martedì 26 giugno 2012

Gaetano Lanaro / Sile, Bonifica sorgenti, Zone Umide , Casacorba ...




Terra o acqua?
Le bonifiche di questo secolo alle sorgenti del Sile

La grande guerra era appena finita e anche la gente di Casacorba, Cavasagra e Albaredo aveva avuto i suoi tristi regali: capifamiglia finiti nei tanti ossari del Carso o del Piave, campagne abbandonate, raccolti requisiti. A Cavasagra la villa era diventata quartier generale della terza armata di Caviglia; in paese si erano in qualche modo sistemati buffi scozzesi in gonnellino e Arditi prepotenti. Tra un’impresa e l’altra avevano compiuto soste nelle retrovie e si erano dedicati ad esercitazioni con bombe a mano; e il luogo più adatto era ovviamente un angolo del palù, quelle terre maledette che non si lasciavano coltivare. Gli Arditi, poi, come d’abitudine, avevano esagerato e, per ottenere un fortilizio adeguato, di un bel bosco di roveri e pioppi avevano fatto un deserto.
Ora la villa era tornata ai Frova, Caviglia era stato decorato e degli Arditi rimaneva solo qualche figlio regalato a ragazze sfortunate.
Era ripresa la magra vita di sempre, con le troppe bocche da sfamare. I piccoli proprietari erano spesso indebitati; coi Frova, i Di Broglio e i Gritti correvano contratti umilianti, gli stessi che il 30 novembre 1907 avevano portato all’esasperazione collettiva e all’incendio della barchessa della villa a Cavasagra 1.
Ma quello che esasperava in maniera altrettanto logorante era la presenza di quelle terre inpalù: così vicine ma così inutilizzabili, così nere ma così sterili! Avere i campi a portata di mano ed essere costretti ad emigrare!
E poi quella maledetta umidità: partiva dalla terra, avanzava dentro le case, anneriva i muri, faceva gocciolare gli armadi, inzuppava i pagliericci, penetrava nelle ossa, intisichiva i polmoni. Implacabilmente distribuiva un po’ a tutti un’asma o una bronchite, una tubercolosi o dei reumatismi. Al resto pensavano le zanzare.
Ormai era chiaro a tutti che il nemico era uno solo: l’acqua.
Era l’acqua sorgiva che rubava raccolti, era l’acqua sorgiva che faceva ammalare.
Occorreva la bonifica, lo diceva anche Mussolini.
Ne valeva la pena anche a costo di rinunciare agli indubbi vantaggi che il palù comportava; pochi ma significativi in un’economia di sopravvivenza.
Il pesce, per esempio: bisate, tinche e marsoni. Con l’abilità dettata dalla tradizione e dalla fame si potevano pescare con l’amo ma, meglio ancora, con l’uso delle varie reti:negossenegossoni e redesine. I più esperti si armavano di fòssina (fiocina), infilzando il pesce quando toccava il fondo. Oppure ancora, specialmente per le bisate, si costruivano ai mulini apparecchi fissi, “una camera ad imbuto fatta di liste di legno come una capponaja; una volta dentro il pesce non ne può più sortire perchè viene abbassata la bova e rimane in secca”. Oppure, “un vero mezzo di sterminio”, si prosciugavano i fossi “mediante pale e gorne”. Così relazionava il sindaco nel 1877 rispondendo a quesiti postigli dalla Regia Prefettura circa i sistemi di pesca 2.
In un documento del 1882, poi, si dichiara il nobile Gritti l’unico in possesso di pescaia e diritto di pesca “nella località di Casacorba, in un suolo di sua proprietà sul Sile. Nel 1892, su richiesta del Gritti e con la collaborazione di una ditta di Belluno, “in questa sorgiva ed immissaria delle sorgive del fiume Sile, nella località denominata al Ponte Storto e alle Prese, si esegue una immissione di 7000 gamberetti e 125 riproduttori di gamberi”. Il sindaco è convinto, e ne siamo certi, “che la semina avrà degli effetti sicuri ed anzi sorprendenti ... e che i gamberi avranno eccellenza di gusto” 3.
Ma il palù non offriva solo pesci o rane, ottime anche quelle.
Roveri, pioppi, frassini, olmi e ontani costituivano una grossa riserva per legna da ardere o da lavorare. La carice dei prati, specialmente nelle prese, finiva come stramaglia per le bestie. La lunga esca, racolta lungo gli argini dopo S. Pietro, veniva venduta ai careghéta friulani. Con le canne e i saetti si erigevano casoni o si ricavavano spazzole.
Alcuni, ricchi possidenti, andavano a caccia; molti si accontentavano di raccogliere i funghi. E per spostarsi da una strada all’altra spesso era d’obbligo la barca, tirata fuori da casa in primavera.
Qua e là c’era stato qualche tentativo di risaia. Ai margini del palù veniva coltivata la canapa.
Ma tutte queste risorse erano considerate di ripiego.
I grossi proprietari come investimento, i piccoli come rimedio alla fame e alle malattie, tutti coltivavano il sogno di prosciugare, bonificare, coltivare.
Con Regio Decreto 27.10.1927 si era costituito il  ...




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1 Stare a Vedelago, una storia per sette paesi, Vedelago, 1981, p. 277.
2 Archivio comunale di Vedelago, b 79, fasc. 60, 1877.
3 Archivio comunale Vedelago, b 8, fasc. 124, 1892.
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Ringrazio il sig. Olindo Bordignon, di Casacorba, per le numerose e dettagliate testimonianze.


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© 1989, dal libro Sile. Alla scoperta del fiume di Camillo Pavan

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