari abitanti delle valli.
Fu con il taglio del Sile che, attorno alle “porte nove”, si formò un primo sia pur esiguo nucleo abitato. All’osteria, che fu spostata a monte della conca, si aggiunse la casa dei portinari e degli addetti al dazio e alle “bollette”. Qualche anno più tardi venne eretta anche la chiesa, piccola, poco più che un oratorio, e intitolata alla Madonna del Carmine 1.
Il sorgere di questo modesto nucleo abitato non migliorò comunque la realtà del luogo che, anzi, venne compromessa dall’apertura del taglio e  dal conseguente impaludamento anche di terreni che prima erano fertili. Il catasto napoleonico è al riguardo estremamente preciso: fra Trepalade e Portegrandi, all’inizio dell’800, ci sono complessivamente diciannove costruzioni, comprese le due osterie, le due case della ricettoria di finanza e una del guardian delle porte. Il che vuol dire che per tutto il restante territorio di 12,61 Km2 rimanevano 14 case: circa una ogni Km2. Una desolazione fatta di valli palustri e di malaria; un posto da cui stare alla larga.
Verso gli anni ’30 del secolo XIX cominciarono, nella zona di Altino-Trepalade, i primi tentativi di bonifica 2, ma il territorio di Portegrandi sarà gradualmente recuperato alla fertilità solo a partire dall’inizio di questo secolo. Artefici i Veronese, originari da Montecchio Vicentino, che nel 1905 acquistarono le campagne dai mantovani Forti 3.
Mano a mano che i terreni venivano strappati alla palude, si iniziavano a costruire anche le case; poche, sparse, e abitate dalle tipiche e numerose famiglie mezzadrili. Fulcro del paese resterà comunque, anche con il progresso “morale e civile “ di tutta la zona, la conca di navigazione, con le sue porte, alle quali confluiva il traffico fluviale da (e per) Venezia.
E assieme con le porte il vero cuore pulsante del paese continuava ad essere l’osteria. La chiesa invece aveva poca importanza; vi veniva alla domenica un prete a dir messa, ma non era parrocchia.
All’osteria facevano capo le due anime del luogo: quella antica dei barcari, naviganti senza radici e quella recente dei mezzadri. Non era una coesistenza alla pari. Per quanto sfruttati, per quanto conducessero una vita dura e in balìa degli elementi e di esosi impresari, i barcari scesi dal burcio ed entrati in osteria erano pur sempre dei signori. Debiti raramente ne lasciavano e el franco per il litro di vino non mancava mai. Non era così per braccianti e mezzadri che all’osteria ci andavano soprattutto per stare in compagnia e, più che bere, si limitavano a guardare i barcari che bevevano e facevano baldoria, visto che loro non sempre riuscivano a pagare il conto della spesa.
Dell’osteria di Portegrandi in questo secolo ci parla Dante Marchetto (classe 1910) che vi ha passato una lunga stagione della sua vita, a partire dagli otto anni di età, e che ben a diritto può dire di essere stato testimone e protagonista ad un tempo della storia recente di questa strategica località alle porte del Sile. Marchetto ricorda il periodo fra le due guerre, quando per la conca passavano una media di trenta-quaranta e a volte cinquanta burci al giorno. Era quella anche l’epoca della “battaglia del grano”, quando raggiunse il suo apice un’economia agricola basata prevalentemente sulla mezzadria e sull’impiego del gran numero di unità lavorative che caratterizzavano le famiglie patriarcali.
Ma Dante ha vissuto anche l’inarrestabile e rapido declino del paese, iniziato quasi all’unisono con l’espulsione dalle campagne dei mezzadri e, dal fiume, dei barcari. Un’epoca tramontava per sempre, in quei “favolosi” anni Sessanta e Dante Marchetto — oste, casoìn e animatore della vita di Portegrandi — che quell’epoca l’ha vissuta nell’osservatorio privilegiato della sua osteria, ci aiuta a capirla.

L’osteria da Marchéto

Era il 1918, la guerra era appena terminata e paron Veronese volle premiare la fedeltà di chi lo aveva servito in quegli anni difficili, quando pochi erano rimasti nelle case di Portegrandi.
Un giorno chiamò nell’ufficio (el mesà) Giuseppe Momi Marchetto, il padre di Dante. «Senti Momi, gli disse, varda che mi me ricordo che ti te sì stà qua e te me ga tendùo a agensìa. Ghe sarìa libera a ostaria dee Porte o, se te vol, de ndàr far el sorvegliante so a filanda de Casal; varda  ti» ( … guarda che mi ricordo che sei rimasto qui a vigilare l’agenzia. Ci sarebbe libera l’osteria delle Porte o, se vuoi, ci sarebbe da fare il sorvegliante alla filanda di Casale). Momi non ebbe dubbi e scelse l’osteria.
All’epoca il locale sorgeva più a sud di dove si trova ora ed era anche molto più vicino alla conca (proprio di fronte all’attuale edificio del Magistrato alle Acque), tanto che quando passava un carro carico di strame, proveniente dalla palude di Ca’ Deriva, dovevano chiudere porta e
balconi, per permetterne il transito. Quando la famiglia Marchetto, padre madre e cinque figli (due femmine e tre maschi) vi entrò, l’osteria era completamente priva di ogni arredo. Bisognava darsi da fare.
Per i bicchieri si arrangiarono con le scatolette di carne vuote, lasciate dai soldati, alle quali smussarono il bordo e applicarono un manico col fil di ferro. Più tardi trovarono le “misure” in terracotta — da mezzo litro e da litro — per il vino, che compravano da Veronese. Nel frattempo i prigionieri ungheresi che avevano lavorato in agenzia (fra i quali Dante ricorda Kociss, un falegname particolarmente bravo), prima di tornare a casa avevano costruito un banco mescita in legno.
Così l’osteria riprese il suo ritmo normale. Ma «gaémo fato na vita noantri», ricorda Dante, «na vita in ostaria … robe da schiavi!». (Abbiamo fatto una vita noi, una vita in osteria … robe da schiavi!). Sempre pronti a smussare le tensioni, ad evitare che il clima si surriscaldasse, sempre a disposizione di una clientela difficile come quella dei barcari. Perché l’osteria di Portegrandi era come un porto di mare. «Ghe iera comacesi, da Codigoro, mantovani, padovani, furlani, da Motta, … ».
All’osteria i barcari sostavano in attesa dei cavalli, se dovevano risalire il fiume, e della marea e del vento, se dovevano proseguire per la laguna. Di solito partivano verso l’una o le due di notte «e ora i alsàa ste vée e co l’andamento dell’aqua in ndàa ‘so´»(allora alzavano queste vele e con l’andamento dell’acqua andavano in giù, verso la laguna).
In attesa del vento nei tavolini dell’osteria il vino e, in stagione, la birra, correvano a litri; si giocava a carte e si cantava. A volte scoppiavano delle risse furibonde, come è normale in ogni osteria di porto; frutto inevitabile del vino o di mai sopiti rancori. Ma erano episodi tutto sommato isolati, causati da alcuni personaggi che l’oste ricorda ancora con un misto di disprezzo unito ad una certa qual ammirazione per le imprese di cui erano capaci.
Un personaggio negativo emerge fra i tanti ... 



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Note 

1 Archivio di Stato Venezia, Catasto Napoleonico, Sommarioni, n. 88.
2 F. Fapanni, Memorie storiche della congregazione di Casale, ms. 1366, Biblioteca Comunale di Treviso.
Informazione di Guerrino Vazzoler, Portegrandi.
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© 1989, dal libro Sile. Alla scoperta del fiume

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